domenica 29 luglio 2018

Vita da ansiosi sociali: l'autobus

Quando si è un ansioso sociale, la vita è un tantinello difficile, perché ogni gesto deve essere calcolato al dettaglio al fine di evitare complicazioni che potrebbero scompensarci per ore. Un esempio? La scelta del posto sull'autobus. Nella mia mente, la maggior parte delle persone, quando sale su un mezzo di trasporto, sia esso un tram, un pullman, un filobus, il Nottetempo o il Gattobus di Totoro, sceglie un posto che vagamente lo aggrada, impiegando al massimo mezzo secondo del suo tempo.
Planata a volo d'uccello, localizzazione posto vuoto, accomodamento sul suddetto. Al massimo, credo si eviti il sedile vicino all'immancabile tizio che puzza o all'altrettanto immancabile maniaco sessuale. Io invece, in quei dieci secondi che intercorrono tra il momento in cui appoggio il piede sull'autobus a quello in cui mi siedo, ho riempito la mia lavagna mentale di calcoli complicatissimi che mi rendono più simile ad una Sheldon Cooper in gonnella che non ad una persona reale. Appena salita, infatti, valuto con occhio robotico la quantità di persone già sedute sul bus, radiografo il numero di posti liberi ancora disponibili e li mappo topograficamente. Incrocio quindi questi dati con l'orario e faccio una stima della massa di umanità che transiterà su quella superficie metallica fino alla mia fermata e della velocità con cui i posti saranno occupati prima del mio pit-stop. Questa analisi preliminare mi aiuta a prendere la mia prima, fondamentale decisione che, una volta definita, sarà inappellabile (perché sono una maledetta ansiosa convinta che nessuno abbia di meglio da fare che giudicare me): sedersi o non sedersi? Se i posti sono già pochi e l'orario propizio ad un'alta affluenza, il rischio che i sedili vuoti vengano in breve tempo occupati da natiche di varie misure ed età è piuttosto elevato e se un paio di quelle natiche sono le mie, il risultato è una graticola di intere mezzore nel timore che si presenti il classico nonnino barcollante in cerca di un sedile in cui scaricare le sue fragili ossa. Ora, io non ho niente contro gli anziani traballini, anzi, ma il problema è che l'ansia sociale mi impone la clausura, quindi dovermi sbracciare per offrire al nonnetto con bastone il mio sedile è assolutamente fuori discussione! Attirerei l'attenzione su di me e questo mi provocherebbe una vergogna tale da farmi diventare un ingrandimento delle guance Heidi! E poi c'è sempre la possibilità che il nonnetto in questione sia uno di quelli che nega l'evidenza della sua età e che quindi vive come una grave onta personale un gesto che, diciamolo, è una specie di monumento alla vecchiaia. Praticamente, come se gli stessi incidendo l'epitaffio sulla lapide. E naturalmente ci sono i finti vecchi, ovvero quelle persone che portano molto male la loro età e che quindi hanno pure ragione nell'offendersi di fronte ad una tale pornografica offerta. Quindi, nel caso l'allineamento dei pianeti sia sfavorevole, ed onde evitare ansia e senso di colpa per il mio inevitabile venir meno alle buone maniere, rinuncio in partenza al posto a sedere e cerco un angoletto in piedi. Niente di più facile vero? E invece no! Se decido di restare in piedi devo cercare quell'unico angolo di bus che rispetti le seguenti caratteristiche: 
1- deve essere lontano dalle porte, in modo da evitare angoscianti domande del tipo "Scende?" (che a Milano sono accompagnate da fastidiosissime inflessioni sdegnate della voce) e, nel caso di grande piena di viaggiatori, in modo da evitare di dover salire e scendere continuamente dall'autobus, obbligandomi a riguadagnare una postazione lottando contro i nuovi arrivati come un tonno che risale la corrente.
2- deve trovarsi lontano dalle obliteratrici: l'ultima cosa che voglio sono tentacoli umani che mi spuntano davanti agli occhi violando il mio sacrosanto spazio vitale sudatamente conquistato e facendomi sobbalzare come un impiegato che ha bevuto troppi caffè. Ancora peggio, non vorrei ritrovarmi a diventare io stessa tentacolo del tentacolo, obliterando per procura il biglietto di un perfetto sconosciuto. Potrei morire di ansia! 
3- deve essere lontano dai punti di passaggio principali, ovvero da tutti quei corridoi in cui le persone si appendono in stile prosciutto di Parma costringendo i passanti a spintoni e arrampicate nel tentativo di superare la massa di salumi umani. Mi angoscia sempre tantissimo quando, mentre prosciutto (voce del verbo prosciuttare) in quei punti, mi viene richiesto l'impossibile compito di liberare momentaneamente il passaggio, soprattutto visto che, di solito, se arrivo a piazzarmi lì, è perché l'autobus è straripante come la pancia di una persona sovrappeso con una maglietta troppo aderente. 
