martedì 7 aprile 2020

Assaggi #6: Città sola

Dicono che durante la quarantena, per combattere l'inevitabile tristezza e il senso di claustrofobia, si dovrebbero leggere solo cose ariose ed allegre. Io, che sono involontariamente allergica ad ogni forma di precetto generale, ho fatto come al solito di testa mia e mi sono tuffata in Città Sola, di Olivia Laing. Già dal titolo si potrà capire che questo libro non è esattamente l'anima della festa e la sua struttura non aiuta certo a sfatarne il mito. Città sola è infatti l'incontro tra un memoir e un saggio: è un memuaggio (sì, lo so, è una battuta terribile, scusate).
La cosa è divertente, se si pensa che l'opera si propone di raccontare il tema della solitudine, che è il non-incontro per eccellenza. L'autrice cerca di fissare sulla carta il profondo struggimento della solitudine, il dolore cavo dell'isolamento, la campana a morto dell'invisibilità. Ma, si sa, il concetto di solitudine è vasto come l'ignoranza di Trump e stratificato come una torta millefoglie, troppo grande quindi per essere affrontato con le sole proprie forze, forse perché si è pensato di racchiudere in una singola parola tutto un universo di sfumature del sentire che meriterebbero termini autonomi in cui abitare più comodamente. Un po' come è accaduto alla neve nel vocabolario esquimese. Olivia Laing sembra saperlo molto bene e per questo motivo decide di intrecciare la sua personale esperienza della solitudine, vissuta a New York dopo la rottura improvvisa di una relazione importante, con i racconti visivi di grandi artisti moderni, da Edward Hopper ad Andy Warhol, includendo anche personalità che i più di noi non avevano mai neanche sentito nominare e che, forse anche per questo, si rivelano le sorprese più grandi. In questo senso potremmo definire quest'opera quasi un racconto corale, che si avvale di tante voci che esplorano i diversi significati che la parola "solitudine" assume per loro e rivelandone perciò la natura profondamente intima e personale e, allo stesso tempo, la sua universalità. Naturalmente, quel "quasi" è d'obbligo, dato che noi lettori ci insinuiamo nella mente di questi artisti attraverso lo sguardo meticoloso ed emozionato dell'autrice, che tenta di ricostruire i loro pensieri attingendo a diari, biografie ed autobiografie, interviste, articoli, saggi critici. E, naturalmente, guardando le loro opere, che sono la finestra più diretta sulla loro interiorità. Le cose che si imparano da questo viaggio è che la solitudine ha molto a che fare con l'amore e con le sue altrettante infinite declinazioni: l'amore perduto e l'amore mai trovato, l'amore mancato che ha bruciato le radici del Sé, l'amore per il proprio valore, l'amore che ci fa essere degni dell'amore stesso.
La solitudine ha anche a che fare con l'identità, con l'accettazione di tutte le proprie parti, e con la politica e la società, capace di polverizzare una vita relegandola nel ghetto dell'invisibilità e della vergogna e che trasforma chi non si conforma in un nemico da abbattere e disprezzare. In definitiva, la solitudine è il non-amore, l'assenza dell'amore, che secondo la Laing è un prodotto dell'interazione tra le persone, o meglio, della mancanza di un'interazione empatica e genuinamente interessata all'altro, che lascia solchi profondi su chi la subisce, come se fossero stati prodotti da un aratro. Da questi solchi, gli artisti passati in rassegna dall'autrice dimostrano di poter far crescere qualcosa, piante addolorate e bellissime, che ne svelano tutta la fragilità. Un atto creativo, sublimatorio direbbe Freud, che trasforma il dolore in amore e attraverso il quale gli artisti cercano di cicatrizzare il loro passato, spesso traumatico, ricucendolo, a volte letteralmente, come farà David Wojnarowicz, nell'Arte. Nelle loro opere, la solitudine viene messa a nudo, smascherata, stanata dal suo angolo e, così facendo, la si rende esorcizzabile. Certo, la natura ibrida di quest'opera potrebbe non piacere a tutti e sicuramente esige un tempo di abituazione al mezzo ma, una volta superato questo scoglio, il volume scorre velocissimo ed è quasi doloroso interromperne la lettura. Quindi vi do questo consiglio spassionato: non leggetelo prima di andare a dormire. Altro neo, e qui si entra nell'alveo dei gusti personali, è lo stile, che a momenti ho trovato troppo artificiale, inutilmente impreziosito, quasi forzato, anche se non è una costante dell'opera. Nonostante ciò, il libro è assolutamente godibile e con un delizioso effetto collaterale, quello di farci entrare in contatto con autori del tutto nuovi, buttandoci dentro la loro affascinante turbolenza, la loro mente ammatassata, la loro disfunzionalità relazionale, incuriosendoci al punto da volerne sapere di più e quindi amplificando potenzialmente questo viaggio all'infinito. Città sola, per concludere, è un lavoro appassionante, istruttivo, ricco e ben documentato, che affronta la materia senza la presunzione del Soggetto-supposto-sapere, per rubare il termine allo psicoanalista francese Jacques Lacan, ma trattandola come una ricerca di senso nell'emozione che, più di tutte, ci fa sentire scollati dagli altri pur essendo quella che ci accomuna di più. 
Duille


