domenica 31 marzo 2019

World Congress of Families: il medioevo bussa alla porta.

A quanto pare è possibile viaggiare nel tempo. Doc e Marty lo avevano già fatto nel 1985, in effetti, e il Doctor Who lo ha reso un marchio di fabbrica da diverse ri-generazioni, ma finora tutto sembrava relegato a quel fantastico mondo che è la fantascienza, in cui basta pensare ad una possibilità, condirla di un po' di tecnologia e, voilà, il piatto è servito. 

E invece. 

E invece a quanto pare, come dicevo all'inizio, si può fare davvero. Solo così si può spiegare come nel 2019, in un'epoca in cui esiste la macchina elettrica, i viaggi spaziali sono diventati meta turistica dei milionari e si è riusciti a rendere popolare il gelato al puffo, ci si trovi davanti al World Congress of Families, una delle cose più anacronistiche e antidiluviane esistenti dai tempi della Santa Inquisizione Spagnola. 
Il WCF (che già dall'acronimo rivela la sua eloquente natura espulsiva da toilet) è un convegno anti-LGBT, anti-abortista, anti-divorzista, anti-femminista, non dichiaratamente ma di fatto anti-progressista e sicuramente anti-patico come una cacca di piccione che ti crolla sulla testa prima di un colloquio di lavoro importante. Si presenta a noi come un'opinione non richiesta su internet per "affermare, celebrare e difendere" (da chi non si sa) "la famiglia naturale" qualunque cosa essa voglia significare, dato che, in natura 
A- gli animali prevalentemente figliano con perfetti sconosciuti con cui non hanno condiviso neanche un conto al ristorante
B- solo pochi animali, come il castoro e il pinguino degli Antipodi, restano insieme per la vita;
C- fino a prova contraria, noi non discendiamo dai pinguini ma dalle scimmie e,
D- nel mondo animale è presente (e non come devianza) l'omosessualità, l'ermafroditismo (basta guardare i pesci rossi che scommetto molti di questi aulici promulgatori del concetto di normalità hanno regalato ai loro pargoli) e più modi diversi di accoppiarsi. Come a dire che per la natura, il mondo è bello perché è vario. 
Ad aggiungere controsenso all'ambiguità, la famiglia "naturale" è tale, secondo i relatori di questo congresso, perché "unita nel matrimonio". Adesso, qualcuno del convegno, per favore, mi trovi una gallina ed un pollo che, prima di deporre l'uovo, abbiano convolato a nozze davanti allo sguardo di genitori commossi e dell'immancabile zio ubriacone. Già da queste premesse si può facilmente intuire come le ideologie portanti del convegno si tengano insieme con lo sputo (un virile sputo eterosessuale, ovviamente) ma se ciò non bastasse, possiamo tornare indietro fino alle origini dell'evento, partorito dalla mente di Allan C. Carlson, storico ed ex funzionario del governo Reagan,  che se lo inventò per contrastare il calo demografico nelle società occidentali imputato alla rivoluzione sessuale e al femminismo. Un concetto che sembra avere una inquietante affinità di forma con un assioma del Pastafarianesimo, secondo cui l'aumento dei fenomeni del cambiamento climatico sono correlati alla riduzione del numero dei pirati nel globo. La differenza tra i due concetti però, e qui sta la mia inquietudine, è che il secondo è volutamente provocatorio e goliardico, mentre il primo si avvale della serietà profetica di Matusalemme e della prepotenza dello sfollagente sul cranio del manifestante. 
E se anche questo non fosse sufficiente, si può sempre snocciolare una serie di affermazioni di inconfutabile valenza scientifica (a scanso di equivoci: sarcasm ON) promulgate da alcuni degli esponenti del convegno di quest'anno, che sostengono ad esempio come il sesso anale sia collegabile ai rituali satanisti oppure che la lotta contro la violenza sulle donne sia distruttivo per la famiglia tradizionale, dandoci quindi, oltre ad una visione evidentemente galileiana di queste affermazioni, anche uno spaccato sociologico del tutto nuovo, che vede la stretta correlazione tra tradizione e botte da orbi. Cose che le mamme del passato, con il battipanni, il mattarello, la ciabatta e la più moderna cucchiarella di legno sempre a portata di mano, avevano capito perfettamente e tramandato a noi figli. Scemi noi che non l'avevamo capito. Ovviamente non mancano mai gli evergreen di turno, più longevi dei dischi in vinile e dei risvoltini nei pantaloni che non vogliono proprio saperne di sparire, ovvero l'associazione tra aborto e omicidio e tra omosessualità e pedofilia, anche