domenica 21 ottobre 2018

L'insospettabile femminismo di Ghostbusters

Qualche sera fa ero in uno di quei momenti che io chiamo di "tedio esistenziale", in cui sono così insofferente alla vita da snobbare con sdegno qualsiasi attività neanche fossi un principino rinascimentale. In questi drammatici istanti, di solito, c'è solo una cosa da fare: mangiare e darsi ai film d'intrattenimento, ovvero quei film con così poche pretese da rendersi simpatici a prescindere dall'esito dell'esperimento. 
Capirete logicamente che questo post non parlerà della mia ancestrale passione per il cibo spazzatura e, se il modo di dire dice il vero, per cui "se non è zuppa è pan bagnato", è evidente che si finirà a parlare del film che ha attenuato i miei disagi, ovvero Ghostbusters, versione 2016. Parliamoci chiaro: il nuovo Ghostbusters è stato il film che ha offeso più persone di Donald Trump, e questo ancor prima di essere proiettato nelle sale. Un vero record. Il fandom si è levato in una sol voce per condannare l'Onta, il terribile Oltraggio di colui che ha osato disturbare il riposo della Gioconda degli anni '80, ovvero il celebratissimo fratellino più grande che aveva fatto la storia dei marmocchi che furono (e di una puntata di Stranger Things). Cosa sembra insegnarci questo nuovo film, quindi? Mai toccare la mamma ad un motociclista ed un cult movie ad un fan snob: il passo verso la trasformazione in Regina di Cuori, in questi casi, diventa certa come la comparsa del terzo occhio dopo una gita nella centrale di Chernobyl. Però, se sgomitiamo un attimo tra la marea di muggiti che hanno accompagnato questo film, bisogna riconoscere che, in realtà, tutto il baraccone ha saputo lavorare egregiamente con il materiale che si è trovato tra le mani. E con materiale non mi riferisco a sua Santità, il Ghostbusters del 1984 che, per quanto fosse carino e abbia fatto storia, era pur sempre un film di intrattenimento (quindi, fan, datevi una calmata, che Paul Feig non vi ha mica impiccato il cane). Sto parlando del tema della femminilità, vero elemento di novità del lungometraggio e che tutti i detrattori del film hanno snobbato in nome dell'evergreen contemporaneo, la polemica sterile. Come sapranno ormai tutti, Ghostbusters 2016 punta tutto sull'idea del ribaltamento di genere, proponendo quattro protagoniste femminili al posto dei quattro acchiappafantasmi dotati di pendolo del primo film. Quattro fanciulle strepitose, intelligenti, spiritose e indipendenti, capaci di salvare non solo se stesse, ma anche il mondo e il fusto di turno, en passant. Già così, l'immedesimazione per noi povere fanciulle, che ci siamo sempre dovute destreggiare tra personaggi così cazzuti da dover per forza essere allergici agli uomini e principesse Peach in attesa di essere salvate dal Super Mario di turno, è garantita. Ma il film non si limita a presentarci degli ideali femminili in stile Lara Croft: le nostre protagoniste sono infatti tutte bellezze non convenzionali, in cui ci si può identificare senza sentirsi inevitabilmente l'ultimo scorfano apparso sulla faccia della Terra. Non si vestono con vestiti di latex, non si strizzano in jeans sorreggi chiappe, non hanno una seconda laurea in hairstyling e non salvano il mondo su tacchi 12. Soprattutto, hanno personalità e fisicità completamente diverse l'una dall'altra e molto lontane dai canoni a cui siamo abituate, il che le rende ancora più belle, sfolgoranti e brillanti. 
E questo perché, per una volta (e spero non l'ultima) si è puntato tutto sulla caratterizzazione del personaggio, scavalcando quello stereotipo del genere che vuole che le donne, perché possano recitare, debbano essere discendenti diretti della Venere del Botticelli e con misure alla Jessica Rabbit (che, non a caso, era un cartone animato). Fan services viventi per i maschietti, insomma. Niente a cui noi femminucce possiamo indentificarci, a meno di accontentarci e strizzar fuori da queste Naiadi qualcosa di realistico. Qui invece si è scelto di fare il grande salto e superare completamente la logica maschilista scegliendo di lavorare sul personaggio e non sull'aspetto dell'attrice. La stessa cura è stata data al taglio comico del film che, pur omaggiando lo stile del suo predecessore, non cade nel facile escamotage dello stereotipo di genere, dell'ipersessualizzazione o della denigrazione un po' frivola dell'intelligenza femminile. Insomma, in Ghostbusters non troverete mai nessuna protagonista che fa un incidente d'auto perché ha visto un paio di Jimmy Choo in saldo o che crea un diversivo mostrando le poppe, e men che meno le vedrete avere un attacco isterico perché è finita loro in faccia della sostanza ectoplasmatica. In questo film il genere sessuale non viene mai anteposto alla professione, come d'altronde non accadeva ai protagonisti dell'originale dell'84, ma sceglie di sottolineare l'ovvio, ovvero che le due cose (essere portatrici di vagina ed essere dotate di cervello) non sono incompatibili come l'acqua e l'olio, ma si fondono insieme fino a formare un'identità più sfaccettata e che tiene conto di entrambe le parti. Incredibile, vero? Scordatevi quindi le scienziate sexy o i quattrocchi che non hanno mia visto un dentista e forse neanche la luce del sole e date il benvenuto a personaggi eccentrici, forti, indipendenti e divertenti, che non scimmiottano il maschile ma che non si propongono neanche come icone femministe. Sono semplicemente personaggi comici che sono trattate come tali. Alla fine, quindi Ghostbuster si rivela un film gradevole in generale, con una trama debole e un po' frettolosa, certo, ma che ha saputo, direi finalmente, entrare nel nuovo millennio, polverizzando la logica maschilista e permettendosi addirittura di giocarci un po' attraverso il personaggio del segretario stupido come una pigna, Kevin. Sicuramente non potremo urlare al girl power, ma un pugnetto alzato di approvazione io me lo sono concessa. 
Duille
   