"[...] come sarebbe stato passare tutta la vita in questo modo, occupando il punto cieco delle esistenze altrui e delle loro rumorose vite private?" (pag. 132)


domenica 22 marzo 2020

l'ansia sociale ai tempi del coronavirus

Diciamolo subito e togliamoci il pensiero: il coronavirus, per noi ansiosi sociali, ha i suoi vantaggi. Non fraintendetemi, me la faccio sotto come tutti all'idea di ammalarmi e potenzialmente morire pure male, come tutti temo per i miei cari e faccio il tifo per i malati e il personale medico che sta diventando trasparente come un eroinomane di vecchia data a furia di lavorare, e come tutti credo nell'impegno civico, nel fare la propria parte restando a casa e nello spammare meme di dubbio gusto a tutti quelli che conosco, così, per spirito di cameratismo. 
Però è un dato di fatto che gente come noi non può negare che questa emergenza sanitaria ha portato con sé un dono che neanche Babbo Natale con il suo esercito di elfi sottopagati avrebbe mai potuto regalarci: la QUARANTENA. 
Se per la Treccani la quarantena è "un periodo di isolamento di persone o animali della durata variabile fatto per motivi sanitari", per il vocabolario dell'Ansioso Sociale invece, quarantena significa una sola cosa: VACANZA! Vacanza con tanto di manine alzate e limbo celebrativo, vacanza dal Serraglio a tempo indeterminato con omaggio di ombrellino giallo da mettere nel cocktail e coroncina di fiori di benvenuto. Le ferie migliori che potremmo mai avere. Provate a rifletterci: ci viene chiesto di rintanarci in casa, chiudere la porta a doppia mandata e restare accoccolati nelle coperte come volpi nelle tane fino a nuovo ordine. Cosa c'è di meglio per gente come me, che teme il contatto sociale tanto quanto Shrek teme l'igiene? Ve lo dico io: NIENTE! Assolutamente niente. Era più probabile che ricevessi la lettera di Hogwarts. La cosa forse più ironica in questa faccenda che di ironico non ha niente è che improvvisamente, da sfigati pieni di problemi che nessuno riesce a capire, diventiamo paladini della Civiltà cittadini modello pronti a "sacrificarsi" per il benessere collettivo non mettendo il naso fuori di casa neanche per buttare la spazzatura. In una parola, passiamo dall'essere Clark Kent a Superman. Mica male, per gente se andava bene veniva accettata come "quello timido che non parla mai". Solo in un contesto da apocalisse poteva accadere un miracolo del genere. Durante la quarantena non troverete nessun ansioso sociale a guardarsi spaesato i palmi delle mani chiedendosi cosa fare di tutta quella montagna di ore libere, perché noi abbiamo affinato l'arte dell'auto intrattenimento per anni, sviluppando i più disparati hobbies, che vanno dalla cucina alla pittura, dalla lettura alla costruzione di modellini di castelli fatti di stuzzicadenti. Se la pensione non ci ha mai fatto paura, la quarantena a noi fa un baffo (a manubrio). Siamo sereni come bonzi, incastrati tra le quattro mura delle nostre case/casseforti, la solitudine non ci morde la coda e ci sentiamo rilassati come se ci fossimo fumati una canna particolarmente di buona qualità. E non è mica finita qui. non solo siamo invitati alla clausura niente meno che dal primo ministro in persona, ma viene addirittura creato un hashtag che sembra dedicato a noi: #iorestoacasa. 
Roba da tatuarselo sul cuore, tanta è la commozione. Il mondo ci autorizza ad assecondare i nostri sintomi, ad abbracciarli ed avvolgercisi dentro e lasciare che pascolino liberi per la nostra mente come pecore belanti, consapevoli che, qualsiasi cosa accada, non potranno calpestarci, incornarci o inseguirci fino al più vicino albero su cui ci arrampicheremo terrorizzati. Di colpo siamo intoccabili, una pace da Buddha regna tra le parti della nostra sgangherata psiche, il nostro lato panico e quello razionale condividono una tazza di tè e smezzano kitkat come se non avessero fatto altro per tutta la loro esistenza. Come vi dicevo, vacanza. Senza penalità e senza condizioni. Vacanza senza quella sensazione, fastidiosa come un nocciolino attaccato al dente, che dovremmo fare altro, che dovremmo normalizzarci, socializzare, continuare a lottare con le nostre ansie, invece di tapparci in casa come un sughero nella bottiglia e trasformarci in un burrito di coperte. Ferie senza ripercussioni, rimproveri o senso di inadeguatezza. Pausa dalla vita senza sensi di colpa, solitudine o fallimento. Per una volta, forse l'unica nella nostra vita, possiamo essere i nevrotici fobici che siamo senza dover dare spiegazioni o inventare scuse per giustificare le nostre assenze scolari, senza doverci sentire inadatti a tutto fuorché alla vita da scaffalista notturno e soprattutto, senza lotte intestine in stile Guerra di Secessione Americana. E badate bene, noi, vacanze del genere, non le abbiamo MAI. Neanche quando siamo effettivamente in vacanza. Perché mentre noi ci chiudiamo in casa a riprendere fiato dopo mesi di un'apnea spaventata, il resto del mondo si muove, fa esperienze, cresce e intreccia legami come i fili di lana in un braccialetto dell'amicizia, creando nuove storie e nuovi capitoli a cui noi, spaventati da tutti, sembriamo condannati ad essere esclusi. Perché, anche in vacanza, siamo dolorosamente consapevoli che il nostro modo di vivere, sempre teso ad evitare che ci scoppino le coronarie per la paura, ci isola, ci aliena dagli altri, ci fa perdere opportunità e ci condanna alla solitudine, quella vera e definitiva, non quella temporanea della quarantena. Quindi capite bene che, di fronte ad un miracolo del genere, una parte di noi rimane inevitabilmente sbigottita da una tale golosa concessione, da questa uscita gratis di prigione che ci catapulta nel Valhalla dei normali senza dover muovere un dito, anzi, che ci rende i migliori tra i migliori perché non ci lamentiamo, non diamo di matto e abbracciamo con gioia questo momento di ripiegamento in noi stessi, rendendoci esempio da imitare senza il minimo sforzo, essendo, per una volta, noi stesso, pacchetto completo, ansie incluse. Niente mal di testa, lacrime a cascata o autoflagellazione psichica. Niente felicità strozzata dalla colpa. Solo una calma beatitudine mentre facciamo ciò che ci viene meglio: chiudere la porta e buttare la chiave. 

