martedì 27 settembre 2016

Lungo il ponte

Da un lato la città, dall'altro il fiume. E quel ponte che si srotola davanti ai miei piedi, cavalcando l'aria, galleggiando sui flutti. Un drago d'acqua fatto di mattoni rossi dai molteplici occhi che suggeriscono prospettive nuove, ricordandomi che nulla è mai definitivo: è sempre e soltanto una questione di angolazioni.
E' solo un ponte, ma è anche molto di più: è una striscia di coraggio, la chiave di una porta invisibile nella mia mente, un saggio albero pietrificato che regala perle ai viandanti pronti ad ascoltarlo. Mi conosce bene e sa come parlarmi quando lo cerco. Mi tende una mano capace di salvarmi ogni volta dalla paura frantumante che mi scava fino alle ossa e che mi trascina fino a lì, in cerca di una magia, di un miracolo, o forse solo di un po' di pace. Il ponte è una promessa di speranza che profuma di acqua e umidità, di erba e terra bagnata, di foglie al vento e quiete. Da un lato il rumore, dall'altro il silenzio. Attraverso il ponte come in un pellegrinaggio spirituale, un battesimo di vento e gocce sospese che mi libera da peccati auto attribuiti e che mi spoglia degli abiti degli uomini, lasciandoli dietro di me, briciole inamidate di un passato che mi si incolla ancora alla schiena, ma che è comunque già ieri e, per questo, più rassicurante perché ad un passo dall'oblio. Inizio con lo sdoppiarmi davanti al ponte, lasciando la paura dal lato della città, un fantasma di brividi e fumo che mi fissa coi suoi occhi scavati e scavanti mentre procedo oltre. Nell'attraversare il ponte e nello spogliarmi della mia armatura protettiva, non mi volto indietro, ma non guardo neanche avanti, lascio che sia il vento a guidarmi con la sua mano gentile che mi preme sulla schiena, premuroso amore segreto che mi ha sempre accompagnata nel mio viaggio. Mentre cammino, sento l'elmo cadere con un tonfo morbido, la resta slacciarsi con un suono secco e lo spallaccio scivolare lungo il braccio portandosi dietro la coppiglia di fissaggio, la cubitiera e il cannone inferiore, simile ad una valanga di sonagli. Ogni clangore di ferro sulla pietra secolare riecheggia nell'aria come un canto di vita nuova, producendo ciascuno una nota diversa: il convesso rumore tondo del pettorale caduto a volo d'angelo sul selciato, il tintinnio campanellante della falda e della scarsella, il freddo scivolo metallico del cosciale che divora il ginocchiello e le schiniere, adagiandosi sui piedi, ancora con me per qualche passo, prima di abbandonarsi, ennesima briciola di un fardello troppo pesante.
Divento più leggera ad ogni passo, sento la pelle sudata dalla paura respirare, con lenti movimenti di apertura e chiusura dei pori, sento asciugarsi le lacrime sospese agli angoli delle ciglia, che non osavano cadere per non fare troppo rumore. Passo a passo, riscopro di essere una creatura sensibile, fatta di sensazioni, mi scopro recettiva fin nella punta delle dita che assaggiano l'aria, fin nei polmoni che si riempiono del freddo frizzante del fiume e fino al petto su cui preme il vento contrario. E' una strada di liberazione, un percorso di redenzione che mi scioglie la ruggine dalle ossa e che mi trasmuta da tronco a foglia dondolante. Ricordo le emozioni, tutte quante, non più soffocate dalla paura, e nel ricordarle, le rendo nuovamente reali, le sento sgranchirsi sotto le pieghe della fronte, solleticare nel corpo e premere contro la cassa toracica, per poi fluire come anguille fino alle mani aperte, agli occhi pieni, fino ad uscire dal sorriso, dalla porpora sulle guance, dal passo svelto che vorrebbe tramutarsi in corsa. Il passaggio sul ponte mi salva e mi riunisce, mi fa esplodere come una stella e mi ricompatta in un nugolo di lucciole notturne. Ad ogni passo mi espando come un mantice, abbracciando sempre più spazio, comprendendomi sempre di più, per poi riconvergere nei miei argini, fluttuando nell'acqua calda e buia di me stessa imitando il fiume su cui cammino. Da un lato la paura, dall'altro il riflesso della luce. Al di là del ponte la salvezza, il mare d'erba ondeggiante, gli alberi con le chiome arruffate dal vento, le risate delle papere, il gorgoglio dell'acqua che scivola sul fondale molle, il volo dei piccioni, le nuvole di cotone che pascolano nel cielo, la panchina di legno che scricchiola sotto il mio corpo, e lui, il fiume. Da un lato il tempo degli uomini, dall'altro il tempo della natura. Ampi respiri a cui mi accodo, inspirando con il fiume ed espirando con i tronchi, inalando con gli steli e soffiando con le lucertole in attesa. Direttore d'orchestra che mi restituisce il tempo, il fiume scandisce il ritmo e le mie cellule perdono l'affanno e il cuore non sbatacchia più come un passero impazzito nella cassa toracica. Rallenta il sangue nelle vene e ristagnano i pensieri nella testa, lasciando finalmente spazio al vuoto, al silenzio denso e caldo come un bacio, proprio nel momento in cui la parola si perde in fondo alla gola, gli occhi si riempiono di contemplazione e l'udito sente la fragrante foglia autunnale e il croccante schiocco dei legni. E alla fine anch'io divento silenzio nel silenzio, muschio sulla panchina, parte del fiume e per la prima volta ogni volta, me in me. Da un lato la città, dall'altro la vita.