questi corroborati da studi scientifici probabilmente condotti da Joseph Gall in persona, inventore della Supercazzola Suprema del 1800, ovvero la frenologia, ma dalla pericolosità dell'eugenetica, che ricordiamo è stata molto apprezzata da un certo omino isterico con i baffi a spazzola (e no, non sto parlando di Charlie Chaplin). E non voglio neanche entrare in quella trita e ritrita questione della "teoria del Gender", di cui ovviamente il WCF si fa portavoce, e che si basa su una campagna di disinformazione di proporzioni paragonabili alle teorie che affermano che i bambini nascano sotto i cavoli, che quando si ha il ciclo non lievitino i dolci e che la Luna sia fatta di formaggio. 
Date tutte queste premesse, resta e si rafforza una domanda: chi ha deciso che queste persone fossero meglio di altre per poter parlare di diritti civili, di famiglia e di genere? Chi ha deciso che loro fossero le più indicate per dire cosa formi un nucleo familiare? Sono forse il CAF, che decide chi dobbiamo includere nell'ISEE? Chi ha deciso che avessero un'autorità maggiore di altri per prendersi il diritto di giudicare ciò che per antonomasia è ingiudicabile e decidere cosa sia normale, naturale e giusto? Non vedo, tra i relatori di questo convegno, psicologi, antropologi, sociologi e tantomeno, visto che tirano in ballo questo benedetto concetto del "naturale", qualche biologo o naturalista. Quello che vedo sono un mucchio di politicanti, tutti appartenenti all'estrema destra di stampo religioso, scrittori, presidenti di associazioni pro life, duchi e principesse (davvero), calciatori, una manciata di psichiatri, e preti. Nessuno di loro (a parte forse gli psichiatri) ha competenze tecniche per poter parlare di questo argomento, se non una nebulosa dottrina morale che sembra emergere da cassetti polverosi, teorie antidiluviane o da una macchina del tempo. 
Perciò mi rivolgo direttamente a voi, relatori del WCF. Dato che vi vedo smarriti nei fiumi dell'incenso oscurantista, voglio aiutarvi ad uscire dai secoli bui in cui siete accartocciati, con un pratico bigino di ovvietà che dovete tenere sempre con voi, vicino al cuore, e che vi aiuterà a chiarirvi le idee.
1. Non è il genere a definire chi sia giusto amare, ma la CONSENSUALITA'. Tutto il resto è stupro, stalking, molestie, mobbing, pedofilia e zoofilia. 
2. La famiglia non si basa sull'eterosessualità della coppia e sul matrimonio ecclesiastico, ma sul RISPETTO RECIPROCO. Quindi può essere formata da maschi, femmine, gatti, cani, girbilli, pappagallini, tartarughe, amici e zii acquisiti. Potete depennare dalla lista tutti i nuclei in cui si esercita e si subisce violenza. E, se ve lo steste chiedendo, sì, anche quello in cui il marito tira qualche sberla alla moglie perché la cena non era pronta alle otto in punto. 
3. Le donne non hanno come passatempo preferito l'aborto. Non scelgono se fare la lezione di yoga o fare un raschiamento dal ginecologo. Quindi è inutile che gli piazzate fuori dalle cliniche stuoli di antiabortisti con le Bibbie in mano. Vi assicuro che la loro sarà sempre (e vi prego tatuatevelo sulla fronte), SEMPRE una scelta sofferta con cui convivranno per tutta la vita. 
4. Non esiste il complotto sul Gender. Quella si chiama INFORMAZIONE. Se siete dei negazionisti, quello è un problema vostro e del vostro psicologo, non dell'umanità tutta. 
5. L'LGBT NON E' UNA RELIGIONE, quindi non ci sono conversioni, integralismi, rituali, dogmi da seguire né iniziazioni orgiastiche, nel caso vi fosse venuto in mente. Ci sono solo persone che non vogliono essere discriminate o "tollerate" per ciò che sono. Vogliono solo essere trattate come persone. 
6. Questo c'entra relativamente: vorrei ricordare all'ala africana e femminile dei relatori che i vostri colleghi sono gli stessi che, in altri tempi e in altri luoghi, sarebbero stati sostenitori della teoria della razza e della inferiorità intellettuale della donna.
Ma dato che so già che nel migliore dei casi ignorerete i miei bigini e, nel peggiore, lo butterete nel fuoco purificatore spegnendone poi le braci con l'acqua santa, ho una proposta per il convegno dell'anno prossimo: invitate come ospiti un terrapiattista, una curandera sudamericana, Vanna Marchi, un bimbo di 5 anni che ha iniziato a farsi le sue teorie sul mondo e un esponente di Scientology (che, come religione, ha la stessa solidità ideologica di questo convegno). Sono sicura che sarà un successo. 
Duille