Duille



domenica 1 dicembre 2019

Capitolo 29: City

Ho sempre pensato che Baricco non si leggesse ma si esperisse. Lo si respira con gli occhi, lo si lascia entrare come quell'aria carica di promesse nelle prime giornate di aprile. Baricco, insomma, è un'esperienza, anche se non delle più facili. E questo per almeno due motivi: primo, è un autore sperimentale, che gioca con tutto, dalla trama alla sintassi, fino alla punteggiatura. Tanto è vellutato il suo modo di scrivere, tanto è spezzata la geometria della trama. 
Baricco ha uno stile di scrittura rarefatto, da stratosfera, con poco ossigeno ma molto denso. Richiede concentrazione, disponibilità e fiducia perché funzioni. Secondo, racconta delle verità, che a volte sono delicate carezze su una guancia, ma a volte sono mani che aprono le ferite e scavano nel corpo fino a trovare il proiettile che ci vive dentro, incandescente come la prima volta che fu sparato dalla canna della pistola. Di nuovo, dovremo fidarci perché tutto funzioni, e abbassare i ponti levatoi che ci proteggono dai nostri angoli bui. City, come tutti i libri di Baricco, non fa eccezione, e ci propone un'esperienza che parla soprattutto di noi, prima ancora che dei sui protagonisti, che sono i veicoli di una riflessione sull'esistenza che supera i confini delle pagine, e che assumerà significati diversi a seconda degli occhi che vi si poseranno. Shatzy e Gould, i due protagonisti del romanzo, sono anime affini nella loro unicità: Shatzy è una ragazza che fa qualsiasi lavoro e che vive la vita come se fosse una nuvola di panna, sfiorando appena le cose reali e addensandosi in alto, nei suoi sogni e nelle riflessioni sulla vita. Desidera solo una cosa: scrivere il più bel western del mondo, su cui lavora da tutta la vita, mettendo un mattoncino dopo l'altro, e registrando tutto su una cassetta. Gould, invece, è un ragazzino prodigio di 11 anni che capisce tutto di fisica quantistica ma molto poco degli altri esseri umani e che guarda da lontano, come un ornitologo. E' uno spettatore della vita, che si rifugia nei suoi amici immaginari e in una storia, per lo più sviluppata durante le permanenze in bagno, che vedono protagonista un boxeur dalle grandi aspirazioni. Shatzy e Gould non trovano un posto che li calzi bene, sono sempre un po' scomodi nelle convenzioni sociali e trovano l'uno nell'altro quel mistero così familiare che li circonda entrambi. Ma in fondo, come dicevo, Shatzy e Gould sono soprattutto un veicolo, uno sguardo con una storia attorno. 
Infatti ogni capitolo si potrebbe quasi leggere come qualcosa di slegato da tutto il resto, una specie di panoramica sulla realtà di cui i due protagonisti sono solo il punto di messa a fuoco. Perché il vero racconto sta nella verità che il lettore percepisce e su cui costruisce la sua personale storia. In questo modo, diventa a sua volta un protagonista del romanzo, così come lo sono Shatzy e Gould, con le sue unicità, la sua irriducibilità ad ogni incasellamento, le sue fantasie e le sue fragilità. City è un intrico di strade che si muovono, è una storia polmonare, che si espande e si contrae di pagina in pagina. I respiri a volte rallentano, durante le notti silenziose, in cui briciole di rumori, lasciati indietro durante il giorno, si rimettono in pari con il giorno. Altre volte, improvvisamente, si accelera, nel fantasticare, nell'emozionarsi mentre si vive nei guantoni di un altro. Ci sono momenti in cui si corre così tanto da perdere il fiato, e anche la punteggiatura rimane indietro, non c'è tempo da perdere, il pensiero è troppo impetuoso, è come un'onda che si infrange sulla pagina, sommergendo il lettore in uno stato di apnea decisamente familiare. City ci chiede quindi di buttarci in questo mare di respiri, di seguire le onde, come una foglia rimasta a galleggiare sul pelo dell'acqua. E' anche una storia di strade: strade che si incrociano per diventare una sola, anche se solo per un po', strade che invece si muovono parallele, con solo un filo del telefono a collegarle. Strade che sono state programmate prima di noi, ma che non sono state scelte e che forse, in realtà, non sono neanche adatte a noi, strade che invece non sono mai state pensate o costruite e che riempiono di domande e strade che non sono strade, ma crocicchi che collegano strade, ma che non portano in nessun posto. City quindi è una storia fatta di strade, vie, sterrati e sentieri, che seguiremo in base all'ispirazione e che, alla fine, se saremo pronti a calpestarle, ci porteranno da qualche parte, dentro di noi. 

