domenica 30 giugno 2019

Quando rimasi chiusa nell'ascensore infernale...

Che io odi il caldo è ormai un dato di fatto scritto, sottoscritto, firmato e confermato con la classica sputazzata sulla mano da veri duri del parco giochi. Il caldo liquefa gli entusiasmi, evapora la creatività, sconvolge ogni progetto ingenuamente immaginato in inverno, lasciandoci come dei gusci vuoti il cui unico scopo nella vita è evitare l'autocombustione. 
Nel giro di un paio di tacche di termometro diventiamo delle ruote di bicicletta bucate: imbarchiamo quantità disperate di acqua che, immancabilmente, vengono espulse da ogni singolo poro che ci ricopre, rendendoci sudaticci ammassi di disillusione buoni solo da usare come carta moschicida, dato che siamo più appiccicosi di un barattolo di miele a fine corsa. In estate regrediamo fino a diventare animali dai bisogni essenziali: pappa, cacca e nanna. Ogni altra funzione che implichi l'uso di più di due neuroni contemporaneamente è soggetta ad approvazione, perché in estate, signori, si va in risparmio energetico, a meno di non trovare un'appendice esterna capace di abbassare i nostri bollori corporei al punto da rendere superfluo l'intervento del governo Monti estivo. Personalmente poi, essendo piagata dalla pressione bassa per tutto il mio arco narrativo annuale, l'estate mi catapulta in una condizione di nevrastenia costante e sempre ad un passo dallo svenimento. Quindi perdonate se non sono esattamente una pasqua da giugno a settembre. Quest'anno, alle solite recriminazioni, ho aggiunto una nuova tacca alla lista dei motivi per cui spedire il caldo estivo al confino, ovvero i cali di tensione elettrica. La questione è semplice: tanto caldo = battaglioni di ventilatori e condizionatori arruolati nel difficile compito di non farci sciogliere come un personaggio di Terminator 3 = uso smodato di energia elettrica = cali di tensione. Ecco, giovedì scorso mi sono trovata in mezzo ad uno di questi blackout nel luogo peggiore che si possa pensare: l'ascensore. Ero su un pianerottolo, ingenuamente convinta che l'ascensore suddetto mi avrebbe rigurgitata fuori dall'edificio in cui mi trovavo evitandomi scale arroventate che non ero proprio pronta ad affrontare. Ho premuto il bottone, ho atteso pochi secondi, le porte si sono aperte ed io mi ci sono ficcata dentro insieme a mia madre, che mi accompagnava in questo proposito che, come avrete capito, si sarebbe rivelato alquanto nefasto. Fin qui, comunque tutto bene. Il tempo di entrare nell'ascensore, però, e tutto si è spento per un secondo, un solo, piccolo, insignificante secondo che però ha lasciato uno strascico rivelatore, come un mini ictus elettrico dal sapore profetico: il display elettronico sopra il pannello comandi ha iniziato a segnare il piano 96. E' chiaro, se guardato a posteriori, che l'ascensore stava mandando un disperato segnale di allarme, come Cassandra quando predisse la caduta di Troia. E' altrettanto evidente che si trattava di un messaggio cifrato, dato che ruotando la prima cifra, il numero si trasformava nel 66 che, come ci insegnano a Busto Arsizio, sono i primi due numeri del Male, il quale vive nel luogo più caldo del creato: l'inferno. Adesso, se fosse stato un altro momento qualsiasi della mia esistenza, tutte le mie antenne si sarebbero rizzate come i peli di un gatto spaventato e mi sarei catapultata fuori da quella scatoletta di metallo con uno zompo da ranocchia, ma si da' il caso che fosse giovedì scorso e che nell'aria aleggiassero quei 40 gradi che sciolgono anche il buon senso e rallentano i riflessi più di una bottiglia di grog sparata in endovena. 
Quindi sì, la mia mente obnubilata dal calore non ha colto il messaggio e, con sguardo ebete, ha osservato quel 96 allarmato senza capirlo, mentre l'indice in pilota automatico premeva il bottone per la discesa agli inferi. Risultato: le porte si sono chiuse e tutto è sprofondato di nuovo nel buio, questa volta definitivamente. Eravamo intrappolate in un portasigari di metallo arroventato, senza finestre, con neanche una bava d'aria a rassicurarci e in un edificio pressoché deserto. A questo aggiungete che mia madre è piuttosto claustrofobica e che, come detto sopra, io ho la pressione in un eterno stato depressivo. L'inferno, appunto, come aveva predetto la Cassandra di ingranaggi. Da questo momento, sono seguite una serie di reazioni l'una meno appropriata dell'altra. Prima reazione: il PANICO. Improvvisamente tutti i miei neuroni si sono ripresi dal torpore e si sono resi conto della sfiga cosmica in cui eravamo piombati. Urla generali sempre più forti hanno converso in un muggito collettivo non molto originale, il classico "moriremo tutti" che non passa mai davvero di moda. Un po' tardi, mi verrebbe da dire, ma apprezzo l'impegno, se non altro. Seconda reazione: l'ANIMALE IN GABBIA. Sensazione particolarmente inopportuna, dato che A- la frittata era ormai fatta e B- eravamo incastrate