domenica 24 marzo 2019

Assaggi #4: Pensieri di uno psicoanalista irriverente

Quando vidi per la prima volta il saggio di Antonino Ferro era una sera estiva, una di quelle notti in cui il calar delle tenebre concede un attimo di tregua al caldo grigliato tipico della Pianura Padana, lasciando il posto ad una leggerissima brezza, come una carezza di seta appena percepibile. Lui era lì, appollaiato nella vetrina di una libreria che costeggiava la mia università. 
Mi strizzava l'occhio dalla sua copertina pulitissima e sembrava sorridermi di un sorriso particolare, come se avesse appena fatto una marachella di cui non si pentiva minimamente. "Pensieri di uno psicoanalista irriverente. Guida per analisti e pazienti curiosi". Non sapevo niente dell'autore né ovviamente ho avuto la possibilità di leggere la quarta di copertina, dato che un vetro e un orario di apertura ci dividevano come nei migliori film romantici. Eppure ho deciso all'istante che quel libricino dalla faccia furba meritava un incontro più formale, un caffè al bar, per esempio, o una cena insieme, rigorosamente in un ristorante etnico, in cui si mangiano i cibi con le mani e si divide lo stesso bicchiere. La mia sempiterna scarsità di dobloni e l'assenza del suddetto dispettoso in biblioteca, mi è costata un'attesa di un anno, che non ha scalfito di una virgola la mia curiosità. E così, quando finalmente lui ha deciso che era il momento di rendersi disponibile nel catalogo della mia spacciatrice di fiducia (sempre la biblioteca), l'ho subito ordinato e l'ho letto. Quindi, eccomi qui, a parlare di questo saggio mentre lui continua a strizzarmi l'occhio e a fare le linguacce al mondo, come Julius il cane. Per rendere giustizia a questo volumetto di appena 153 pagine, però, si deve affrontare il discorso per punti/precisazioni, adottando un metodo più schematico del solito, allo scopo di non perdersi in quello spazio tra terra e cielo che è, di fatto, la psicoanalisi. Quindi partiamo. 
PRIMO, è necessario specificare che non si tratta di un saggio, ma di un'intervista, di quelle in cui c'è chi domanda e chi risponde. Ma non aspettatevi un'intervista dal sapore giornalistico, perché la psicoanalisi fa provincia a parte ed è irriducibile a qualsiasi imbrigliamento in schemi precostituiti, il che significa che non è mai lei ad adattarsi al mezzo, semmai il contrario. Ciò significa che davanti a noi si snocciolerà un'intervista psicoanalitica, in cui alla domanda non sempre segue una risposta precisa e chiara, e assolutamente non aspettatevi l'esaustività (questa sconosciuta), quanto un sogno, un viaggio, un racconto per immagini molto in linea con lo stile della psicologia dinamica, secondo cui la domanda non si esaurisce nella risposta perché non esiste un'unica risposta accettabile, ma molteplici possibilità che spesso si esprimono in nuove domande. Una costruzione impossibile, insomma, come un quadro di Escher, e che ad alcuni potrebbe suonare come un po' troppo evasiva, quando non direttamente frustrante. 
SECONDO, è necessario fornire due informazioni al volo sui suoi protagonisti, ovvero Luca Nicoli (l'intervistatore) e Antonino Ferro (l'intervistato). Ringraziamo Sua Santità L'Internet per le pillole di saggezza che seguiranno. Luca Nicoli è uno psicoanalista e redattore della Rivista di Psicoanalisi, che praticamente è la versione per strizzacervelli del Science, in cui vengono pubblicate tutte le ricerche e gli articoli di psicoanalisi. Una Bibbia, per quelli del settore. Ferro, invece, è stato il presidente della Società Psicoanalitica Italiana, che è come dire che è stato il Presidente della Repubblica di quella psicologia che ha fondato la psicologia, ovvero quella freudiana. Insomma, due personcine di un certo spessore. 