Duille 


"[…] magari siamo un crocicchio […], sono gli altri le strade, io sono una piazza, non porto in nessun posto, io sono un posto" (p.186). 



domenica 3 novembre 2019

Crisi millefoglie, parte seconda

Quando sono incastrata in una delle mie crisi millefoglie (ne abbiamo parlato qui), mi ritrovo a guardare con occhi nuovi e più comprensivi i k-way. Sì, avete letto bene, sto proprio parlando di quelle mantelle di plastica leggerissima che si usano per proteggersi dalla pioggia ma che tutti odiano perché A- sono brutte e B- sono emblema fisico della presenza del temporale, che sappiamo essere l'acerrimo nemico delle streghe di Oz e, inspiegabilmente, di tutta l'umanità urbanizzata. Ecco, in questi momenti di grande dolore esistenziale, quando gli strati di fatiche si sono accumulati nella tipica conformazione a millefoglie, io sento di capirli profondamente, i k-way, in tutta lo loro esile sfigataggine. 
Capisco la loro eventuale convinzione che il mondo sia solo un'enorme piscina in cui gente imbronciata cerca di sopravvivere alla giornata schivando pozzanghere e rischiando la rissa al minimo colpo di tosse mal rivolto. Li capisco perché, in questi periodi, anche io mi sento come loro: eternamente infradiciata da una pioggia di rammarico, arrancando in un mondo bellicoso come un negozio di elettrodomestici durante il black friday. E posso solo immaginare l'angoscia con cui un k-way si avventura in questo mondo ostile, conscio di essere composto solo di una plastica sottile come un'ostia di carta velina, perché anche io mi sento come lui, anche io sento di diventare un origami a forma di umano dentro ad una galleria del vento. Quindi sì, lo capisco, e fraternizzo con il suo desiderio di pre-pensionarsi nell'armadio, perché anche io vorrei fare la stessa cosa: appallottolarmi come un paio di vecchi collant e chiudermi in un silenzio meditabondo e cimiteriale. E tutto questo perché la mia ansia sociale fa la muta, cambia pelle come un vecchio serpente, diventando una nuvola di fitta nebbia londinese saltata fuori da un romanzo dickensiano. Lo so, molto allettante, soprattutto se non si è dei vampiri. Ed in effetti, questa crisi è un po' come quella pioggerellina leggerissima che ci perseguita in certi giorni di novembre, con la complicità della più ostinata coltre di nubi grigiastre dell'anno. Non sai che fartene, non capisci se sia o meno il caso di aprire l'ombrello, ti mette in difficoltà in ogni modo possibile e ti lascia bagnata come un tortellino abbandonato in un brodo freddo. L'emblema della tristezza. Ed in effetti è così che ci si sente durante la crisi millefoglie: tristi e spaventati in proporzioni variabili, come in un saliscendi stregato. A volte la paura è intrisa di una tristezza umida, altre volte è la tristezza ad essere resa ispida dall'incursione della paura, come se fosse fatta di lana grezza. In ogni caso, non è proprio la festa della cuccagna. Un'altra cosa che piace molto alla crisi millefoglie è giocare alla matematica: sottrae e addiziona come se avesse intenzione di diventare il Frankenstein del nuovo millennio. Ad esempio, ci lascia pieni e vuoti allo stesso tempo. Ci svuota come con un cucchiaio da gelato, creando dei vuoti rotondi, in cui si vedono ancora le forme di ciò che c'era prima. Sembrano quasi dei morsi perfettamente lisci. Stranamente però questo svuotarci come zucche ad Halloween non ci fa sentire più leggeri ma, al contrario, ci rende pesantissimi, perché ora si è pieni di sabbia, che si accumula soprattutto sulle gambe, spesse come capitelli romani, e nel petto, che assume le fattezze di un'armatura medievale in cui il cuore sbatacchia come una falena impazzita. Qua e là, in mezzo a tutta quella sabbia, ci sono anche degli spilli, che pungono mentre ci muoviamo, senza preavviso, quando meno ce lo si aspetta, mentre siamo dal fruttivendolo, ad esempio, o ad una festa in cui ci stiamo quasi divertendo. Proprio in quei momenti, mentre stiamo ridendo o ci stiamo guardando i piedi in attesa del nostro turno, ecco che lo spillo trova spazio nella sabbia e punge la pelle, rendendo tutto improvvisamente spaventoso e davvero troppo frastornante. 
Vorremmo correre via, ma mica è facile correre con 100 kg di sabbia in corpo. Non è proprio come aver mangiato una ciambella di troppo, ecco. Ma l'esperimento non finisce qui. La crisi millefoglie ci sottrae anche la volontà: vorremmo piangere ma non ne abbiamo voglia, parlare con qualcuno sarebbe davvero un toccasana ma non ne abbiamo voglia, distrarsi aiuterebbe non poco ma non ne abbiamo voglia, vorremmo urlare fuori tutto il dolore e la rabbia ma, di nuovo, non ne abbiamo proprio voglia. L'unica cosa che siamo in grado di fare è restarcene inerti come una sogliola sotto la sabbia fino a nuovo ordine, magari crogiolandoci in un po' di sana autocommiserazione di passaggio, ma comunque sprecando meno energie possibili. E questo perché siamo stanchi di una stanchezza tutta particolare, malaticcia, che ci fa il respiro da influenza, sapete, quel respiro che sembra avere una consistenza diversa, più solida, quasi gelatinosa. Il nostro però non è carico di germi, ma di tutte le lacrime che, a furia di sottrarci volontà, non riusciamo più a direzionare verso gli occhi, e che restano quindi intrappolate nella maglia dei nostri respiri gravi come l'espressione di un maggiordomo inglese. Siamo stanchi ma nel frattempo dobbiamo continuare ad andare avanti, lottare per non uscire in pigiama ogni mattina, affrontare gente paurosa, beccarci tutti i ganci del Serraglio in forma più che smagliante mentre a noi dondola anche l'ultimo dente rimastoci in bocca e abbiamo gli occhi così pesti che anche un panda s'impressionerebbe. Siamo stanchi perché ci dobbiamo difendere da tutto, dagli altri fuori, nel mondo, ma anche da noi stessi, e dalla consapevolezza, vecchia come le Dolomiti, che, per quanto possiamo dibatterci, per quanto potremo cambiare strada, muoverci come gamberi o fare le linguacce al mondo come Julius il cane, alla fine ci ritroveremo sempre lì, inchiodati al punto di partenza, davanti alla sfilata dei nostri impossibili. E allora, in quel momento, troviamo il comune denominatore di tutte le sensazioni che proviamo durante la crisi millefoglie: la sensazione di essere senza scampo. Inesorabilmente. E arrivati a quel punto, le cose di solito prendono una duplice piega: prima ci deprimiamo, perché è cosa buona e giusta e sicuramente da qualche parte è scritto anche nel manuale delle giovani marmotte, ma poi iniziamo a capire che per uscire dalla crisi non c'è bisogno di fare gesta eroiche alla Sailor Moon, che rischiava la morte ad ogni finale di stagione, ma è sufficiente un piccolo cambio di prospettiva. Un aggiustamento di sguardi. Non c'è bisogno di un titanico tentativo di trovare nuove parole per frantumare violentemente quella sensazione di essere senza scampo. Non è nella nostra indole e forse non avremo mai le forze per un cambiamento così drastico. Ma, in fondo, non è neanche necessario farlo. Basta uno scambio di lettere. Barattare una "o" per una "i", per esempio, e trasformare un terrificante "senza scampo" in un più accettabile "senza scampi". Perché senza crostacei, si può vivere tranquillamente, ma senza scampo l'esistenza diventa fastidiosamente opprimente, non credete? Ed è in questo modo che, piano piano, si esce dalla crisi millefoglie. Riconoscendo che la nostra è una vita che sicuramente ha i confini più stretti di altre, ma è ben lontana dall'essere piena di impossibili, e che i cambiamenti si sviluppano non frase per frase o parola per parola, ma una lettera alla volta. A colpi di "i" al posto delle "o". Barattando una vita senza scampo per una vita senza scampi.  

