domenica 27 gennaio 2019

Capitolo 28: Una vita come tante

Una delle parole che un lettore ama di più, quando si parla di libri, è book serendipity: la fortuna di fare per caso l'incontro giusto al momento giusto. E' una scoperta casuale che di casuale sembra non avere niente, è un campo magnetico che fa sì che ci si attragga e ci si scelga proprio in quel momento. Ha del magico e forse è proprio per questo che piace tanto ai lettori, perché in fondo la serendipità, come i libri, è un po' capace di cambiarti la vita, di rimescolare le carte del tuo essere e dare corpo a qualcosa che prima era solo fuliggine. 
Per me questo è stato l'effetto di Una vita come tante, di Hanya Yanagihara, e per la mia serendipità devo ringraziare Julia, di Books and Kimonos, che mi ha accompagnata dolcemente per mano fino alla decisione di posare gli occhi sulla prima pagina di questo volume e che ha scritto una splendida recensione che vi invito a leggere. Una vita come tante è un libro gigantesco e non solo per il suo corposo numero di pagine (1094 e no, non è un errore di battitura), ma anche per il coraggio dell'autrice nel trattare tematiche così profondamente umane da sentire quasi il bisogno di rifiutarle, perché sanno troppo di terra per essere vere. Una vita come tante parla di tanto, pur sembrando poco, e parla di tutti, pur narrando solo di alcuni: racconta infatti di quattro amici che si conoscono il primo anno di college e che non si lasceranno più per il resto della vita. Ognuno è ambizioso in un modo tutto suo: Jb è un artista dall'ambizione quasi presuntuosa ma mai fastidiosa, Malcolm si approccia al suo sogno, l'architettura, con la tenacia senza fronzoli di un'aspirazione disciplinata, Willem vorrebbe fare l'attore e si dedica alla recitazione con tutta la disperata caparbietà di chi sa bene di avere pochissime possibilità. E poi c'è Jude, intelligentissimo futuro avvocato che sembra non essere sfiorato dalla tensione quasi dolorosa dell'ambizione struggente che vivono i suoi compagni. Sono tutti diversi, i quattro amici, hanno caratteri diversi e vengono da mondi diversi, eppure sono legati da un affetto autentico e profondo, che supera ogni differenza ed ogni incomprensione, anche l'ostinato bisogno di Jude di non raccontarsi mai, a qualunque costo. E l'intero romanzo ruota intorno a questa misteriosità ed al segreto che è la vita di Jude. Perché Jude è un mistero che sanguina sotto gli occhi di tutti ma che scivola come un'anguilla ad ogni tentativo di essere conosciuto, se non entrando nella sua mente, attraverso i suoi occhi e nei suoi ricordi. L'autrice riesce a dipanare questa massa di parole non dette, come un singhiozzo bloccato in gola, grazie alla sua scrittura semplice e lineare, tutta concentrata nel raccontare più che nel decorare con le parole e che salta da una mente all'altra come pulviscolo sulle giacche dei protagonisti, permettendoci di conoscere profondamente molti dei personaggi di questa lunga storia, che è davvero una vita, e forse neanche come tante. Nonostante questa semplicità linguistica, l'autrice dimostra di avere una padronanza del dispositivo narrativo davvero eccezionale, dato che propone descrizioni del quotidiano vivide, immersive ed innamorate dei piccoli momenti di ogni esistenza, ed è capace di concentrare tutte le sue doti nelle riflessioni psicologiche ed emotive dei personaggi e in piccoli e frequenti guizzi di eleganza o di frizzante ironia, che producono l'effetto del primo seme di mais che esplode nella padella diventando un leggerissimo popcorn bianco. 
