domenica 3 novembre 2019

Crisi millefoglie, parte seconda

Quando sono incastrata in una delle mie crisi millefoglie (ne abbiamo parlato qui), mi ritrovo a guardare con occhi nuovi e più comprensivi i k-way. Sì, avete letto bene, sto proprio parlando di quelle mantelle di plastica leggerissima che si usano per proteggersi dalla pioggia ma che tutti odiano perché A- sono brutte e B- sono emblema fisico della presenza del temporale, che sappiamo essere l'acerrimo nemico delle streghe di Oz e, inspiegabilmente, di tutta l'umanità urbanizzata. Ecco, in questi momenti di grande dolore esistenziale, quando gli strati di fatiche si sono accumulati nella tipica conformazione a millefoglie, io sento di capirli profondamente, i k-way, in tutta lo loro esile sfigataggine. 
Capisco la loro eventuale convinzione che il mondo sia solo un'enorme piscina in cui gente imbronciata cerca di sopravvivere alla giornata schivando pozzanghere e rischiando la rissa al minimo colpo di tosse mal rivolto. Li capisco perché, in questi periodi, anche io mi sento come loro: eternamente infradiciata da una pioggia di rammarico, arrancando in un mondo bellicoso come un negozio di elettrodomestici durante il black friday. E posso solo immaginare l'angoscia con cui un k-way si avventura in questo mondo ostile, conscio di essere composto solo di una plastica sottile come un'ostia di carta velina, perché anche io mi sento come lui, anche io sento di diventare un origami a forma di umano dentro ad una galleria del vento. Quindi sì, lo capisco, e fraternizzo con il suo desiderio di pre-pensionarsi nell'armadio, perché anche io vorrei fare la stessa cosa: appallottolarmi come un paio di vecchi collant e chiudermi in un silenzio meditabondo e cimiteriale. E tutto questo perché la mia ansia sociale fa la muta, cambia pelle come un vecchio serpente, diventando una nuvola di fitta nebbia londinese saltata fuori da un romanzo dickensiano. Lo so, molto allettante, soprattutto se non si è dei vampiri. Ed in effetti, questa crisi è un po' come quella pioggerellina leggerissima che ci perseguita in certi giorni di novembre, con la complicità della più ostinata coltre di nubi grigiastre dell'anno. Non sai che fartene, non capisci se sia o meno il caso di aprire l'ombrello, ti mette in difficoltà in ogni modo possibile e ti lascia bagnata come un tortellino abbandonato in un brodo freddo. L'emblema della tristezza. Ed in effetti è così che ci si sente durante la crisi millefoglie: tristi e spaventati in proporzioni variabili, come in un saliscendi stregato. A volte la paura è intrisa di una tristezza umida, altre volte è la tristezza ad essere resa ispida dall'incursione della paura, come se fosse fatta di lana grezza. In ogni caso, non è proprio la festa della cuccagna. Un'altra cosa che piace molto alla crisi millefoglie è giocare alla matematica: sottrae e addiziona come se avesse intenzione di diventare il Frankenstein del nuovo millennio. Ad esempio, ci lascia pieni e vuoti allo stesso tempo. Ci svuota come con un cucchiaio da gelato, creando dei vuoti rotondi, in cui si vedono ancora le forme di ciò che c'era prima. Sembrano quasi dei morsi perfettamente lisci. Stranamente però questo svuotarci come zucche ad Halloween non ci fa sentire più leggeri ma, al contrario, ci rende pesantissimi, perché ora si è pieni di sabbia, che si accumula soprattutto sulle gambe, spesse come capitelli romani, e nel petto, che assume le fattezze di un'armatura medievale in cui il cuore sbatacchia come una falena impazzita. Qua e là, in mezzo a tutta quella sabbia, ci sono anche degli spilli, che pungono mentre ci muoviamo, senza preavviso, quando meno ce lo si aspetta, mentre siamo dal fruttivendolo, ad esempio, o ad una festa in cui ci stiamo quasi divertendo. Proprio in quei momenti, mentre stiamo ridendo o ci stiamo guardando i piedi in attesa del nostro turno, ecco che lo spillo trova spazio nella sabbia e punge la pelle, rendendo tutto improvvisamente spaventoso e davvero troppo frastornante. 