Duille





domenica 6 ottobre 2019

I sensi dello scrivere: un incantesimo alchemico

Quanti significati ha l'atto di scrivere? Milioni, suppongo, quanto il numero di aghi su un pino e tanti quante sono le persone che posano una penna sulla carta per la prima o per l'ennesima volta. Uno di questi significati è che scrivere è come costruire uno scudo di parole.
Ci si protegge dietro una fila ordinata di sillabe e lettere scelte accuratamente per risplendere come porporina sulla pelle, ci si nasconde dietro una sequenza di pensieri incatenati e cuciti tra loro come i punti di un lavoro a maglia. Sono formule magiche che ci danno il potere di quanto dire ma, soprattutto, di come dire. Ci camuffano come un mantello dell'invisibilità e proteggono le nostre parti molli come un'armatura. Dietro le parole, scompariamo per quello che siamo convinti di essere, e diventiamo forza in potenziale, fuoco d'artificio, vento leggero, profumo di salsedine. La scrittura ci tutela privandoci del corpo e restituendoci essenza. Le lettere sciolgono i nostri nodi come pettini, ci levigano come le correnti di un fiume, lasciandoci tondi come pesche. Quando si scrive, le parole possono svuotarsi come secchielli, diventando suoni e spazi da riempire di senso, oppure possono richiudersi in se stesse, come pistacchi non tostati, di cui si può sentire solo l'aroma. Altre volte, le parole potranno sparpagliarsi come una cartina stradale, rivelando ogni carreggiata, ogni vicolo cieco, ogni sentiero sepolto nel sottobosco. Starà a chi scrive decidere quanto aprire e quanto chiudere, come un cielo di ottobre inondato di nuvole. Sembra tutto racchiuso nel potere di una mano, un intero universo concentrato sulla punta scorrevole di una penna, come un caleidoscopio. Ma in fondo, lo scrivere è un controsenso perché mentre ci fa da scudo, ci apre come un fico maturo, mostrando la polpa morbida, stillandone il latte bianchissimo e denso, esponendo i contrasti cromatici del nostro confuso mondo interiore.
Ci tira fuori tutto, ci sparge sul tavolo, cosicché sia tutto visibile e poi, una sillaba alla volta, ci raccoglie di nuovo in piccole capsule fatte di lettere e ci dà un senso che credevamo di non sapere, ma che è sempre stato lì. A volte è brutale, la scrittura, e per arrivare in fondo deve scavare fin nelle viscere, farsi strada nell'adipe, spostare i muscoli tesi e sfilare gli intestini arrotolati come bisce nella loro tana. Bisogna conoscersi profondamente perché la protezione sia efficace. E' il patto di questa formula magica. Come un incantesimo alchemico: dare qualcosa per ricevere qualcosa. Scrivere è una magia che richiede un sacrificio di sangue, domanda l'ascolto delle campane interne che suonano a lutto, il camminare nei nostri campi morti e nei cimiteri infestati dai fantasmi, ci chiede di parlare con loro, guardare nelle loro orbite e vederci riflessi in quel buio. Ci chiede di avvicinarci al fuoco fin quasi a bruciarci, perchè per poter arrivare all'alba si devono affrontare anche tutti i rintocchi della notte. In cambio però ci regalerà un contenitore nuovo ed ordinato in cui trasformare questo tumulto indifferenziato in una forza motrice, in un jinn addomesticato che ci renderà capaci di raccontarci ad armi pari con i mostri interiori e con il mondo là fuori, spesso troppo occupato a giudicare per mettersi davvero ad ascoltare. Scrivere può proteggerci, quindi, ma solo lacerandoci, solo aprendoci come una noce per osservare il nostro gheriglio arricciato in crinoline legnose. A volte potrà sembrare che scrivere ci corroda o ci sfili i pensieri dalla gola come un filo di nylon. Altre volte ci bacerà le ginocchia sbucciate e passerà le sue dita morbide sulle guance arrossate di lacrime. Spesso farà entrambe le cose. Ma così facendo, avvicinandoci a noi stessi, ci cucirà un abito di giunchi intrecciati e code di volpe, che si piegano ai venti ma non si spezzano mai.
Duille