Duille  


domenica 18 settembre 2016

Fisiologia dell'ansia sociale

Quando parlo di ansia sociale, tendo sempre a focalizzarmi sugli aspetti psicologici che la caratterizzano. Questo perché l'ansia sociale è fondamentalmente una convinzione, imperitura e massacrante , di non essere abbastanza e, di conseguenza, di essere geneticamente destinati a rovinosi fallimenti conditi da dosi di imbarazzanti scenette alla Mr. Bean.
In realtà però l'ansia sociale ha anche una controparte fisica che, da sola, determina l'80% del nostro rischio infartuario e del nostro sguardo da cucciolo di foca davanti al bracconiere. E allora parliamone, di questa fisiologia dell'ansia sociale, guardiamola con occhio scientifico, sfruttando la sottoscritta come cavia non volontaria, tanto per cambiare. Prima di tutto, bisogna sapere che quando il porcellino d'india Duille entra in crisi, l'intero ecosistema, il mondo, l'universo e tutti i tre livelli dell'aldilà descritti da Dante si concentrano interamente nello stomaco, che diventa il secondo ponte di comando, braccio destro del piccolo Darth Vader che domina incontrastato nel cervello. Dallo stomaco si irradia tutto, è il vero punto 0 della nuova galassia che si è creata nel corso dell'istantaneo Big Bang che ha travolto il nostro fragile equilibrio, il momento cioè della presa della Bastiglia, della caduta dell'Impero Romano d'Occidente, dell'assassinio di Cesare da parte di Bruto: il momento in cui il potente Dittatore Ansioso sbaraglia il nemico cerebrale costringendolo alla fuga e a costituire un'armata di ribelli in pieno stile Vietcong o, per mantenere la metafora con Star Wars, in rappresentanza dell'Alleanza ribelle. Come dicevo quindi, lo stomaco è il punto in cui tutti i tormenti si concentrano per poi irradiarsi a raggio in tutto il corpo e che assume le forme di un taser sottocutaneo che pungola i muscoli ad intervalli regolari e costanti. Il risultato è un attorcigliamento dei muscoli addominali in una treccia perfetta e, ahimè, pulsante, che è bersagliata da crampi continui che non ci lasciano in pace neanche un minuto. Ulteriore conseguenza del taser sottocutaneo è poi, nell'ordine: inappetenza, l'unico lato positivo dell'intera faccenda, problemi intestinali (che vi risparmio per amore della decenza) e elettricità endovenosa. Se le prime due conseguenze sono abbastanza intuibili, forse la terza merita un piccolo chiarimento. Dovete capire che quando la vostra cavia soffre di attacchi d'ansia, nel suo corpo il sangue evapora all'istante e viene immediatamente soppiantato da una scarica elettrica costante che invade tutti gli arti, rendendo l'intero corpo elettrico, appunto, come se fossi una ciabatta umana, un cavo elettrico ben avvolto nella sua guaina di gomma epidermica che mi fa apparire perfettamente normale dall'esterno, ma che mi frigge come una tempura di gamberi all'interno, continuativamente e dolorosamente. Sono quasi convinta che se mi mettessero una lampadina in bocca potrei emulare le grandi performance del famoso zio Fester. Naturalmente l'essere continuamente accesa come le lampadine di un albero di Natale mi impedisce di dormire, di rilassarmi, di riposare e, in generale, di darmi una cavolo di calmata.