Dati questi vincoli, potrà sembrare impossibile trovare il posto perfetto, ma vi assicuro che esiste e non implica lo scavare una depandance in un lato del veicolo. Nei tram ad esempio ci sono deliziosi punti di raccordo tra i vagoni a forma di biglia in cui si può agevolmente sostare, mentre nell'autobus il paradiso è raggiunto in una zona dedicata ai disabili (ma solitamente non utilizzata), che è un vero Walhalla recintato e che darà la sicurezza della mucca nella stalla.
Se invece le condizioni ambientali sono propizie e la scelta del posto a sedere è possibile, la questione diventa dove sedersi. Oltre al consueto veto sul posto vicino al puzzone, al pazzo e al maniaco, io devo tenere in conto della posizione del sedile rispetto al bus e se optare per il posto singolo o doppio. Riguardo la prima questione, c'è da fare una premessa: io ho una visione un po' particolare della distribuzione umana nell'autobus, maturata in anni di viaggi paranoici in svariati mezzi di trasporto pubblici. L'autobus (o il tram) può essere suddiviso in tre parti: 
1- il muso, area di dominio geriatrica, in cui la dentiera, la sporta e il capello cotonato la fanno da padrone; 
2- la parte centrale, terra di nessuno in cui si ammassa l'80% del campionario umano; 
3- il fondo, dove la mia anima complottista colloca alcolisti, vandali, mangiamorte e cavalieri oscuri. 
Capite bene che la mia scelta si riduce immediatamente ai soli 2/3 dell'autobus, dato che non ho nessuna intenzione di accompagnarmi a gente con l'occhio sadico che lecca coltelli. 
Quando il mio lato compulsivo era alle stelle, sceglievo sempre il quarto posto davanti, lato destro e questo per un semplice motivo: era una zona di confine, ancora nell'Oldland ma ad un passo dalla No man Zone, il che riduceva il livello di sfigaggine da me percepito di almeno un paio di tacche. Tutt'altra storia è la questione posto singolo/posto doppio. Entrambi infatti hanno dei pro e dei contro: 
il POSTO SINGOLO garantisce un isolamento totale ma, in caso di arrivo di vecchino, donna incinta, pirata con la gamba di legno, mi sentirei moralmente obbligata a cedergli il posto, con conseguente tsunami emotivo. 
Il POSTO DOPPIO ribalta queste polarità perché, sedendomi dal lato finestrino, si annulla il problema della cessione del sedile: se il posto accanto a me è vuoto, potrà essere occupato e se è pieno, beh, è un problema del mio provvisorio collega di postazione. Il contro è che le probabilità di dover coesistere a strettissimo contatto con un perfetto sconosciuto sono altissime e altrettanto alto è il pericolo di dovergli rivolgere la parola nel malaugurato caso io debba scendere per prima. 
Anche in questo caso, la scelta dipenderà dal livello raggiunto quel giorno dal mio ansiometro. Per riassumere, quindi, la soluzione ottimale nei giorni di vacche grasse (ovvero i giorni in cui sono moderatamente felice e spensierata) è il posto doppio, lato finestrino, che mi concede almeno la gioia del carcerato e del gatto nel trasportino, ovvero quel quadratino di azzurro e grigio costituito dai marciapiedi, vera terra promessa dei miei viaggi della speranza e, nel caso di vacche magre (ovvero crisi esistenziali), ci sarà sempre la ricerca del mitologico posto in piedi in cui piantonarmi come uno stuzzicadenti nell'oliva. Unica costante in questo pazzo mondo di variabili, è la presenza di quelli che chiamo "dissuasori sociali", paragonabili all'armatura medievale del mio cavalierato ansioso e rappresentati da libri in cui immergermi fino alla cintola, cuffie da cementare nelle orecchie con un doppio strato di calce, transenne di plastica posizionate ad aiuola intorno a me e fili spinati elettrificati in cui faccio sfrigolare minacciosamente fette di bacon dimostrative, per i più ottusi di comprendonio o per gli estroversi patologici. E, naturalmente, esiste la Regola delle Regole, tatuata a fuoco nell'interno delle mie palpebre come il marchio del Parmigiano Reggiano sulle forme di formaggio: è tassativamente vietato il contatto visivo con altri esponenti del genere umano. Equivarrebbe ad una proposta di matrimonio con tanto di teatrale inginocchiamento, anello e banda di mariachi festanti. E, se non fosse ancora chiaro, piuttosto preferirei mettere la testa nei portelloni a scorrimento del bus mentre si chiudono. Mettendo in atto tutte queste accortezze da palombaro nella vasca degli squali, riesco solitamente a superare indenne il viaggio in questa scatoletta del dolore e, alla fine, ciò che mi resta è la razionale consapevolezza della mia estrema follia (come se ce ne fosse ancora bisogno) e il sollievo ansioso dato dal fatto che, per parafrasare il buon Dante, infine usciremo a riveder le stelle. 
Duille