Sono questi "pop" improvvisi, ma collocati in modo strategico, che permettono di alleggerire i toni drammatici del racconto senza privarlo di spessore, insieme ad una narrazione che naturalmente mantiene le giuste distanze dalla vicenda narrata, permettendo di essere abbastanza vicini da sentire l'odore delle lacrime sulle guance ma senza rischiare di rimanere ustionati dall'incandescenza dell'argomento. Perché, diciamocelo chiaro, Una vita come tante è un vero e proprio dramma. Un dramma che riguarda i suoi personaggi, certo, ma che, se spogliato della trama, diventa un discorso fatto al lettore, una messa a nudo di tutte le emozioni più umane che ci contraddistinguono e che non sempre sono piacevoli o accettabili. Questo libro è quindi una confessione di tutto ciò che di più autentico e fragile esiste nell'essere umano. A volte sono le meschinità inconfessate a tutti e di cui ci si vergogna un po', altre volte è la colpa per non fare abbastanza, per scegliere se stessi all'altro, ma la maggior parte delle volte è la paura. La paura della vita, per esempio, e di come tutto sia dannatamente difficile, anche quando tenti di essere il meglio che puoi. Una vita come tante è anche la storia del dolore causato da una vita capace di toglierti tutti e di darti tutto in un attimo, e che rivela così tutta la sua strutturale insensatezza. E' la storia della sofferenza di vivere ingabbiati in una profezia che si autoavvera, in un convincimento di acciaio che taglia la pelle e lascia cicatrici come la lametta di un rasoio. E' anche la storia di chi guarda questo male di vivere e muore un po' soffocato dal peso schiacciante dell'impotenza. E' la storia della maschera e della paura di essere smascherato, del silenzio che da scelta diventa obbligo, come una bocca cucita con fili di metallo. Ma Una vita come tante è anche la storia di quanto vi è di più prezioso al mondo, delle piccole gioie del quotidiano, dell'aria frizzante dell'inverno, degli affetti sinceri, di chi resta anche quando ci si autosabota, di chi capisce anche senza conoscere, di chi rispetta e ama, a prescindere da tutto, di chi vede il bello in noi anche quando noi stessi non lo percepiamo e che insiste a mostrarcelo fino a riuscire nel miracolo di farci venire un piccolo dubbio. 
E' quindi anche un libro sulla resistenza, sul fatto che nessuno si salva da solo ma che ci salviamo ogni giorno l'un l'altro, anche se non per sempre, anche se non del tutto. E' un libro che racconta l'importanza di credere, anche solo per un attimo, anche solo per un respiro, allo sguardo innamorato dell'altro e a ciò che questo sguardo trasmette. Una vita come tante è un respiro che si dilata diventando sospiro e poi urlo e quindi sbadiglio e sorriso e tremula espirazione. E' una catarsi che mette in contatto con la parte più profonda di noi, che ci restituisce più umanamente consapevoli del nostro essere umani. Potreste piangere leggendo questo grande tomo, potreste arrabbiarvi fino al punto di voler abbandonare il libro e il personaggio che vi ha fatto arrabbiare. Potreste volerlo abbracciare e sussurrargli che andrà tutto bene, che c'è sempre speranza. Potreste voler scappare dal libro o scappare dalla vita per non lasciare il libro e la sua storia, che scivola sotto gli occhi fin troppo in fretta. Una vita come tante funziona perché, oltre alla storia c'è un'altra storia, che riguarda ciascuno di noi, e ci mette di fronte alle sfumature del sentire, alle gioie più sciabordanti e all'angoscia più asfissiante. Per questo motivo possiamo dire che, sì, Una vita come tante parla di vite come tante perché racconta di tutte le vite scegliendo di seguirne alcune, mettendo all'universale l'abito del particolare perché seppur le storie cambiano, le emozioni che le abitano restano le stesse, sono come i fili con cui si tesse un arazzo e che ci permette di comprenderci l'un l'altro. Potreste sentirvi in tante parole e potreste avere paura di quello che troverete o forse, più probabilmente, potreste provare sollievo nel sapere che non siete soli, in quel sentimento a volte davvero scomodo. E così Una vita come tante assolverà ad un'altra funzione, quella di redimerci restituendoci dolorosamente completi. Ma non si fermerà qui. Ci metterà anche alla prova, ci chiederà di capire cose che potremmo non aver mai visto, ci chiederà di credere anche quando diremo che è troppo, ci chiederà di restare a guardare anche quando vorremmo solo salvare tutti e ci chiederà di ascoltare davvero e non solo superficialmente, di andare oltre a facili pregiudizi e di capire cosa significhi essere qualcos'altro. Una vita come tante sarà difficile da leggere per alcuni e fin troppo facile per altri. Ma d'altronde, così è la vita. 
Duille