TERZO, urge specificare che in questo libro non si parla di teorie psicoanalitiche, ma di pratica psicoanalitica (che, per parafrasare Pollon, sembra uguale ma non lo è). Niente approfondimenti sulle teorie freudiane, niente spiegoni sul complesso di Edipo, niente pipponi sul significato dei sogni. Qui si parla di psicoanalisti, più che di psicoanalisi. Più precisamente, si entra nel complesso mondo della pratica clinica, di cosa significhi essere uno psicoanalista oggi, di come esserlo, di quanto applicare la tecnica e a quale tecnica affidarsi, di quanto parlare e quanto tacere, di quanto lasciare spazio alla propria irriducibile ed unica individualità e quanto sparire dietro la maschera imperscrutabile dell'analista-basset hound. Soprattutto, il libro si interroga su come adattare al nuovo millennio e alle sue realtà un bagaglio teorico e metodologico che rifiuta lo statuto di documento storico preferendo vestire i panni dell'evergreen sempre attuale.
QUARTO, questo libro si prefigge di mettere in discussione tutto questo, dal vocabolario psicoanalitico all'applicazione delle regole, al concetto stesso di regola. Qualcuno direbbe elegantemente, che questo libro si fa un bel po' di seghe mentali. Non troveremo quindi spiegazioni su come applicare il transfert, quanto la domanda se ancora si possa parlare di transfert e controtransfert, non ci saranno indicazioni su cosa dire e come dirlo, quanto su cosa significhi essere vivo nella seduta (se compaiono punti di domanda sulla vostra testa, non vi preoccupate. E' normale). 
Il tutto detto e fatto con l'irriverenza promessa nel titolo, con un linguaggio ironico, ricchissimo di citazioni pop e cinematografiche dal sapore squisitamente personale, pregno di metafore culinarie e fantascientifiche che buttano spavaldamente alle ortiche ogni classicismo, rendendo il volume rinfrescante, togliendogli di dosso la polvere dei secoli, nonostante l'autore abbia ormai più di 70 anni, e soprattutto dando sollievo a noi, giovani psicologi, che ci siamo tormentati con le stesse domande e gli stessi dubbi che l'autore e il suo intervistatore esprimono con la semplicità e il candore di chi ha l'autorità per farlo. Ferro quindi scardina ogni caposaldo della tecnica analitica e lo guarda, come diceva Paul Valery, "allo stesso modo con cui una mucca guarda un treno", ovvero come se fosse la prima volta, senza dargli quell'importanza monumentale degli intoccabili. 
E proprio da questi due ultimi punti emerge la mia unica perplessità in merito al volume: credo infatti che il testo non sia così alla portata di quelli che Ferro chiama "pazienti curiosi". Nonostante la indispensabile presenza di un glossario creato apposta per chiarire i termini tecnici mutuati soprattutto dalla teoria bioniana, semisconosciuta ai non addetti ai lavori, il discorso entra molto nel dettaglio della pratica, parlando di concetti come l'unisono, l'0attenzione fluttuante, gli elementi beta e alfa, il campo, la O (sì, la lettera, e no, non è un errore di battitura), dando per scontato che si sappia minimamente di cosa si parla. E vi assicuro che il glossario in questi casi non sarà sufficiente. 
Pensieri di uno psicoanalista irriverente è quindi un volume frizzante e tonificante che parla della tecnica psicoanalitica, ma che, secondo me, è riservato a chi di psicologia ha più di un'infarinatura. E' sicuramente dedicato a tutti i giovani psicologi che si affacciano alla professione con quel desiderio di rinnovamento tipico della giovinezza ma con ancora addosso la soggezione nei confronti dell'Istituzione che li ha formati, a partire da Nonno Freud, e che si chiedono come fare a far parte di una professione che, oltre ad un lavoro, nasce come vocazione, quindi allergica a tutto ciò che esula dalla mente e che riguarda il pragmatismo un po' sporco della vita. Un libro squisitamente psicoanalitico, quindi, che lascerà il lettore/professionista assolto da ogni peccato, semplicemente perché scoprirà che il peccato per cui si è tanto affannato, non esisteva in partenza.  