in due metri quadrati di spazio e non c'era proprio la geografia adatta ad una crisi di nervi come si conviene. Eppure nella mia mente tuonavano terrori da prigioniero, tutti accomunati dal comune denominatore dell'assenza di spazio (pensiero molto rassicurante in una situazione come quella in cui mi trovavo, grazie per il tuo contributo, cervello). Se non altro, per la prima volta coglievo una certa logica nella reazione della mosca che si sfrantuma ripetutamente il cranio contro i vetri della finestra di casa, dato che avrei voluto fare la stessa cosa contro le porte scorrevoli della caffettiera rovente in cui mi trovavo a tostare. Fortunatamente sono una persona tremendamente ansiosa e, negli anni, ho sviluppato tecniche da animale stecchito per evitare che le mie paure generassero imbarazzanti reazioni alla Looney Toons, Quindi, nonostante mi sarei volentieri lussata una spalla a furia di tirare colpi ai portelloni dell'ascensore, non l'ho fatto. Mi sono limitata a tremare come un drogato a corto della sua dose. Terza reazione: la incontestabile sensazione di un CALDO OPPRIMENTE, che ha assunto la peculiare forma di un solido che premeva su ogni centimetro della mia pelle, cosa che mi ha fatta sprofondare in una preoccupazione ancora più cupa (anche se molto più logica): e se avessi avuto un calo di pressione proprio lì dentro? 
E badate, io non sono come quelle persone che in dieci secondi cadono tramortite sul sedile della metro prive di sensi, no, io sono del gruppo dallo svenimento lento e meticoloso, con nausea, giramento di testa, vista annebbiata e fosfeni ovunque in pieno stile fuochi fatui che, alla fine, forse, sfoceranno nello svenimento. Insomma, un'agonia che non avevo alcuna intenzione di provare in quella bara d'acciaio buona solo a commemorare Iron Man. Finalmente, dopo tutto questo blackout interiore, la razionalità ha sgomitato tra la folla di neuroni isterici portando un'idea: provare a premere la campanella di emergenza. Fantastico! Splendida idea! Unanime sguardo ammirato del sistema nervoso e grandi pacche sulle spalle dell'inaspettato salvatore. Dunque, premiamo la campanella. La campanella non funziona. Morta come tutto il resto. Orrore dipinto sul mio volto e faccia cadaverica di mia mamma già rassegnata all'imminenza del suo funerale. Ok, calma Duille, troviamo un'altra soluzione: proviamo a chiamare il numero di emergenza riportato nell'ascensore. Naturalmente, Capitan Ovvio nella mia testa ha dovuto subito puntualizzare che negli ascensori il telefono non prende (di nuovo, grazie cervello per riuscire sempre a calmarmi così bene). La cosa più seccante è che non è un caso che si chiami Capitan Ovvio, perché ovviamente aveva ragione. Nessuna linea. Eravamo bloccate in un ascensore rovente, con 50.000 gradi percepiti, senza linea telefonica, in un edificio abitato da pendolari (quindi praticamente una cattedrale nel deserto) e con le provviste costituite solo da mezzo litro di Gatorade. Samvise e Frodo alla fine del Signore degli Anelli avevano molte più chance di sopravvivere a Mordor rispetto a me di uscire viva da quell'ascensore. E loro avevano solo un biscottino elfico come bene di conforto. In sostanza: orrore 2, il ritorno. La disperazione ricominciava a sibilare tra le truppe, gli sguardi riprendevano la forma della mucca al macello e la razionalità si ritirava per deliberare in privato, quando, ecco il miracolo sotto forma del suono di una chiave che gira nella toppa. Un essere umano! Un essere umano! In barba alla mia ansia sociale, che di solito mi cuce la bocca meglio di una spillatrice, ho dato fiato alle trombe e, in pochi attimi, si è materializzata una voce dall'altro lato della porta che ha fatto l'unica cosa possibile: tirare i portelloni dell'ascensore per forzarli manualmente. A quel punto è riemerso il mio lato animale che, senza tanti complimenti, si è dato da fare a sua volta, con il beneplacito di tutti i neuroni coinvolti, uniti da un impeto collaborativo a dir poco commovente, a cui si è unito anche quello materno. Con la forza della disperazione sulle dita, siamo riuscite ad aprire le porte quel tanto che bastava per farci zompare fuori dalla casseruola demoniaca come due gatti soffianti. Immediata riconoscenza alla voce salvifica e fuga estatica alla "tutti insieme appassionatamente" verso gli spazi aperti delle praterie d'asfalto della città, rigorosamente per le scale, che non ci sono mai sembrate tanto deliziose e rassicuranti. Ed ora che sono sopravvissuta a questa quasi comparsata sulle riviste di cronaca nera, veniamo alle lezioni imparate: il caldo è il quinto cavaliere dell'apocalisse venuto a contaminare tutto ciò che ci è di più familiare, anche gli ascensori, rendendoli trappole mortali che farebbero venire la claustrofobia anche ad un esperto di escapologia. Di certo, la prossima volta che vedrò un ascensore in estate, seguirò il consiglio di Gandalf: fuggite, sciocchi!  