domenica 15 luglio 2018

Vento

Ho sempre avuto un rapporto speciale con il vento. E' sempre stato il mio più fedele amico, non mi ha mai tradita né delusa. E' sempre arrivato nel momento giusto, anche quando tagliava il viso con le sue frustate polari, anche quando congelava le ossa fino al punto che si sarebbero potute spezzare e irrigidiva il corpo fino a renderlo una scheggia di vetro persa da qualche finestra. 
Il vento mi ha raccolta quando ero abbandonata sul ciglio di una strada, mi ha strappata a pensieri troppo torbidi in cui stavo annegando, è arrivato impetuoso a farmi perdere l'equilibrio e a farmi cadere tutti i sassi che mi trascinavo sulle braccia. Ogni volta ruzzolavano sull'asfalto, come biglie grigie, rotolando imbronciate seguendo le pendenze della strada o restando lì sul posto, come punti alla fine di una frase. Forse dichiaravano qualcosa, ma il vento non mi dava il tempo di pensarci troppo perché mi saltava in braccio, premeva la testa sulla pancia per farmela sentire e spingeva le mani sulla schiena per indurmi ad andare oltre, a guardare sopra l'asfalto, verso la mia direzione e puntando gli occhi sul presente. A volte arrivava improvvisamente, togliendomi il fiato come un abbraccio dato di slancio e poi mi stava accanto, soffiandomi sulle guance, riempiendomi la bocca di sapore di menta e fiori di campo, o di ghiaccio e neve fresca appena caduta su qualche montagna lontana, o ancora di pioggia piovuta in una pineta remota. Ogni volta mi ha restituita a me stessa con dolcezza, intensità e garbo. Il vento ha qualcosa di magico, di benefico, come un'ora passata a guardare la marea su una spiaggia deserta, con la sola compagnia dei gabbiani. Se lo si sa ascoltare nel suo inusuale gesto terapeutico, se lo si lascia entrare, il vento sarà anche in grado di salvare ciò che si pensava insalvabile. Così è stato per me, così è per me ogni volta. Ad ogni suo arrivo, io spalanco i pori, apro le imposte e chiudo gli occhi, lasciando che mi dica tutto e mi avvolga come una canzone senza note, per ricordarmi quello che ho dimenticato. Il vento però è impetuoso e bisogna concedergli di spettinarci, di invaderci, di trotterellarci intorno e addosso, di strofinarsi sulle sguance e di pasticciarci. Perché funzioni, devo lasciare andare ogni difesa, ogni ordine, ogni preconcetto, devo aprire tutti i cassetti e lasciare che entri in ogni stanza, facendo volare le carte, scompaginando le pagine del mio romanzo. E' così che opera, che trasforma e rivitalizza. Il vento mi disordina i capelli, facendoli diventare sottilissimi fili di cotone o trasformandoli in ragnatele accoccolate sui raggi del sole e nidi di cuculo pronti per essere deposti su un ramo di mandorlo. Quando ho bisogno di aria nelle mani, lui si intreccia alle dita, portando negli spazi tra le falangi luoghi infiniti da passare intorno agli indici, ai polli, agli anulari, come anelli fatti con gambi di margherite, e le molecole d'aria si rincorrono tra i polpastrelli, solleticandoli, come spighe di grano o come le gonne delle bambine che, passando, sfiorano le gambe. Quando sono rannicchiata in me stessa, completamente attorcigliata intorno ad un ematoma, il vento mi bacia i palmi, aprendoli come primule in