domenica 29 settembre 2019

Telefilm addicted #20: Mad Men

"Sex. Lies. Storyboards". Così la tag-line sui manifesti presentava, nel 2007, una delle serie più acclamate della contemporaneità, Mad Men. E mai descrizione fu più azzeccata per riassumere l'immenso e stratificato mondo di questa serie, che ha fatto scuola parlando della Storia moderna americana attraverso i suoi personaggi. 
Mad Men ci racconta infatti la vita di un'agenzia pubblicitaria di New York, la Sterling Cooper, durante il decennio che va dal 1960 al 1970, e delle vite dei suoi dipendenti, dei loro progetti ambiziosi, la loro lotta per l'affermazione individuale e professionale, il loro adattarsi ai cambiamenti sociali e lavorativi, mentre sullo sfondo si snodano i grandi eventi della Storia. Il titolo, Mad Men, è un gioco di parole che incarna perfettamente il doppio binario su cui corre la serie: da un lato c'è Madison Avenue, la via dei pubblicitari in cui si trovano gli uffici della Sterling Cooper e delle altre agenzie, un mondo patinato, veloce, in cui l'immagine vince su tutto ed in cui la realtà viene piegata e deformata ad esigenza del consumatore; dall'altro c'è la follia (mad in inglese significa "pazzo") delle vite scheggiate dei suoi protagonisti che rifiutano di fare i conti con le proprie fragilità e che finiscono quindi spesso per autosabotarsi nel tentativo di salvarsi. E' necessario un avvertimento però: Mad Men non è una serie facile. La sua struttura narrativa è lenta, con un graduale scivolamento verso profondità di cui intuiamo appena le forme, i suoi dialoghi sono studiati ma spesso ermetici, l'analisi dei personaggi non imbocca mai la facile strada della esplicitazione, i suoi protagonisti sono tutti, immancabilmente, antieroi pieni di ambiguità. Mad Men, insomma, richiede impegno, costanza e concentrazione, perché non ha nessuna intenzione di imboccare lo spettatore. E' una serie densa come l'ambra che cola dalle conifere, che però, se le si da' il tempo di solidificare, diventa un gioiello prezioso, proprio per quelle caratteristiche così lontane da certe forme di serialità contemporanea a cui siamo abituati. Mad Men è un progetto ambizioso che fa della stratificazione il suo punto di forza: infatti si prende il tempo di costruire non una narrazione, ma un intero universo sociale, puntando tutto su personaggi/specchio di una società che per molti tratti sembra l'embrione di quella attuale.
 Mad Men infatti ci presenta molti temi della contemporaneità, raccontandone gli albori: il razzismo dilagante, la precarietà lavorativa, la quotidianità alienata dentro un ufficio, che diventa il solo vero scopo della vita, al punto che perdere l'impiego significa perdere tutto, anche il senso della propria esistenza. E ancora la disparità di genere, che non è mai vera misoginia, quanto un'abitudine culturale già quasi pronta ad essere superata, la sessualizzazione della donna, che fatica ad emanciparsi dal suo corpo, e la scarsa complicità femminile, vittime della stessa abitudine culturale che affligge i maschi. Mad Men ci mostra un mondo dominato da uomini in cui le donne faticano ad inserirsi senza snaturare se stesse, ma è un mondo difficile anche per gli uomini, cui viene richiesto di omologarsi al modello maschile vigente. In questa realtà così complessa e realistica si innestano, come diamanti ancora da levigare, le storylines dei diversi personaggi, i dipendenti della Sterling Cooper e le loro famiglie, che stratificano ulteriormente la vicenda. Ogni lavoratore della Madison Avenue è infatti un antieroe, come dicevamo, fatto di ombre spesse come linee di pennarello, ciascuno in fuga da qualcosa o in cerca di qualcosa, tutti aspiranti alla bidimensionalità del pubblicitario vincente e carismatico, anche rinunciando alla tridimensionalità dell'essere umano autentico. Ciascuno di loro fugge dalle contraddizioni che li differenzia l'uno dall'altro, tutti proteggono i loro segreti e le loro fragilità anche dai colleghi con cui hanno maggior confidenza, alienandosi a se stessi e agli  altri, isolandosi al punto da non riuscire più a capire chi sono e finendo, inevitabilmente, per agire sotto l'influsso di questi segreti che tentano di nascondere sotto litri di alcool. Lo spettatore, alla fine, finisce coll'avere dei sentimenti ambivalenti verso di loro, amandoli per la loro fragilità e odiandoli per il loro egoismo e la loro cecità, che spesso finisce col danneggiare anche le persone che li circondano. 
Accanto a loro, infatti, c'è il secondo nucleo di personaggi, composto dalle mogli, dai figli, dai compagni dei protagonisti, che cercano di ritagliarsi uno spazio nelle vite di questi pubblicitari ossessionati dal lavoro, che lottano per non essere marginalizzati e, a loro volta, deformati e strumentalizzati, o peggio, dati per scontato. Personaggi che, alla fine, saranno anche pronti a forti gesti di autovalorizzazione quando saranno messi di fronte all'inconsistenza dei legami su cui hanno investito. Don Draper, il protagonista assoluto della serie, è sicuramente l'esempio più emblematico della contraddizione interna che affligge i personaggi: è l'uomo del momento, il pubblicitario dalle idee più brillanti, carismatico, enigmatico, corteggiato da uomini e donne, colui che tutti vorrebbero essere. Ha una moglie bellissima e fedele, due bimbi biondi ed educatissimi che stravedono per lui e una casa in periferia con ogni genere di confort. Don però si rivela ben presto essere solo una bugia ben confezionata, che cela dietro di sé un vuoto interiore da cui il protagonista fugge, scappando da un letto all'altro, da un incarico al successivo, da un bicchiere di whiskey ad un Old Fashioned, fino a quando la realtà lo agguanta al punto da costringerlo a scappare davvero, anche se solo per brevi periodi. 
Dietro queste lotte intestine, Don si lascia una scia di cuori infranti, di abbandoni reciproci, di illusioni smontate dalla realtà, di scelte difficili. Ma Mad Men non è una serie cinica e disillusa e i suoi personaggi non sono sadicamente destinati al precipizio: evolvono a colpi di realtà, lottano contro la verità che si para loro davanti e, di volta in volta, scelgono se e quanto accogliere di questa verità. Diventa perciò affascinante osservarne i cambiamenti e si finisce a fare il tifo per loro, si piange con loro e si gioisce con loro, come si farebbe con un membro della propria famiglia. Mad Men è quindi una serie che ha i tratti del grande romanzo, con una narrazione corale che punta tutto sulla psicologia dei personaggi e che sfida lo spettatore ad intuire, a fare uno sforzo di comprensione, proprio come si farebbe con persone in carne ed ossa. Mad Men è un esempio di ottima scrittura creativa e se ne può estrapolare anche un messaggio di fondo: non si può sfuggire a se stessi e l'omologazione ha sempre un prezzo, spesso molto caro. In 7 stagioni, 92 episodi, 72 ore di visione, Mad Men ci racconta un'era, con le sue contraddizioni, le sue fatiche e i suoi protagonisti che cercano la felicità nascosti dietro una cortina di fumo di Lucky Strikes e un bicchiere di Martini sorseggiato con grazia. In barba a fegato e polmoni. 