domenica 7 ottobre 2018

Tombini, gondolieri e scarpe di vernice.

Giovedì stavo uscendo dal supermercato e, a dirla tutta, da una giornata frenetica, con un pollo fumante nella busta e la stanchezza nelle tasche, pronta a chiudermi in casa e avvolgermi nel pigiama più brutto, sformato e, per questo, più accogliente che avevo. Ero tutta intenta a pregustarmi questa esplosione di sensi, quando sono incappata nella coppia più improbabile che potessi incontrare all'uscita di un supermercato. 
Un uomo di mezza età, un po' stempiato e rotondetto, con indosso una di quelle tute da lavoro che ricordano contemporaneamente le tutine dei neonati e la lingerie maschile dei film western, si accompagnava al suo opposto, uno spilungone molto più giovane, la cui fisicità asciutta da chi non ha mai toccato un carboidrato era perfettamente valorizzata da un completo giacca e cravatta che si dava arie di importanza e scarpe di vernice così lucide che ci si sarebbe potuti specchiare. Era così tanto curato, lo spilungone, che scommetto aveva anche i capelli alla campo da golf, tutti tagliati esattamente alla stessa altezza. Praticamente, avevo di fronte due stilemi della società moderna, una versione contemporanea degli esponenti dei tre stati francesi pre-rivoluzione. La cosa, diciamocelo francamente, non avrebbe suscitato più di un'occhiata curiosa in me e nel mio pollo, se non fosse che, ampliando lo scenario, la situazione si faceva alquanto bizzarra. Scarpe di vernice infatti era piegato in avanti in un esemplare angolo ottuso che avrebbe fatto la gioia degli insegnanti di geometria e stava tenendo il cellulare a mo' di torcia, cercando di facilitare la vista al suo compare di avventure, che invece aveva scelto di accessoriarsi con una lancia di plastica bianchissima, una versione povera del bastone di Gandalf il Bianco, la cui estremità superiore dondolava felicemente a pochi centimetri di distanza dal tetto del parcheggio, mentre l'estremità inferiore ravanava con entusiasmo da cercatore d'oro dentro un tombino aperto, da cui faceva uscire irriconoscibili creature che un tempo, forse, furono carte e altri oggetti adibiti al consumo umano, ma che adesso avevano la consistenza ed il colore di una fanghiglia catramosa e dalle aspirazioni petrolifere. Una volta ancorati gli occhi su quei due gondolieri delle fognature, la mente ha iniziato a costruire interi romanzi di supposizioni circa i motivi per cui due persone così diverse potessero avere interesse a scoprire i segreti, che tali sarebbe meglio restassero, degli scarichi milanesi (It insegna, d'altronde). 
Alla fine, l'ipotesi più plausibile sembrava essere il vecchio classico, l'evergreen urbano del cittadino medio: la caduta di un oggetto prezioso nel tombino ad opera dell'incubo di ogni attraversatore di grate, portatore di occhiali e frequentatore di ascensori, cioè la forza di gravità. E doveva trattarsi di un oggetto di importanza capitale, per restare lì a cercare di recuperarlo nel parcheggio di un supermercato di periferia in un giovedì sera. Quindi mi sono sentita di depennare dalla lista l'intera gamma di oggetti dal sostanzioso valore economico. No, qui sembrava essere una questione di sopravvivenza, del tipo che senza quell'oggetto il ritorno alla tana veniva pregiudicato. Niente anelli preziosi sfilatisi come l'Anello del potere di Sauron dalle dita del povero Smeagol, e nemmeno l'orologio d'oro ereditato dal nonno a cui si era tanto affezionati sganciatosi dal polso in un'evasione alla Prison Break. Mi sento anche di escludere con abbastanza sicurezza il potenziale fazzoletto in cui una ragazza particolarmente carina aveva scritto il suo numero di telefono. Direi che la cosa più plausibile è che Scarpe di Vernice avesse perso delle chiavi. E più precisamente, il mio occhio clinico, allenato da anni di partite di Cluedo e da un'infanzia passata a guardare il tenente Colombo, optava per le chiavi della macchina che, si sa, stanno al ritorno a casa come il Martini