"Annika parlava a macchinetta, e doveva aver deciso che la strategia migliore fosse trattare Willem come un'eclissi, limitandosi a non guardarlo". (p.22


("pop")



domenica 13 gennaio 2019

Se telefonando io potessi non infartuarmi ti chiamerei

Ci sono suoni che terrorizzano e che trasformano subitaneamente nella gelatina verde sul cucchiaio di Lex in Jurassic Park. Ognuno ha il suo, che sia l'abbaiare furioso di un cane o lo sfarfallio inquietante e sinistro di una cimice ancora non individuata nella stanza. A volte si tratta di suoni dalla comprovata e condivisa spaventosità, come una forte esplosione, un urlo raggelante nel cuore della notte o quei maledetti petardi lanciati da incauti preadolescenti a cui vorresti poi staccare arti e testa (che, tanto, è evidentemente inutilizzata). 
Altre volte invece, questi suoni sono Hill Houses personali, case infestate che solo pochi eletti possono davvero percepire e comprendere e che, per la maggior parte delle persone, sono solo espressione di menti un po' troppo impressionabili. Noi ansiosi sociali amiamo trattarci bene e abbiamo due suoni della cripta che, in linea di massima, ci producono uno stato di disagio di gravità variabile (dal tenderci semplicemente come corde di violino fino al desiderio smodato di seguire l'esempio di Van Gogh e staccarci le orecchie): il primo, di cui parleremo oggi, è lo squillo del telefono. Il secondo, come direbbe Papà Castoro, è storia per un'altra volta. Dunque, il telefono. Lo squillo del telefono per noi ansiosi sociali è qualcosa di terrificante, capace di scombussolarci al punto da sospettare di essere diventati dei quadri cubisti picassiani. I danni inferti da quel primo squillo mortale si sviluppano su più fronti e i più attenti di voi avranno già capito che l'eruzione vulcanica investirà, con le sue ceneri e lapilli, tanto il fisico come la psiche. Dal punto di vista fisico si potrà assistere ad uno spettacolo circense di occhi fuori dalle orbite, cuore martellante dai virtuosismi heavy metal, guance incendiate delle tonalità di aragoste cotte, sudorazione alla Pumba ("ma dopo ogni pranzo lui puzzava di più, tutti quanti svenivano e cadevano giù") e tutto il corpo irrigidito come se fosse stato inzuppato nell'amido ma comunque pronto ad una fuga precipitosa. Dal punto di vista psicologico, il telefono squillante rivela avere per noi la stessa carica batterica di un bambino urlante, ci impanica come la piccola Verdun durante il cambio del pannolino e ha la stessa portata mortale di una pistola puntata alla tempia durante il gioco della roulette russa. Ma, più semplicemente, possiamo paragonarne l'effetto psicologico a quello di una sirena che annuncia l'imminenza di un bombardamento aereo. Solo che, invece del consueto "si salvi chi può", a noi viene chiesto di restare dove siamo e continuare a conversare come se nulla stesse accadendo, cioè come se non stessimo per diventare carne grigliata. Un po' illogico, non vi pare? E spesso, molto più spesso di quanto non vorremmo, ci viene pure chiesto l'apoteosi dell'insensatezza, roba che farebbe impallidire anche Maccio Capatonda in persona: rispondere al telefono. In quel momento, la situazione diventa critica perché il nostro corpo si oppone strenuamente a quello che considera essere un vero atto suicidario. Il braccio si finge morto come un opossum nel deserto, le vie neurali improvvisano uno sciopero che paralizza tutte le arterie comunicative e la parte razionale del nostro cervello apre delle trattative che già sa saranno difficili. 