Duille


domenica 15 settembre 2019

Quando procrastinare è un'arte

Procrastinare. L'arte del rimandare fino a quando non è più possibile farlo, la scienza della segmentazione costante del tempo in granelli sempre più infinitesimali, la disciplina agonistica del resettare il timer ogni volta che si avvicina la fatidica scadenza, bestia sacra degli iniziatori di dieta, dei pigri, dei compilatori di buoni propositi, degli studenti universitari e, naturalmente, degli ansiosi. Tutti la conosciamo, tutti ce la portiamo dentro come il batterio del fuoco di Sant'Antonio che, si sa, finisce sempre col bussare alla porta nei momenti meno opportuni e senza neanche portare una conveniente bottiglia di vino. 
 La procrastinazione non è di certo prerogativa dell'ansia sociale e non sono neanche certa che tutti noi ansiosi la usiamo allo stesso modo, ma di sicuro la sottoscritta ne usa e abusa a piene mani, al punto che, se esistesse un suo equivalente del barattolo delle parolacce, a quest'ora avrei già potuto comprarmi una capannina alle Maldive, con quel giusto grado di modestia dato dalle mie umili origini. Dato che suppongo che la procrastinazione agisca per vie oscure e personalissime, lasciate che vi racconti come essa si declini nella mia nervosissima personcina. Prima di tutto, per me la procrastinazione è fortemente legata all'ansia, detta anche il buco nella ciambella della mia esistenza. Ansia e procrastinazione sono amiche per la pelle, tipo la pizza e l'ananas per gli americani, e in me diventa lo strumento supremo dell'autosabotaggio, proprio come la pizza hawaiana. Vorrei dire che la uso per evitare eventi spaventosi, ma questo significherebbe affermare che agisco su di lei una qualche forma di controllo, quando, diciamocelo, è molto più probabile che io riesca a convincere telepaticamente i piccioni a liberare i loro intestini sulle auto dei miei nemici piuttosto che controllare il piccolo sabotatore interno. No, direi piuttosto che lei si attiva quando ho paura di fare un qualcosa collocabile in un futuro dall'imminenza variabile e sempre in occasione di eventi da evitare assolutamente, anche a costo di dover espatriare sotto falso nome. In questo senso non so se dovrei considerarla, almeno nelle intenzioni, una sorta di salvavita Beghelli, un salvagente nel mezzo di un oceano senza neanche lo sputo di un atollo all'orizzonte, oppure la mazzata definitiva sui denti, stile bastone che si abbatte sul cucciolo di foca. Penso che in definitiva sia un mezzo con cui cerco di illudermi di poter evitare il problema che mi affligge senza prendermene davvero la responsabilità, proprio per la mancanza di controllo di cui sopra. Per me la procrastinazione gode di vita propria, come la ricrescita post epilazione: non la puoi evitare, non la puoi rallentare, puoi solo continuare a combatterla come si lotta per estirpare il male dai posseduti (the exorcist insegna). La mia procrastinazione poi, proprio perché è una veterana e ha molti anni di fidato (e non richiesto) servizio alle spalle, col tempo ha iniziato a diventare creativa, così da riuscire a svicolare meglio al mio già lasso controllo razionale. Il mio piccolo sabotatore interno quindi ha diversificato l'offerta, comprendendo:

1. uno starter pack, fatto delle classiche frasi standard tipo "lo faccio dopo", "finisco questo e vado", "stasera mi ci metto, giurin giurello", "cascasse il mondo, domani lo faccio" e svariate altre versioni del "perché fare oggi quello che potresti fare domani, soprattutto se quella cosa che devi affrontare te la fa fare nelle mutande peggio di un abbondante piatto di lenticchie in brodo?". Lo Starter pack mi si attiva di solito quando la Diabolica Scadenza è molto lontana o quando l'evento in questione non è per me di grande importanza, quindi probabilmente riuscirò ad evitarlo senza troppi sensi di colpa. Questo perché di solito è la forma di procrastinazione più facilmente rilevabile dalla mia coscienza, che io immagino sempre come dei Nasi che subodorano le palle che mi racconto da sola. Se dovessimo paragonarlo ad un odore, il pacchetto base saprebbe molto di gorgonzola. E si sa, la puzza di piedi è inconfondibile e impossibile da ignorare.