alla realizzabilità di un party. Probabilità di ritrovare le chiavi in quel liquame? Scarse. E si riducevano ulteriormente se consideriamo che il palo da gondoliere in saldo non aveva neanche un retino, il che rendeva il recupero del malloppo (o del maltolto) ancora più improbabile, al punto che si sarebbe potuto coniare un nuovo modo di dire da affiancare al più scontato "ago nel pagliaio" ("è come trovare delle chiavi in un tombino usando solo un palo da gondoliere"). E sinceramente, non sapevo se augurare a Scarpe di Vernice di recuperare il suo tesoro perché penso che, se ne fossero uscite vive, quelle chiavi avrebbero avuto bisogno di un paio di giorni di bollitura nella candeggina e comunque probabilmente sarebbero tornate alla luce portandosi dietro intere famiglie di ratti pronte a far valere i diritti sul detto "chi trova tiene, chi perde piange". Quindi forse era meglio investire quel tempo in una proficua chiamata a parenti e/o amici che potessero aiutarlo a tornare a casa, piuttosto che rischiare l'ebola rimestando in quella riedizione delle Paludi di Mordor. 
Una volta fatte queste constatazioni, ed aver fatto il mio lavoro di essere umano dispiacendomi per i due malcapitati (perché anche Tuta da Lavoro meritava una menzione d'onore per essersi trovato in quella fangosa situazione con la paga da fame che sicuramente gli davano), mi sono concessa un momento di sano ed egoistico divertissement davanti a quello spettacolo di malasorte, crogiolandomi nella fortuna di essere solo spettatrice fugace di quel dramma in cinque atti, mentre anche il mio pollo già cotto stava rivedendo la sua posizione svantaggiosa in confronto a quella dei due improbabili protagonisti di questa storia. L'azione successiva è stata quella di dedicarmi al carico delle vettovaglie nella macchina, non dimenticando però di regalare uno sguardo particolarmente innamorato alle mie chiavi così fedeli al loro padrone. Alla fine, prima di partire, mi sono concessa un ultimo sguardo di commiato ai due Stanlio ed Ollio di turno e ho trovato l'ennesima sorpresa: Tuta da Lavoro era sparito dalla scena, forse stufo di rimestare inutilmente nella fognatura, e Scarpe di Vernice aveva preso il suo posto, mettendoci tutta la buona lena data dalla disperazione e da un probabile abbonamento annuo alla palestra. Eccolo lì quindi, nel suo completo perfetto, un piede nella sua signorile scarpa stringata davanti all'altro, che si immedesimava nel contadino che solleva la terra, raspando, divellendo il terreno molle su cui non batte mai il sole, e invocando il miracolo che, se la realtà non è un opinione, probabilmente non sarebbe mi arrivato. Il protagonista perfetto di una canzone blues, insomma. Alla fine di questa storia, devo dirvi che non so se Scarpe di Vernice sia riuscito a recuperare le sue chiavi o se sia rimasto a pernottare nel parcheggio coperto del supermercato, saltando da un'interpretazione all'altra di tutti i ruoli più umili della società, perché alla fin della fiera io avevo un pollo da mangiare e, sinceramente, le mie aspirazioni da narratrice non erano così solide da superare le prospettive di una serata in pigiama. Quello che è certo è che da tutta questa storia mi è arrivato un grande insegnamento, che ho racchiuso nel primo proverbio duilliano: quando pensi di essere messa male, ricordati sempre che, da qualche parte, nel mondo, c'è qualcuno che sta tirando giù i santi dal calendario rovistando in un tombino alla ricerca delle sue chiavi. Taoisti, fate largo al maestro.

Duille


Here I am!

La mia foto
Eccomi! Sono una scrittrice in erba, divoratrice di libri, sognatrice professionista e ansiosa sociale multicorazzata. Ho la fissa dei ricordi, la testa fin troppo tra le nuvole, interessi disordinati, un amore impossibile per gli alberi e una passione al limite del ridicolo per le serie tv. Ah, e le presentazioni non sono proprio il mio forte. Si vede?

Visite

Powered by Blogger.

Cerca nel blog

Lettori fissi

Archivio blog