Da un lato, quindi, la parte razionale tenta di mostrare l'assurdità della situazione, dall'altra i sindacati neuro-muscolari si ribellano alla dittatura logica in nome del sacrosanto diritto al panico e all'autoconservazione. Il muscolo cardiaco, d'altronde, ha parlato: quando c'è la tachicardia si attivano i protocolli di emergenza, ovvero fuga scomposta verso nuove galassie con lascito di nuvoletta di fumo o sagoma del nostro corpo contro la parete sfondata. Tutto ciò accade, di solito, mentre la cornetta continua ad urlare iraconda, riempiendoci le orecchie della sua furente disapprovazione. Il cervello razionale sa di avere poco tempo e una credibilità da difendere e, di solito, dopo una fiacca quanto inutile strategia diplomatica, finisce col chiamare la cavalleria in tenuta antisommossa. Se le premesse sono le stesse ogni volta (o quasi), i risultati di questa manovra militare possono portare a due esiti, a seconda della gravità della nostra ansia: la resa popolare con il sollevamento della cornetta oppure una riproduzione in scala delle Cinque giornate di Milano, che lasceranno morti, ammaccature e stanchezza, ma anche la vittoria contro il demoniaco telefono. Come si potrà capire, quindi, rispondere al telefono per noi è come chiedere di strapparci un braccio a morsi, o una versione personalizzata di un episodio di Saw - L'enigmista. E la cosa peggiore è che siamo continuamente circondati da questi infernali strumenti strombazzanti che esigono presuntuosamente la nostra attenzione e che, ad ogni squillo, ci fanno sentire sempre più in trappola, sempre più con le spalle al muro. Un aguzzino sempre in tasca verso cui non riusciamo neanche a sviluppare la sindrome di Stoccolma. A questo punto, la domanda emerge, conseguente come una bolla d'aria nello stagno dopo il passaggio di un ranocchio o, meno poeticamente, come un bel rutto dopo una poderosa mangiata: cosa ci spaventa tanto? Ci sono due elementi problematici del rispondere al telefono: da un lato l'ignoto, l'imprevedibilità della situazione, a partire dal mistero della voce che risponderà al nostro "pronto". Questo primo problema ci impedisce di attivare qualsiasi meccanismo difensivo da noi abitualmente usato: non possiamo pianificare la risposta o prepararci alle possibili direzioni che prenderà la conversazione, né possiamo richiuderci nella nostra conchiglia di invisibilità da Wallflower. Siamo indifesi come gli alieni della Guerra dei Mondi all'arrivo dei virus, insomma. E sappiamo tutti come sono finiti. Il secondo elemento problematico è l'immediatezza della risposta insita nella natura stessa del dispositivo, che ci impedisce di avere il benché minimo controllo su quello che diremo, dato che sarà indispensabile una certa spontaneità ed improvvisazione, tutte cose in cui noi ci sentiamo capaci quanto un lamantino alle prese con un apriscatole manuale. Se quindi per gli altri rispondere al telefono è solo un gesto, per noi è un'interrogazione a sorpresa alla lavagna su un argomento che non abbiamo studiato. E questo vale esattamente allo stesso modo sia che siamo costretti a rispondere al telefono che nel caso in cui dobbiamo fare la telefonata. L'ansia può poi estendersi anche al citofono, al campanello, al messaggio istantaneo e, nei casi di ansia grave, anche alle mail, soprattutto quelle formali. La situazione poi peggiora drasticamente quando questo mini colpo apoplettico si sviluppa in un contesto allargato, come quello lavorativo, dato che, oltre alle paure sopra citate, si aggiungerà anche l'ansia causata dal bisogno di nascondere la propria fragilità e l'autoimposizione (perché non si può parlare di esigenza, ma di obbligo) di fornire una prestazione perfetta. Capite bene che il rischio di sovraccarico cognitivo è praticamente scontato ed infatti dopo pagheremo pegno, quando passeremo tutto il pomeriggio a letto con addosso la stanchezza di un raccoglitore di pomodori africano e l'angosciosa immagine di un futuro arricciato su se stesso. In realtà, fortunatamente per noi, le cose non sono così drammatiche come vorremmo credere: il tempo, la terapia e la pratica portano consiglio e rendono sempre più semplice affrontare il terribile strumento comunicativo. Gradualmente, telefonare al migliore amico non sarà più paragonabile a strapparsi i denti con una pinza arrugginita e il citofono sembrerà sempre meno il libro Mostro dei Mostri di Harry Potter. Ci vorrà pazienza, ci vorrà coraggio, ci vorrà speranza. Ma stranamente, di quella, ne abbiamo a pacchi. 