Mentre nel cervello l'alleanza ribelle recupera a colpi di logica il terreno caduto nelle mani del Dittatore Ansioso, il resto del corpo cade infatti in uno stato di stanchezza vigile che crepa gli occhi come la creta dimenticata all'aperto e che fa calare la palpebra in pieno stile tapparella difettosa, dandomi quel bell'aspetto salubre da eroinomane in piena crisi d'astinenza che, si sa, è perfetto per rimorchiare. Se per qualche mistero, la natura prende il sopravvento e il corpo si arrende ad un sonno ristoratore, ci pensa il cuore a dare una siringata di adrenalina, lanciandosi in un'improvvisazione da batterista jazz alle quattro del mattino, e terrorizzando, tra gli altri, anche i polmoni, che si raggrinziscono improvvisamente, appallottolandosi su se stessi come dei vecchi calzini da mettere in lavatrice. Alla fine ci si ritrova con polmoni da gnomo in una cassa toracica in cui adesso si può sentire l'eco, un cuore da batterista che ha assunto troppi caffè, un'intera centrale elettrica nelle vene e la faccia di un drogato che avrebbe bisogno di un atto di misericordia. Per concludere questo delizioso quadretto, si aggiunge quella che io personalmente considero una delle piaghe maggiori della mia vita: il sudore. Non so gli altri, ma io quando sono in crisi sudo come un maiale, sudo come se fossi stata messa a ballare un lento guancia a guancia con una fiamma ossidrica, e soprattutto, sudo come se avessi indosso il vestito di bistecche di Lady Gaga. Ergo, puzzo. Quando si dice avere l'odore della paura addosso, s'intende proprio questo: puzzare come una discarica, come se ci si fosse strofinati addosso l'alito di un gatto adulto e fare di tutto, ma proprio di tutto, per evitarlo. Invano. E se le cose vanno proprio, ma proprio male, il corpo dà il colpo di grazia donandom la presenza di Brufolo Bill e della sua nidiata di figli e capelli bianchi che, purtroppo, non incrementano il mio fascino come invece fecero per Rogue nel primo film degli X-men. Morale della favola, quando l'ansia attanaglia per giorni gente come me, si passa dall'essere persone mediamente guardabili a mostri della laguna o comparse bubboniche dei promessi sposi costretti a ramingare nel tentativo di portare a termine in tempi brevi la nostra sfiancante lotta, così da poter finalmente dare nuovo significato al detto "riposare in pace". Alla fine rinasceremo dalle nostre ceneri come fenici anche se un po' ammaccati, con il morale a terra e con un evidente bisogno di restauro. Ma in fondo, saremo pur sempre ancora in piedi e questa da sola è già una grande soddisfazione.