primavera, trasformando il pugno contratto di emozioni in stella marina, aiutando la mano a lasciare andare quello che trattiene così caparbiamente e aprendola all'accoglienza di qualcosa di nuovo e leggero, come un palloncino pieno di elio, o una foglia donata benevolmente da qualche faggio, da custodire come un segno di fortuna o come un prezioso tesoro, per l'eternità di quella foglia, fino a quando arrossirà, imbrunirà e, alla fine, diventerà pergamena antica, fragilissima, come il ricordo di quel primo contatto. 
Quando sono sorda a tutto tranne che ai miei singhiozzi e alle mie urla di rabbia, il vento mi sussurra le sue parole rinfrescanti nelle orecchie, smuovendo tutti gli ossicini, e soffia dentro pascoli di montagna, campanacci di mucche, sguazzi di ruscelli su ciottoli di vecchie frane e nuvole bianchissime che per divertimento imitano le pecore sotto di loro. Se sono troppo piena, il vento mi ricorda che c'è ancora spazio e mi riempie d'aria, mi gonfia come una vela maestra rimasta troppo tempo abbassata, mi stende come un vecchio pezzo di carta, scartocciandomi e ritrovando le parole che si erano increspate e accroccate fino a diventare una fisarmonica di piani collassati e privi di senso. Quando il viso si coagula al centro, spaventato che possa sfuggire qualcosa dai bordi, l'aria mi stira le pieghe e mette essenza di camomilla sugli occhi gonfi di troppi vissuti, stende la fronte carica di pensieri e riempie la testa di profumo d'acqua e di accordi di chitarra suonati senza fretta, per il gusto di sentire ogni singola nota e ogni vibrazione di corda. Solo il vento riesce a regalarmi tutto questo: può disossarmi, sfilarmi i nervi dalla punta delle dita, trasformare i rami nodosi delle mani in alghe di fiume, che ondeggiano sinuose seguendo la melodia dell'acqua. Il vento riesce a svuotarmi come una conchiglia e riempirmi di nuovi suoni, di sorrisi, di voglia di correre. Solo l'aria che mi investe come una promessa mantenuta mi può spingere a srotolarmi come un ricciolo e a protendermi verso l'alto, occupando lo spazio che mi serve, cercando di toccare il cielo con tutte le dita, facendo sì che anche la più piccola cellula di me si apra a fiore in un unico, ampio sospiro di sollievo. Forse potrei addirittura crescere, in quei momenti, diventare più alta, più ampia, più piena di profumi e suoni, di silenzi e vuoti. Il vento ha questo potere, ha questa carica vitale che invade tutto e pulisce, come una cascata di risate o la prima giornata di sole primaverile. Schiude il sorriso come un uovo di passero e apre lo sguardo restituendogli i colori, le forme, le sfumature. Il vento, se lo si lascia parlare, raccoglie quello che si è perso per strada e lo rimette al suo posto. Passando nel vento, attraversandolo, perdo le pietre, una per una, le lascio cadere con tonfi secchi e punteggiare il mio sentiero come macchie di dalmata, e rimetto negli spazi vuoti del mio corpo lo stupore, il tempo, il desiderio, la gioia irrefrenabile, la creatività, come pezzi di puzzle che non sapevo di aver fatto cadere. E alla fine, dopo questa passeggiata mano nella mano con lui, il vento mi lascia leggera e viva, distesa come un campo di papaveri e forte come una quercia secolare carica di ghiande. 