2. Bugie, in vasto assortimento e a diversi livelli di raffinatezza, che vanno dal non ho tempo, al sono stanca, lavoro troppo, sono molto impegnata, ci sono le pulizie da fare, i gatti da nutrire, l'aria da respirare, il senso della vita da cercare, fino a contorti ragionamenti scagionanti che si supporrebbero a prova di bomba. E non iniziamo neanche a parlare delle indulgenze papali che mi regalo quando ho affrontato altre situazioni ansiose durante la giornata e che mi permettono di giustificare la procrastinazione della scadenza al giorno dopo in nome del mio essere Giovanna D'Arco. Come si potrà intuire, la bugia è particolarmente conveniente perché, oltre a permettere di procrastinare, mi ammanta anche di un'aura di santità stakanovista, praticamente divento una mondina dei primi del Novecento. Di fatto, mi da' la scusa perfetta per mettere al tappeto i cani del senso di colpa già pronti a spolparmi viva. 

3. Le amnesie. Qui siamo già a livelli di creatività da Triennale di Venezia. Dato che nel corso degli anni i Nasi hanno iniziato a subodorare puzza di bruciato anche nelle bugie (ve lo dicevo che la mia coscienza è un po' lassa), la procrastinazione ha fatto un salto di qualità arrivando direttamente a farmi dimenticare le scadenze che mi spaventano, ripalesandole nella mia mente quando, per vari motivi, sono impossibilitata a portare a termine quelle azioni. Uno dei momenti più deliziosamente disturbanti è la ricomparsa del ricordo la sera tardi quando, già indossato il pigiama con le pecorelle e comodamente sistematami sotto le coltri, inizio ad abbioccarmi felicemente. A quel punto, in un lampo da fulmine a ciel sereno, mi ricordo di aver dimenticato di fare quella cosa, La Terribile Cosa che mi mette un'ansia assurda. Risultato? Sonno rovinato, ansia a pallettoni e cuore che tenta di sfondare il petto in stile cartone dei looney toones. Il mio futuro prossimo è costellato di occhiaie grandi quanto piccoli monolocali e irritabilità da gatto a cui hanno pestato la coda. 

4. Le somatizzazioni. Somatizzare significa trasferire sul piano fisico questioni che riguardano l'emotività: crampi allo stomaco, problemi intestinali vari, dermatiti, tachicardia e altri deliziosi flagelli fuori elenco sono tutti classici esempi in cui il corpo reagisce alla psiche. Quando è la procrastinazione ad avvalersi di questo meccanismo, si raggiungono però livelli da magia nera perché è la forma che agisce direttamente sul corpo e la percezione e che viene usata solo nelle situazioni di emergenza, cioè quando, evidentemente per intercessione divina, sono riuscita a superare tutte le precedenti tecniche di sabotaggio e mi ritrovo catapultata nell'imminenza della Terribile Cosa. A quel punto, maestro entra in azione. Innanzi tutto il tempo improvvisamente assume due velocità diverse: c'è il tempo accelerato nella mia mente, che corre come una volpe inseguita da altolocati cani britannici, e il tempo esterno, che continua a muoversi alla solita velocità. Il risultato è che mentre per me passa un secondo (quel secondo in cui io ragiono sul da farsi) fuori, nel mondo, di secondi ne sono passati cinque. L'obiettivo è quello di farmi perdere l'occasione e credo di costellare il tutto con la classica figura da cioccolataia. Lo sfasamento temporale si associa poi con l'atteggiamento da stoccafisso del corpo, che rifiuta di fare qualsiasi cosa che vada oltre al tenersi in vita. Fine di ogni comunicazione tra centro e periferia e marmorizzazione istantanea da attacco d'ansia. Sciopero dei mezzi fino a nuovo ordine. Silenzio siderale in ogni direzione. La tundra praticamente. Alla fine, in questo tipo di procrastinazione, il mondo, che non ha tempo da perdere con me, decide al posto mio, lasciandomi sola in mezzo ai rotolacampi a domandarmi cosa diavolo sia successo. E naturalmente, a piangere. Quello è un evergreen intramontabile che pepa le mie giornate dagli inizi del nuovo millennio. 

Questi sono le tecniche che la mia procrastinazione ha sviluppato nel corso di decenni di lotta armata e non oso immaginare quali incredibili altre meraviglie da incubo abbia in serbo per me in futuro.
Se per ognuno di noi la procrastinazione crea un campionario di tecniche pensate ad hoc per la nostra persona, penso di poter parlare con certezza nel dire che l'obiettivo sarà sempre quello di impedirci di prendere di petto la situazione, crogiolandoci piuttosto in una lenta agonia da verdura in cottura nella minestra che, sorprendentemente, troveremo essere comunque un'alternativa molto più valida e ragionevole alla folle idea di risolvere la questione una volta per tutte. In fondo, credo, ci si abitua a tutto, anche al vapore del bollito. 

Duille


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Eccomi! Sono una scrittrice in erba, divoratrice di libri, sognatrice professionista e ansiosa sociale multicorazzata. Ho la fissa dei ricordi, la testa fin troppo tra le nuvole, interessi disordinati, un amore impossibile per gli alberi e una passione al limite del ridicolo per le serie tv. Ah, e le presentazioni non sono proprio il mio forte. Si vede?

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