Vorremmo correre via, ma mica è facile correre con 100 kg di sabbia in corpo. Non è proprio come aver mangiato una ciambella di troppo, ecco. Ma l'esperimento non finisce qui. La crisi millefoglie ci sottrae anche la volontà: vorremmo piangere ma non ne abbiamo voglia, parlare con qualcuno sarebbe davvero un toccasana ma non ne abbiamo voglia, distrarsi aiuterebbe non poco ma non ne abbiamo voglia, vorremmo urlare fuori tutto il dolore e la rabbia ma, di nuovo, non ne abbiamo proprio voglia. L'unica cosa che siamo in grado di fare è restarcene inerti come una sogliola sotto la sabbia fino a nuovo ordine, magari crogiolandoci in un po' di sana autocommiserazione di passaggio, ma comunque sprecando meno energie possibili. E questo perché siamo stanchi di una stanchezza tutta particolare, malaticcia, che ci fa il respiro da influenza, sapete, quel respiro che sembra avere una consistenza diversa, più solida, quasi gelatinosa. Il nostro però non è carico di germi, ma di tutte le lacrime che, a furia di sottrarci volontà, non riusciamo più a direzionare verso gli occhi, e che restano quindi intrappolate nella maglia dei nostri respiri gravi come l'espressione di un maggiordomo inglese. Siamo stanchi ma nel frattempo dobbiamo continuare ad andare avanti, lottare per non uscire in pigiama ogni mattina, affrontare gente paurosa, beccarci tutti i ganci del Serraglio in forma più che smagliante mentre a noi dondola anche l'ultimo dente rimastoci in bocca e abbiamo gli occhi così pesti che anche un panda s'impressionerebbe. Siamo stanchi perché ci dobbiamo difendere da tutto, dagli altri fuori, nel mondo, ma anche da noi stessi, e dalla consapevolezza, vecchia come le Dolomiti, che, per quanto possiamo dibatterci, per quanto potremo cambiare strada, muoverci come gamberi o fare le linguacce al mondo come Julius il cane, alla fine ci ritroveremo sempre lì, inchiodati al punto di partenza, davanti alla sfilata dei nostri impossibili. E allora, in quel momento, troviamo il comune denominatore di tutte le sensazioni che proviamo durante la crisi millefoglie: la sensazione di essere senza scampo. Inesorabilmente. E arrivati a quel punto, le cose di solito prendono una duplice piega: prima ci deprimiamo, perché è cosa buona e giusta e sicuramente da qualche parte è scritto anche nel manuale delle giovani marmotte, ma poi iniziamo a capire che per uscire dalla crisi non c'è bisogno di fare gesta eroiche alla Sailor Moon, che rischiava la morte ad ogni finale di stagione, ma è sufficiente un piccolo cambio di prospettiva. Un aggiustamento di sguardi. Non c'è bisogno di un titanico tentativo di trovare nuove parole per frantumare violentemente quella sensazione di essere senza scampo. Non è nella nostra indole e forse non avremo mai le forze per un cambiamento così drastico. Ma, in fondo, non è neanche necessario farlo. Basta uno scambio di lettere. Barattare una "o" per una "i", per esempio, e trasformare un terrificante "senza scampo" in un più accettabile "senza scampi". Perché senza crostacei, si può vivere tranquillamente, ma senza scampo l'esistenza diventa fastidiosamente opprimente, non credete? Ed è in questo modo che, piano piano, si esce dalla crisi millefoglie. Riconoscendo che la nostra è una vita che sicuramente ha i confini più stretti di altre, ma è ben lontana dall'essere piena di impossibili, e che i cambiamenti si sviluppano non frase per frase o parola per parola, ma una lettera alla volta. A colpi di "i" al posto delle "o". Barattando una vita senza scampo per una vita senza scampi.  

Duille





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Eccomi! Sono una scrittrice in erba, divoratrice di libri, sognatrice professionista e ansiosa sociale multicorazzata. Ho la fissa dei ricordi, la testa fin troppo tra le nuvole, interessi disordinati, un amore impossibile per gli alberi e una passione al limite del ridicolo per le serie tv. Ah, e le presentazioni non sono proprio il mio forte. Si vede?

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