Duille


sabato 10 settembre 2016

Capitolo XV: Un giorno questo dolore ti sarà utile

A leggere questo libro eravamo in due: io (ovviamente) e un'orma di memoria di un precedente lettore che ha deciso di sottolineare le frasi a lui più care. Ciò ha reso molto più interessante l'approccio a questo volumetto che ha tagliato per un pelo il traguardo delle duecento pagine, portando a tre i partecipanti di questo discorso virtuale. Da un lato infatti c'eravamo io e il mio lettore fantasma, dall'altro c'era James, il protagonista indiscusso di questo romanzo.
Un giorno questo dolore ti sarà utile, di Peter Cameron,  infatti è un libro concentrato: l'attenzione è focalizzata su un solo personaggio, il punto di vista è estremamente ristretto, la narrazione è totalmente in prima persona, il tempo è strizzato nel lasso di pochi mesi, iniziando dall'estate precedente la partenza del ragazzo per la grande avventura universitaria, un'avventura di cui James è decisamente poco entusiasta. James è infatti un personaggio atipico, con una filosofia di vita che rasenta l'insopportabile e che distorce tutto ciò che vediamo in quanto lettori. Come dicevo infatti James è il protagonista assoluto dell'intera narrazione, di cui seguiremo ogni passo, ogni pensiero, ogni giudizio, comprese le descrizioni dei personaggi secondari che ruotano intorno a lui, talvolta distorti dalla sua cinica visione e comunque mai abbastanza sotto i riflettori da poter essere messi a fuoco. Ma d'altronde questo è un libro che sembra voler dimostrare che l'abito non fa il monaco e che l'apparenza molte volte è solo una patina illusoria, come la crema gommosa che copre la superficie del latte caldo. James è proprio questo: una crema fatta di cinismo, saccenza, intellettuale superiorità e una fastidiosa tendenza alla risposta pronta che impregna ogni singola sillaba del suo pensiero e che trova suoi massimi esempi nel rifiuto dell'inutile università, nell'evitamento degli stupidi e vuoti coetanei che parlano senza avere niente di profondo da dire e nell'uso maniacale della corretta forma linguistica. Egocentrato come solo un adolescente può essere, James si sente incompreso, inadatto a quel mondo vuoto fatto di interventi estetici mirati e di pigiama palazzo, e sogna la solitudine di una casa in cui leggere Trollope ed intagliare il legno. Ma, come dicevo, l'apparenza inganna ed il libro ci fa presto capire che questa torre d'avorio da cui James osserva tutti è in realtà l'unica arma di difesa che lo protegge dal contatto con gli altri, rivelatore massimo della sua lampante fragilità. Infatti James, dietro quell'atteggiamento superiore e cinico cela una profonda sensibilità che lo taglia continuamente, rendendolo delicato come lo scheletro di una foglia e straziantemente ripiegato nel suo dolore. Usa quindi il suo sarcasmo e la sua altezzosità da poeta maledetto per mettere distanza dalle persone, dalle sue responsabilità, dalle verità che gli punzecchiano la nuca. 
Controlla tutto, il suo linguaggio, i suoi interessi, la sua personalità, per non creare una crepa nel muro delle sue difese, per non farsi scavare dalla sua sensibilità che lo porta a turbarsi profondamente alla vista di un orsacchiotto abbandonato sul ciglio di una strada o davanti all'alienazione di una casalinga in visita nella Grande Mela per lo shopping. James però rifiuta di guardarsi dentro e scappa da se stesso, finendo con lo scegliere quella stessa solitudine che lo divora, rendendosi incapace di qualsiasi apertura emotiva e costringendosi ad ergere sempre nuovi strati di supponenza per mettere distanza tra sé e gli altri in quanto rappresentanti della sua fragilità. James, insomma, vaga nel mondo in cerca della risposta ad una domanda che non riesce a porsi. Lo stile del racconto riflette questo vuoto denso intorno a cui ruota James, lanciandosi in discorsi di rabbiosa ironia alternati a momenti di profondo dolore, saltando tra il passato e il presente, ripercorrendo i momenti in cui tutto ha iniziato a crollare davvero. Alla fine della lettura resta però l'incognita, l'irrisolta domanda di una vicenda psichica appena sfiorata: un giorno questo dolore gli sarà utile? Temo sia proprio questo il punto debole della narrazione: una certa leggerezza nella gestione delle tematiche, appena avvicinate e poi abbandonate senza addentrarcisi sufficientemente, lasciando il lettore pieno di dubbi sulla natura delle sofferenze di James e sul suo futuro, al punto da chiederci se in effetti riuscirà a stare bene, a rendere il dolore attuale fonte di crescita personale. Il romanzo secondo me fallisce proprio a causa del suo titolo, dato che di fatto ci mostra l'inizio di un percorso incerto e tutt'altro che scontato, piuttosto che un momento di crescita e di risoluzione positiva del dramma. Alla fine quindi questo è un romanzo che consiglio di leggere ignorando il suo affascinante quanto, ahimè, fuorviante titolo, poiché non assisteremo ad alcuna maturazione, quanto ad una discesa nel dolore del protagonista e nel potenziale di una crescita che, se avverrà, si svilupperà oltre quella pagina 206 che conclude il romanzo.  

Duille
"Al nostro tavolo c'è posto. Vuoi venire da noi?
Allora ho capito che la sua era davvero gentilezza sincera, anche se non sapeva quello che diceva, diceva vieni a sederti al nostro tavolo come sio potessi farlo, come se potessi alzarmi e divatere una persona seduta insieme a lei. Così, semplicemente, spostandomi da un tavolo all'altro". (P.109)