Duille



domenica 17 marzo 2019

Telefilm addicted #19: Russian Doll

Russian Doll è una serie che io definisco "alla Boris Vianne": ha bisogno di tempo per essere davvero capita, va fatta decantare come un buon vino dentro il suo calice dallo stelo alto o come una forma di Grana nella cantina di famiglia. E questo perché, come il maggior lavoro di Vianne (La schiuma dei giorni), Russian Doll non conferma le aspettative, rifiuta di adattarsi ed essere mainstream, preferendo prendere la sua strada in modo deciso, seguendo la sua visione d'insieme e lasciando che siano gli spettatori a cercare di carpirne i segreti e non viceversa. 
Russian Doll parte infatti da premesse fin troppo sfruttate: Nadia, la sera del suo 36esimo compleanno, muore in un incidente e si ritrova incastrata in un loop temporale che ricomincia esattamente davanti allo stesso specchio, nello stesso bagno della stessa casa nell'esatta sera della sua festa di compleanno. Un'altra storia sui loop temporali, insomma. Questa è la frase, condita di una buona dose di noia, che potrebbe venirvi in mente leggendo questa breve trama, più o meno la stessa affermazione che ha sbadigliato nella mia mente quando iniziai questa serie, a cui decisi di dare una chance solo perché la protagonista è Natasha Lyonne, la Nicky di Orange is the New Black che molti di noi (ed io particolarmente) amiamo come quei cioccolatini dentro le scatole regalo, che oltre ad essere buoni, sono anche sciccosi da morire. Ma Russian Doll, come dicevo sopra, ha un suo piano più grande e un'anima anticonformista che la porta a sbattersene di tutto e di tutti e che alla fine confeziona un piccolo gioiello, fatto di significati stratificati, polimetaforico, un po' onirico e sicuramente molto psicoanalitico. La serie infatti, paradossalmente, non è centrata sul loop temporale, ma lo sfrutta per focalizzarsi profondamente sui protagonisti, Nadia in primis, andando gradualmente ad aprire quella Matrioska di capelli rossi e vita sregolata, un po' beat e un po' rock, fino a scoprirne il centro. Decostruendo completamente la struttura narrativa lineare, fermando letteralmente il tempo, interrompendo la vita e il suo susseguirsi di eventi dall'effetto distraente, Russian Doll concentra la narrazione in una forma verticale, speleologa, o, come avrebbe detto Freud, archeologa, puntando la telecamera solo ed esclusivamente su Nadia e la sua controparte, Alan. Quello che emerge da questa violazione delle convenzioni narrative, è la chiara visione di due persone convinte di subire la vita, e che si difendono da questa sudditanza in modi opposti: Alan è ipercontrollante in tutto quello che fa, pianifica ogni singolo momento della sua vita allo scopo di normalizzarsi, Nadia è caotica e vive giorno per giorno, rifiutando in modo allergico ogni forma di impegno e richiudendosi in un cinico "basto a me stessa". Entrambi però nascondono sotto questi meccanismi difensivi un segreto fin troppo umano, troppo bruciante perché venga mostrato al mondo, e che quindi va coperto sotto strati di abitudini, piccole manie, rifiuti improbabili, che però impediscono loro di vivere, perché in fondo, quel nucleo centrale è ciò attorno a cui ruota tutto il resto. Alan e Nadia sono quindi due personaggi in fuga da loro stessi ma che, per qualche strana e crudele ragione, il tempo decide di mettere alle strette e di piazzare ogni giorno davanti ad uno specchio, che è lo specchio fisico davanti a cui ricomincia ogni loop temporale ma anche lo specchio metaforico costituito dallo sguardo del loro opposto, e costringendoli così a riflettere sulla loro vita per sistemare il "bug" che li ha colpiti. 
Russian Doll funziona effettivamente a Matrioska e, puntata dopo puntata, ci rivela un frammento psichico faticosamente seppellito in strati di bugie e di finta noncuranza, e che ora i personaggi sono costretti a riesumare, come un cadavere maleodorante, e a bonificare, una volta per tutte. La serie fa tutto ciò senza diventare mai ovvia né troppo palese, ma seminando granelli di verità lungo tutte le puntate, fin dal titolo stesso. Sceglie con cura maniacale ogni dettaglio, ogni oggetto scenico, ogni momento, ogni frase, con cui lo spettatore potrà giocare, individuando possibili significati e riferimenti simbolici. Nulla è casuale in Russian Doll, neanche il punto di inizio del loop temporale: la vita dei due protagonisti, infatti, è spezzata in due momenti smascheratori, che li inchiodano al loro punto di fragilità come nient'altro è riuscito a fare prima, e da quel momento li circonda di persone/rivelazioni, di vagabondi pazzi, di videogiochi impossibili, di gatti persi, di uomini/buco in cui le scelte si rifugiano, a cui Nadia ed Alan dovranno iniziare a dare ascolto. Tutto è un tassello di un puzzle più grande. Ma non pensate che sia una serie faticosa o indigesta perché la grandezza di quest'opera è quella di avere i toni di una comedy molto dark, di non scegliere la melanconia ma l'elaborazione del lutto. Ci tiene sul bordo del cornicione, oscillando tra un umorismo cinico e disincantato ma molto sguaiato e un dolore insostenibile ed insopprimibile che spinge a volersi buttare di sotto. Ma di nuovo, l'obiettivo della serie non è annientare ma dare speranza, è trattare l'argomento del dolore ridandogli dignità, spogliandolo dei pregiudizi sociali che reputano il disagio psichico come un segno di debolezza. Russian Doll sembra volerci dire che convivere con il proprio passato significa attraversare il dolore e che questo si può fare a testa alta, senza vergogna. Ci dice anche che questo non basta, che non si basta mai a se stessi, che non si può essere analista e paziente. Nessuno si salva da solo, e forse non ci si salva neanche in due, ma ci si può sicuramente aiutare un po' a vicenda a stare meglio. In questo modo Russian Doll, con la sua comicità frizzante, la sua estetica urban, la sua estrema onestà e i suoi temi incandescenti, sfugge al rischio di essere una ennesima comedy con le risate registrate ma anche all'estremo opposto di diventare plumbea, diventando piuttosto una serie che, piuttosto che pesante, diventa pensante. Cose rare, di questi tempi.  
Duille