Duille




domenica 6 gennaio 2019

Una cosa di cui avevo bisogno

Qualche giorno fa stavo ascoltando un podcast di Francesco Costa, un giornalista che si occupa di politica americana. Durante una delle sue puntate, occasionalmente registrata in diretta da un locale di Milano, all'incirca verso la conclusione della seconda stagione del programma, Francesco ha tirato le somme di un'epifania vissuta in un momento molto particolare, uno di quei momenti un po' cinematografici in cui tutto sembra concludersi là dove era iniziato (che nel suo caso, era davanti ad un discorso di Obama). Era la chiusura di un cerchio, come l'ha definita lui stesso. 
"Senza eccedere nelle retoriche sui sogni, perché li sappiamo tutti ed è anche un po' svenevole ed esagerato, però se c'è una cosa che volete fare e non trovate lo spazio per farla, cercate di creare quello spazio dove non esiste, e si può fare senza che un qualcuno vi assuma […], si può fare senza che qualcuno vi dia l'incarico, senza che qualcuno vi dia soldi […]". A rileggerlo, è chiaramente un discorso di una semplicità estrema, alla Canto di Natale ( della serie "se non sarai buono morirai triste e solo"), forse anche un po' banale, se ci pensiamo bene. Ma come accade spesso, non è il modo in cui vengono dette le cose a stravolgerti il mondo, ma la particolarità del momento in cui quelle stesse cose vengono ricevute. Un po' come un libro, che letto in un momento della vita non trasmette nulla, è insipido come il piatto di pasta preparato ad un iperteso, ma che il momento dopo è il sorprendente specchio di come ti senti, la bussola delle tue emozioni, la stella polare che guiderà la tua zattera fatta di bottiglie di plastica attraverso la burrasca. E' stato così anche per me quando, mentre pulivo casa, mi sono sentita arrivare addosso una manciata di parole che ho scoperto essere ciò di cui avevo bisogno, come se fossi un piccione particolarmente affamato a cui venivano lanciate briciole di pane da un signore uguale a tutti gli altri, su una panchina identica alle altre di un parco qualunque. Era l'attimo perfetto ed evidentemente avevo il cuore orientato nella giusta direzione, come un aquilone lanciato su una gentile onda di vento ascensionale, che solleva senza strappare. Forse questa linfa vitale è stata particolarmente rinvigorente perché arrivava in uno dei periodi che meno amo, il cambio dell'anno, quel difficile momento in cui secondo la società dovrebbe cambiare tutto, in cui si dovrebbe ripartire da zero, pianificare incredibili cambiamenti di connotati esistenziali, riesumarsi dalle feste freschi come rose ed energici come all'uscita da una Spa ma che, per la natura (e per i nostri fisici provati da troppe fette di panettone), è solo l'ennesimo giorno di un ciclo senza fine di albe e tramonti. Ormai è chiaro che per me il capodanno ed il primo dell'anno siano passaggi ruvidi da affrontare, come carta vetrata sulla pelle o quelle difficili ore estive in cui sei costretta a soffrire le pene dell'inferno per la ceretta mentre, in fondo alla tua mente, ti chiedi insofferente che senso abbia torturarsi in questo modo, dato che, tanto, la selva ricrescerà con un ghigno malefico sulla faccia di ogni pelo. 