Duille

domenica 2 giugno 2019

Elogio funebre a Midnight, Texas (i fiori da quella parte, grazie)

Siamo qui riuniti per celebrare la vita di Midnight, Texas, la cui breve esistenza, composta di sole due stagioni, è stata cancellata da un calo di ascolti tanto ignominioso quanto giustificabile. Midnight lascia la sua sorella maggiore True Blood, e altri fratelli minori che, per questioni di tempo e perché sinceramente ci interessa poco, non nomineremo ma saluteremo con la manina. 
Midnight, cari fratelli, era una serie oggettivamente brutta e questo non lo si può negare. Non dico che fosse un cesso a pedali, ma diciamo che più che rifulgere come una stella, luccicava come una flatulenza a cui era stato dato fuoco. Partiva da premesse che in passato si erano rivelate vincenti: voleva raccontare le avventure (o forse è più appropriato dire, le sfighe manzoniane) di una piccola cittadina texana in cui era concentrato un campionario di creature soprannaturali che non si vedeva dai tempi di Sunnydale, i quali, evidentemente trovando deliziose le strade non asfaltate che attentavano alla vita dei suoi abitanti a colpi di asma e le quattro catapecchie color paglia che sembravano uscite da un set abbandonato della Signora del West, avevano deciso di mettervi radici e trasferirvi residenza e rampolli. Vai a capirne i gusti. In questo pout-pourri c'era un po' di tutto, come un fritto misto di pesce: un angelo dall'atteggiamento hippy e dai muscoli degni di un culturista, maritato con un demone insapore e chiaramente presente solo in qualità di esponente del mondo LGBT, dato che non aveva né una sua indipendenza narrativa né una qualsivoglia personalità (se non quella di essere chiaramente gay), un vampiro dagli occhi di ghiaccio che si nutriva dell'energia delle persone (in altre parole, un asciugone), una sicaria con traumi infantili che aveva fatto proprio il detto di "bella e maledetta" e con un arsenale da guerra che da solo contribuiva al 2% del PIL mondiale, uno zingaro che vedeva i morti, tra cui la sua petulante nonnina dalla risata inquietante e dai consigli amorosi non richiesti, una strega potentissima ma stucchevolmente votata al bene, una tigre mannara (perché evidentemente i lupi sono diventati out mentre facevo la pausa gabinetto) e un manipolo di umanoidi dai nomi ridicoli che se la contendevano con i vari Polli e Palline mocciane (Creed, ad esempio, ma soprattutto Bobo...sì, Bobo). Eppure, di questa colorita popolazione di partenza, Midnight non ha mai saputo davvero cosa farsene. E questo perché Midnight era come un pilota di formula 1 su una Fiat Panda: aspirava alla velocità supersonica della macchina da corsa ma con la frizione gracchiante e il motore con l'asma. Il risultato erano trame col singhiozzo, colpi di scena buttati a caso e senza un vero contesto che, se non stavi attento, rischiavi ti interessassero tanto quanto indovinare il numero di fagioli dentro una boccia di vetro solo per la gloria. Come dimenticare ad esempio, la noiosissima dipartita del Reverendo, superata nel giro di uno starnuto dagli abitati del paesello e ancora in minor tempo dalla sottoscritta? 
Midnight, Texas aveva una sceneggiatura che sembrava scritta cinque minuti prima della messa in onda, con trame episodiche pronte ad evaporare nel giro dei quaranta minuti della puntata e trame stagionali lente come un ottantenne in farmacia, che si risvegliava verso gli ultimi due o tre episodi quando, forse ricordandosi di essere una serie urban fantasy DI AZIONE, iniziava a correre disperatamente per tirare le fila di un discorso inesistente con la stessa lucidità dello studente davanti al foglio bianco a cui si annuncia che mancano solo cinque minuti alla fine della prova. I risultati di questa frenesia pazza e senza idee erano finali di stagione banali e scontati quanto una brutta battuta da rimorchio in un locale scadente