E non boccheggio più. 

Respiro.
Duille


domenica 1 luglio 2018

Capitolo 25: I Parassiti

Ci sono tanti motivi che ci spingono ad iniziare un libro: curiosità, passione, noia, amicizia o l'evergreen di tutti i tempi, il bisogno di farne qualcosa di sé mentre si è in una sessione particolarmente lunga al gabinetto. Nonostante l'incipit di questo nuovo incontro possa non sempre essere poetico e romantico, alla fine il risultato sarà lo stesso: lasciare che il libro ci dia una chance e ci racconti la sua storia, sperando che noi, seduti sul nostro trono di porcellana, possiamo coglierne il messaggio.
Nel mio caso, l'incontro con I Parassiti, di Daphne du Maurier, è stato dettato da un motivo meno nobile del colpo di fulmine ma di certo più raccontabile rispetto al momento di rumba intestinale. La mia avventura con questo romanzo dallo sguardo altero e dalla compattezza monolitica, è iniziata grazie ad un invito indiretto di una splendida amica, Julia (qui il link al suo post: in omnia paratus) ed io mi ci sono buttata dentro con tutta la determinazione che l'affetto può conferire e con l'ignoranza propria di un bambino che impara a scrivere le prime aste sul quaderno a quadrettoni grandi. Che è un modo carino per dire che su questo libro ne sapevo quanto una pecora di fisica quantistica (o anche quanto IO ne so di fisica quantistica....quindi, se Socrate non ci inganna, questo fa di me una pecora, giusto?) I Parassiti si sono quindi dischiusi davanti ai miei occhi, trascinandomi in un mondo che, già dal titolo e dalla copertina, prometteva più variazioni di grigio di una vecchia stampante. Il romanzo ci racconta la vita di una famiglia di artisti, i Delaney, che vive calcando i palcoscenici di tutto il mondo e viene venerata dal pubblico per il suo incredibile talento. E' una famiglia immersa nell'arte fino a sfumarvisi dentro, addirittura ebbra di arte, come un babà al Rhum. I coniugi Delaney sono tumultuosi, turbinosi, luccicanti come un racconto di Fitzgerald, un tripudio di ori e di forme perfette, come un quadro di Klimt. Sono l'emblema dell'art for art's sake. Insieme a loro volteggiano i 3 figli, Maria, Niall e Celia, che pur essendo i protagonisti di questo romanzo, non sembrano essere i protagonisti della loro storia. I tre  fratelli vivono nel riflesso della luce dei genitori, lottano per entrare nel quadro, per essere dipinti, per essere guardati dai genitori nello stesso modo in cui questi guardano l'arte. I giovani Delaney narrano la storia di questo romanzo ma non sembrano accorgersene perché il loro sguardo è sempre altrove, teso ad aggirare un vuoto di cui nessuno parla, ma che di pagina in pagina si fa sempre più evidente, più ingombrante, più imbarazzante per il lettore, che sembra essere l'unico a notarlo. E' in virtù di questo vuoto che il lettore non riuscirà mai a condannare i tre protagonisti, pur non potendo identificarsi in essi, pur disapprovandone comportamenti, egoismi, narcisismi e distorti equilibri su cui si poggiano le loro relazioni. Infatti sotto tutti quei lustrini e quegli egoismi, si percepirà forte la solitudine, la domanda mai fatta ma che ha scavato dentro un vuoto innominabile. I tre protagonisti crescono intorno a questo buco di cui non sanno parlare, gravitano intorno ad una verità che non sono in grado di vedere e che guida ogni loro passo. Agganciati, ciascuno in un modo unico, alla storia familiare, a quei genitori che erano soprattutto artisti, vivono una vita che non è la loro, rincorrendo la risposta ad una domanda che, di fatto, è riposta nei luoghi sbagliati. E così si crea un gioco di sostituzioni, in cui l'amore si sostituisce con l'arte, nella disperata speranza che diventando tutto Arte, si sarà finalmente amati, si sarà visti, si sarà scelti. L'arte diventa un surrogato dell'amore in questa narrazione, la porta d'oro che dovrebbe rimuovere quel fischio sordo nel centro del petto, che dovrebbe completare.  