domenica 3 marzo 2019

Essere un ornitorinco

Sono sempre stata attratta dal concetto di ossimoro: l'accostamento, nella stessa frase, di parole che esprimono concetti opposti, come "lucida follia", "sprofondare verso l'alto", "birra analcolica" o "hamburger vegano". Gli ossimori fanno risaltare le parole, le fanno emergere come sottomarini tedeschi della Seconda Guerra Mondiale davanti alla spiaggia di Rimini in un agosto del 2018. Non puoi non notarle. 
Forse mi piacciono così tanto perché a mia volta mi sono sempre sentita ossimorica, ma non in un modo elegante e poetico come i veri ossimori, ma più in un modo alla dottor Jeckyll e Mr. Hyde, senza la parte all'arancia meccanica, ovviamente. Io, ad esempio, sono una persona fondamentalmente timida, come un coniglio uscito di malavoglia dal cappello, ma allo stesso tempo sono combattiva come un granchio a cui hanno fatto girare le chele, sono riservata come un politico davanti ad un giornalista ma con sogni da pop star di un teen drama. Mi imbarazza essere notata ma mi piace vestirmi con abiti dai colori impossibili e dalle inclinazioni romanticamente vintage e possibilmente fantasy. Un controsenso ambulante, insomma. Mi sono sempre sentita doppia, ma non come le figurine dei calciatori. Il mio doppio non ha mai avuto niente di gemellare ma era più come cercare di far coesistere nello stesso acquario dei pesci d'acqua salata e dei gamberi di fiume. C'entravano come i proverbiali cavoli a merenda. Con il tempo mi sono fatta l'idea che fosse tutta colpa dell'ansia sociale, che era lei a compormi di parti opposte che sembravano c'entrare tra loro come un attivista vegano ed il cacciatore Van Pelt di Jumanji. Credevo di essere come quegli edifici in ristrutturazione, completamente annegati dietro impalcature di acciaio che lasciano solo intuire le forme e che nascondono le decorazioni pittoriche intorno alle finestre ed i bassorilievi dei sottotetti. Io ero quella dietro l'impalcatura, che allungava il collo per avere una visuale migliore e che ogni tanto stendeva un braccio stracarico di braccialetti per guardarli luccicare al sole. Io ero quei braccialetti. In parte sono ancora convinta di ciò, perché quando si è così strettamente intrecciati ad un sintomo, come può essere quello dell'ansia, diventa difficile capire cosa ci appartenga davvero e cosa invece sia farina della sua saccoccia angosciata. Per anni ho cercato di leggere le mie etichette e capire cosa fosse made in Duille e cosa fosse prodotto nelle piantagioni ansiogene del mio personale Delta del Mississippi. Ma presto ho capito che, più che Spiderman e Venom, io ero più simile ad Yu e Creamy. Non si trattava di eliminare un alieno venuto dal cosmo con difficoltà a comprendere il concetto di spazio personale, ma di fare i conti con la doppia versione di me stessa, la cantante desiderosa della fama e la ragazzina un po' impacciata che non si filava nessuno (a parte Midori, naturalmente). La mia raccolta differenziata interiore puntava a separare parti che mi appartenevano entrambe, anche se un entrambe fatto di opposti che si scontrano tra loro come due atomi dentro l'acceleratore di particelle del Cern o come gatti rabbiosi che si soffiano e si mandano inequivocabili minacce di morte passandosi un dito artigliato lungo il collo. 