e che finivi col dimenticare appena partivano i titoli di coda. In base a ciò, molti potrebbero pensare che Midnight fosse una serie svogliata, ma non era così, perché lei ci provava davvero, a dare un senso a tutto questo ciarpame umano scritto con i piedi, ma era come un retino bucato: per quanto volesse acchiappare quelle farfalle, proprio non ci riusciva. Midnight era una brava serie ma non aveva il senso del pathos, né quello della tensione, se è per questo, e non iniziamo neanche a parlare della sua totale ignoranza del concetto di epicità. Era la Pimpa finita nel Signore degli Anelli, praticamente. Tentava di costruire elaborati colpi di scena, ma si dimenticava che il genere a cui apparteneva esisteva dai tempi di Mary Shelley e quindi finiva col riproporre ancora e ancora la stessa zuppa riscaldata che ormai era diventata prevedibile come il nerd scelto per ultimo durante l'ora di ginnastica. 
Il tutto era poi condito da questa imbarazzante mole di effetti speciali trash che sembravano usciti da un video amatoriale sviluppato su after effect da un undicenne (forse lo stesso nerd scelto per ultimo a ginnastica). Non dimenticherò mai la prima volta che vidi le maestose ali dell'angelo/hippy in CGI...mi rimarranno incollate sulla retina (e nei miei incubi) per sempre. Ma nonostante tutto questo, Midnight ci mancherà immensamente. E perché?, direte voi. In fondo è solo l'ennesima serie trash del nuovo millennio. E invece no. Midnight era molto più di questo perché aveva cuore. E una strana consapevolezza di ciò che era. Proprio come la flatulenza a cui si dà fuoco, che non si atteggia a lanciafiamme, così Midnight non si prendeva neanche lontanamente sul serio, e lei per prima mandava tutto in vacca con battute ridicole ma tenere, spingendo fino allo stremo certi estremismi creati solo per divertire, ed esagerando i toni riuscendo a non renderli mai fastidiosi. Alla fine, una serata con Midnight era sempre divertente, i suoi personaggi risultavano caricaturalmente simpatici (a parte Creek, che era inutile come una nutria morta in autostrada) e le piccole caratteristiche dei personaggi erano a loro modo sorprendenti e vivacizzanti. Midnight era la simpaticona a cui ti rivolgevi quando eri triste, era il giullare che ti tirava su di morale senza chiederti niente in cambio, era ignorante al punto giusto e non ti giudicava mai per scegliere il trash invece che qualcosa che avesse davvero senso guardare. Soprattutto, Midnight ti salvava dal vero trash, quello cattivo, puzzolente e incurabile di certi teen drama fantasy che, oltre ad essere scritti con Google Translate, si atteggiano anche a futuri classici del genere. Midnight, col suo gusto un po' kitsch e le sue trame scontate ma divertenti, invece, salvava la nostra dignità di spettatori e ci permetteva di guardarci allo specchio senza provare vergogna. Midnight era il guilty pleasure di cui, in fondo, non ti pentivi mai. Come le patatine del discount. Quelle sono buone sempre. E oggi, in questo triste giorno, ti celebriamo, Midnight, per averci lasciati troppo presto, per essere stata buona con noi scegliendo di concludere le trame di ogni stagione invece di lasciarle aperte, ti ringraziamo per aver misericordiosamente scelto cliffhangers conclusivi di cui, in fondo, non ce ne fregava niente, rendendo così il nostro cuore meno pesante nel salutarti. 
Grazie Midnight.
Te s'è voluto bene. 
Duille

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Eccomi! Sono una scrittrice in erba, divoratrice di libri, sognatrice professionista e ansiosa sociale multicorazzata. Ho la fissa dei ricordi, la testa fin troppo tra le nuvole, interessi disordinati, un amore impossibile per gli alberi e una passione al limite del ridicolo per le serie tv. Ah, e le presentazioni non sono proprio il mio forte. Si vede?

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