Forse, quindi, è proprio in virtù di questa difficoltà personale e della malinconia che il primo dell'anno porta con sé, che queste parole, semplici come briciole di pane condivise con un piccione, sono state così efficaci. Quello di Francesco Costa è un discorso onesto, realista e soprattutto, fattibile. Non è infarcito di retoriche disneyane o di romantici idealismi che fanno sempre a pugni con la noiosa e faticosa quotidianità. E' proprio come la mia visione del Capodanno: nulla più che un altro giorno che si inanella a quelli precedenti, nulla più che un altro sogno che potrebbe restare tale. Perché, diciamocelo, non siamo mica tutti J. K. Rowling, o Barack Obama. Rovesciando la celebre massima, è vero che non tutte le ciambelle riescono col buco, ma noi siamo i triliardi di ciambelle, mentre loro, le ciambelle senza buco, sono in realtà delle krapfen piene di crema che noi fingiamo di non riconoscere come tali perché l'invidia è una brutta bestia ma è anche l'animale da compagnia implementato in ogni confezione di essere umano, come i piedini minuscoli della Barbie che sfidano le leggi della fisica. Ma anche così, pur rischiando di scoprire di non essere eccezionali, vale comunque la pena di far crescere questi germogli, anche se senza la pretesa che un pomodoro diventi una quercia secolare. Magari resterà un pomodoro, ma comunque un ottimo pomodoro. E' un cerchio che si chiude, insomma. E per me, diventa la parola del 2019: coltivare. Coltivare le mie passioni per il gusto di farlo e non per cercare riconoscimenti, per inseguire carriere da sogno o trovare uno spazio di visibilità. Come dice Francesco Costa, creare quello spazio dove non esiste e, aggiungo, farlo perché se ne ha l'urgenza, perché fa stare bene, perché si ha bisogno di fare uscire quella parte di noi che non trova spazio nel piccolo mondo in cui viviamo ma che non possiamo ignorare, forse perché è la parte più importante di noi, la più autentica, la più frizzante, ribollente di vita, l'aria fresca di montagna che passa nel buco della nostra ciambella. Ritagliare uno spazio in cui vivere a modo nostro, secondo regole che potrebbero assomigliare più a quelle del Paese delle Meraviglie che della società moderna, in cui si festeggiano i non compleanni perché sono di più dei compleanni, in cui la logica è ribaltata ma resta pur sempre logica, solo un po' diversa. Un fazzoletto di vita, che sia una stanza tutta per noi, come diceva Virginia Woolf, in cui essere febbricitanti di entusiasmo mentre ci compare sulla faccia uno di quei sorrisi idioti da persone innamorate. Un luogo in cui rifugiarsi quando i capelli diventano bianchi per lo stress e quando gli inevitabili pugni nello stomaco ci mozzeranno il fiato. E fare tutto questo, senza la pretesa che diventi più di quanto non sia in partenza, onestamente, realisticamente, senza costruire utopistiche fantasie, senza inquinare una bolla di sapone perfettamente rotonda pretendendo che assuma la forma di una stella, ma arrivando alla dorata via di mezzo: la testa completamente tra le nuvole, mentre i piedi sono ben radicati a terra. 
Una vita da albero, insomma.
Duille

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Eccomi! Sono una scrittrice in erba, divoratrice di libri, sognatrice professionista e ansiosa sociale multicorazzata. Ho la fissa dei ricordi, la testa fin troppo tra le nuvole, interessi disordinati, un amore impossibile per gli alberi e una passione al limite del ridicolo per le serie tv. Ah, e le presentazioni non sono proprio il mio forte. Si vede?

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