Entrarci tutti dentro, per sentirsi sempre un passo fuori, o non entrarci affatto, per rendersi indispensabili a quel genitore che amava ma da cui non si era mai scelti, diventa l'unico modo per sopravvivere, l'unica risposta possibile per arginare il vuoto. In questo modo, Maria, Niall e Celia diventano parassiti, che si cibano di tutto e di tutti senza potersi mai saziare, eterne solitudini che s'incastrano tra loro in modo famelico, amandosi solo per il loro essere riflesso di altro e arrivando quindi a non riconoscersi vicendevolmente nella loro irriducibile unicità, come d'altronde accadeva da bambini. Tutto questo dolore sotterraneo e strisciante è magistralmente diretto e padroneggiato dalla scrittura dell'autrice, dalle scelte stilistiche e di costruzione del romanzo, che di fatto è un grande memoriale soggettivo dei tre narratori. L'autrice allude senza mai rivelare, sfida il lettore, lo invita a ragionare, dissemina briciole lungo il percorso, a partire dalla voce narrante, decisamente inusuale ed estremamente originale, dato che si tratta di una narrazione corale in cui le voci dei tre narratori spesso si intrecciano fino a fondersi in un indifferenziato "noi" che sembra rappresentare alla perfezione questa loro impossibilità di esistere al di fuori dell'immagine familiare, di essere individualità. Si tratta quindi di un romanzo che non punta tanto sugli eventi, quanto sulla psicologia dei personaggi, che ci vengono presentati così come essi si vedono, e che costringe così il lettore ad un accurato ascolto delle parole, dei ricordi, dei non detti, delle verità nascoste tra le righe e rivelate più dagli agiti dei personaggi che da un vero esame di coscienza. E' un libro che richiede pazienza, attenzione e rispetto, perché non palesa mai niente, non esplicita niente, non spiega quasi niente. E' un romanzo che si co-costruisce insieme al lettore, che è invitato ad intessere, tra le trame della narrazione, la propria visione della storia, fino a darle un significato del tutto personale. In questo modo, I Parassiti diventa una moltitudine di storie in un solo romanzo, l'intreccio di sguardo e penna, un labirinto di cui si è invitati a trovare il centro e, in ultima analisi, una storia nuova ad ogni sguardo che vorrà avventurarvisi.
Duille

"I vecchi tempi erano meglio. I bei tempi passati dei duelli. Un calice da vino che andava in pezzi. Una macchia di vino su un foulard di pizzo. Una mano sull'impugnatura della spada. Domani? Sì, all'alba... Nel frattempo non facciamo nulla. Occupiamoci della coscia di pollo." (p.294)

Here I am!

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Eccomi! Sono una scrittrice in erba, divoratrice di libri, sognatrice professionista e ansiosa sociale multicorazzata. Ho la fissa dei ricordi, la testa fin troppo tra le nuvole, interessi disordinati, un amore impossibile per gli alberi e una passione al limite del ridicolo per le serie tv. Ah, e le presentazioni non sono proprio il mio forte. Si vede?

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