martedì 7 aprile 2020

Assaggi #6: Città sola

Dicono che durante la quarantena, per combattere l'inevitabile tristezza e il senso di claustrofobia, si dovrebbero leggere solo cose ariose ed allegre. Io, che sono involontariamente allergica ad ogni forma di precetto generale, ho fatto come al solito di testa mia e mi sono tuffata in Città Sola, di Olivia Laing. Già dal titolo si potrà capire che questo libro non è esattamente l'anima della festa e la sua struttura non aiuta certo a sfatarne il mito. Città sola è infatti l'incontro tra un memoir e un saggio: è un memuaggio (sì, lo so, è una battuta terribile, scusate).
La cosa è divertente, se si pensa che l'opera si propone di raccontare il tema della solitudine, che è il non-incontro per eccellenza. L'autrice cerca di fissare sulla carta il profondo struggimento della solitudine, il dolore cavo dell'isolamento, la campana a morto dell'invisibilità. Ma, si sa, il concetto di solitudine è vasto come l'ignoranza di Trump e stratificato come una torta millefoglie, troppo grande quindi per essere affrontato con le sole proprie forze, forse perché si è pensato di racchiudere in una singola parola tutto un universo di sfumature del sentire che meriterebbero termini autonomi in cui abitare più comodamente. Un po' come è accaduto alla neve nel vocabolario esquimese. Olivia Laing sembra saperlo molto bene e per questo motivo decide di intrecciare la sua personale esperienza della solitudine, vissuta a New York dopo la rottura improvvisa di una relazione importante, con i racconti visivi di grandi artisti moderni, da Edward Hopper ad Andy Warhol, includendo anche personalità che i più di noi non avevano mai neanche sentito nominare e che, forse anche per questo, si rivelano le sorprese più grandi. In questo senso potremmo definire quest'opera quasi un racconto corale, che si avvale di tante voci che esplorano i diversi significati che la parola "solitudine" assume per loro e rivelandone perciò la natura profondamente intima e personale e, allo stesso tempo, la sua universalità. Naturalmente, quel "quasi" è d'obbligo, dato che noi lettori ci insinuiamo nella mente di questi artisti attraverso lo sguardo meticoloso ed emozionato dell'autrice, che tenta di ricostruire i loro pensieri attingendo a diari, biografie ed autobiografie, interviste, articoli, saggi critici. E, naturalmente, guardando le loro opere, che sono la finestra più diretta sulla loro interiorità. Le cose che si imparano da questo viaggio è che la solitudine ha molto a che fare con l'amore e con le sue altrettante infinite declinazioni: l'amore perduto e l'amore mai trovato, l'amore mancato che ha bruciato le radici del Sé, l'amore per il proprio valore, l'amore che ci fa essere degni dell'amore stesso.
La solitudine ha anche a che fare con l'identità, con l'accettazione di tutte le proprie parti, e con la politica e la società, capace di polverizzare una vita relegandola nel ghetto dell'invisibilità e della vergogna e che trasforma chi non si conforma in un nemico da abbattere e disprezzare. In definitiva, la solitudine è il non-amore, l'assenza dell'amore, che secondo la Laing è un prodotto dell'interazione tra le persone, o meglio, della mancanza di un'interazione empatica e genuinamente interessata all'altro, che lascia solchi profondi su chi la subisce, come se fossero stati prodotti da un aratro. Da questi solchi, gli artisti passati in rassegna dall'autrice dimostrano di poter far crescere qualcosa, piante addolorate e bellissime, che ne svelano tutta la fragilità. Un atto creativo, sublimatorio direbbe Freud, che trasforma il dolore in amore e attraverso il quale gli artisti cercano di cicatrizzare il loro passato, spesso traumatico, ricucendolo, a volte letteralmente, come farà David Wojnarowicz, nell'Arte. Nelle loro opere, la solitudine viene messa a nudo, smascherata, stanata dal suo angolo e, così facendo, la si rende esorcizzabile. Certo, la natura ibrida di quest'opera potrebbe non piacere a tutti e sicuramente esige un tempo di abituazione al mezzo ma, una volta superato questo scoglio, il volume scorre velocissimo ed è quasi doloroso interromperne la lettura. Quindi vi do questo consiglio spassionato: non leggetelo prima di andare a dormire. Altro neo, e qui si entra nell'alveo dei gusti personali, è lo stile, che a momenti ho trovato troppo artificiale, inutilmente impreziosito, quasi forzato, anche se non è una costante dell'opera. Nonostante ciò, il libro è assolutamente godibile e con un delizioso effetto collaterale, quello di farci entrare in contatto con autori del tutto nuovi, buttandoci dentro la loro affascinante turbolenza, la loro mente ammatassata, la loro disfunzionalità relazionale, incuriosendoci al punto da volerne sapere di più e quindi amplificando potenzialmente questo viaggio all'infinito. Città sola, per concludere, è un lavoro appassionante, istruttivo, ricco e ben documentato, che affronta la materia senza la presunzione del Soggetto-supposto-sapere, per rubare il termine allo psicoanalista francese Jacques Lacan, ma trattandola come una ricerca di senso nell'emozione che, più di tutte, ci fa sentire scollati dagli altri pur essendo quella che ci accomuna di più. 
Duille


"[...] come sarebbe stato passare tutta la vita in questo modo, occupando il punto cieco delle esistenze altrui e delle loro rumorose vite private?" (pag. 132)


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Eccomi! Sono una scrittrice in erba, divoratrice di libri, sognatrice professionista e ansiosa sociale multicorazzata. Ho la fissa dei ricordi, la testa fin troppo tra le nuvole, interessi disordinati, un amore impossibile per gli alberi e una passione al limite del ridicolo per le serie tv. Ah, e le presentazioni non sono proprio il mio forte. Si vede?

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