La mia ansia non è arrivata dallo spazio, né mi è stata iniettata come il virus G di Resident Evil 2, ma è figlia mia, anche se sicuramente uno di quei figli che metti al mondo e che poi, giunti all'adolescenza, non riconosci più perché "non sono questi i valori che gli avevi insegnato". Capite bene che la situazione si fa abbastanza inquietante se consideriamo che quei due felini che si strappano i peli di dosso sono entrambi partoriti dalla stessa mente. Davvero per niente preoccupante. Compresa questa scioccante verità, la domanda si è fatta ancora più stringente: se sono entrambi gli opposti, io cosa sono? "Non è cane, non è lupo, sa soltanto quello che non è" diceva l'oca di Balto. E neanche io so bene se sono cane o lupo, pur avendo fatto la mappatura completa del mio pelo irsuto. Perché qui non si parla di conoscersi poco o superficialmente, ma di un'irriducibile contrapposizione da malattia autoimmune, in cui, nel tentativo di proteggersi, si finisce col farsi fuori da soli. Significa essere bianco e nero ma non in un modo inclusivo alla Amnesty International, ma più alla figli di immigrati di seconda generazione che, pur essendo nati, cresciuti e pasciuti nel nostro paese, sono persi tra due identità e appartenenze culturali che non sembrano mai calzare loro perfettamente, pur appartenendogli entrambe. Ma se sono entrambe, se sono il bianco e il nero, il vegano e il Van Pelt, allora cosa sono? Cosa dovrei inserire nel mio biglietto da visita esistenziale? "Indecisa cronica"? "Eterno Work in Progress"? O magari un più onesto "Fate voi"? A volte però mi chiedo, date le premesse, se abbia davvero senso continuare a chiedersi se sono formaggio stagionato o crescenza o se preferisco i gatti o i cani. Ha senso cercare di scegliere tra Sé e Sé? Non diventa una specie di scelta di Sophie? Forse, proprio come un ossimoro, anche noi, che siamo divisi tra lo yin e lo yang, splendiamo proprio nell'opposizione che ci confonde tanto, come un mosaico a contrasto o un quadro di Caravaggio che punta tutto sul gioco di luci ed ombre. Forse siamo qualcosa di improbabile che ha perfettamente senso, come una banana flambé o un disegno di Escher. Forse siamo ornitorinchi. E allora non ha senso continuare a domandarci se siamo mammiferi o pennuti perché siamo entrambe le cose o magari qualcosa che non ha ancora un nome. Un ossimoro, appunto. E allora saremo timidamente estroversi, teatranti invisibili, cinici ottimisti, comici spaventati guerrieri, come direbbe Benni, sognatori con i piedi per terra, esibizionisti sotto copertura, ballerini sordi. Ornitorinchi, appunto. Di conseguenza, la domanda cambierà e inizieremo a chiederci che verso faccia l'ornitorinco. Ma questa sarà tutta un'altra storia.
Duille



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Eccomi! Sono una scrittrice in erba, divoratrice di libri, sognatrice professionista e ansiosa sociale multicorazzata. Ho la fissa dei ricordi, la testa fin troppo tra le nuvole, interessi disordinati, un amore impossibile per gli alberi e una passione al limite del ridicolo per le serie tv. Ah, e le presentazioni non sono proprio il mio forte. Si vede?

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