domenica 4 settembre 2016

Tra sogno e realtà

Si era persa nella bocca con denti di cemento che tutti chiamavano città. Cercava qualcosa di familiare che la sottraesse all'alienante solitudine grigia in cui vagava. Una mano calda che la sollevasse da terra come una foglia caduta, portandola con sé in punta di dita.
Camminava smarrita, superando aloni di persone che le passavano accanto come il vapore emesso da una tazza di tè. Guardò in basso, incontrando i suoi piedi, confetti rossi in un fiume di asfalto paralizzato da un incantesimo ormai dimenticato anche dalle leggende. Volava sull'acqua di pietra, un petalo di papavero dietro l'altro. E poi si arrestarono, increduli davanti ad un foglio di carta. Non era un foglio, constatarono i suoi occhi, ma una pagina. La pagina di un libro, con un testo scritto a macchina da impronte sconosciute, i bordi ordinati e simmetrici che incorniciavano le parole come in un bel quadro. Sembrava un bel contrasto, quel fiume grigio su cui galleggiava immobile una pagina bianca fissata alla vita da due papaveri di tela e gomma. Guardando più avanti, eccone un'altra che sembrava prendere il sole sul bordo del marciapiede. E strizzando gli occhi, se ne poteva scorgere un'altra ancora, quasi un piccione di carta passato lì per caso. Un sentiero di sassolini di carta, qualcosa di reale in quel bosco di cemento che fingeva vita quando poteva offrire solo esistenza vuota. Seguirlo divenne necessario, i papaveri lo seppero prima ancora dei fili di capelli che le coronavano il volto. Si appese a quei ciottoli stampati come ad un'ultima speranza e seguì quel percorso di fuochi fatui, raccogliendoli durante il viaggio per chissà dove. E quel chissà dove si rivelò essere un caffè in un angolo nascosto nella guancia della grande bocca di cemento, invisibile alle ombre di ticchettii e fretta che popolavano quei luoghi. Con un bouquet d'inchiostro tra le mani ed i papaveri ai piedi, entrò nel caffè straripante di libri dai mille colori, come uno stormo attirato dall'allettante invito al riposo. Persone e volumi si mischiavano, liberi di vagare, su ogni superficie, annullando le distanze e le convenzioni, come un solo cuore in migliaia di corpi.
Vicino alla grande vetrina centrale incorniciata da tende purpuree come gote innamorate, una folla di libri si godeva la vista dei passanti di vapore, confrontandola con le creature molto più definite che affollavano le sedie da giardino e i tavolini eleganti, sorseggiando tè, piluccando dolci, chiacchierando tra loro o con qualche volumetto addomesticato. Talvolta addirittura improvvisando un giro di valzer con qualcuno di loro, indipendenti e senza padrone. Sulle pareti, libri più timidi spiavano i commensali da alti scranni, circondati dal brusio delle parole d'aria, molto più leggere delle loro parole d'inchiostro, che vanesie si riflettevano nel grande specchio antico appeso lì accanto. I volumi più coraggiosi si accalcavano entusiasti su una scaletta, formando un disordinato corrimano dai colori vivaci, chaperon di una sala raccolta e illuminata dalla luce di una grande finestra a due ante. Sopra il bancone della caffetteria, una mensola ricolma di volumi antichi abbracciava bonaria l'intero locale, impregnando le sue pagine dell'inebriante aroma del caffè. Avevano visto molto nella loro vita ed ora le loro sagge veline si concedevano riposo e contemplazione. Le pagine nelle mani della ragazza si liberarono dalla stretta delle sue dita e volarono fino ad una parete, proprio sopra la porta nascosta della cucina, adagiandovisi come passeri su un filo telefonico. Il cameriere le sorrise con calore, passandole accanto con un vassoio carico di tazzine e libri pigri, un volumetto verde seduto sulla sua spalla con il segnalibro di seta penzoloni sul petto. La ragazza sedette in un angolo, proprio accanto ad una pigna di giovani libri impertinentemente protesa verso di lei, incuriositi come solo le nuove edizioni possono essere. Qualcosa si sciolse dentro di lei, lasciandola con un tepore che si accordava sinfonicamente ai papaveri ai suoi piedi, alle tende porpora, ai sorrisi delle persone. Finalmente a casa, finalmente libera di riposare. 
Fu il suono di un tomo caduto a svegliarla. Si era addormentata sul tavolo, la guancia incollata alla pagina del libro che stava studiando. Era stato un sogno durato forse una frazione di secondo. Alzò gli occhi e scorse il suo riflesso che la guardava assonnato dal grande specchio antico, poco sopra la fila di libri riposti ordinatamente sulla mensola sotto la vetrina centrale incorniciata dalle tende porpora del caffè. Sorrise e, abbassando lo sguardo, riprese a studiare, avvolta dal brusìo dei clienti e dall'odore dei libri impregnati di caffè.

Duille

P.s. a volte la realtà supera l'immaginazione. Se siete di Milano o ci capitate, cercate lo Scriptorium Cafè in via Sant'agnese. La mia storia di oggi parte proprio da lì.


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Eccomi! Sono una scrittrice in erba, divoratrice di libri, sognatrice professionista e ansiosa sociale multicorazzata. Ho la fissa dei ricordi, la testa fin troppo tra le nuvole, interessi disordinati, un amore impossibile per gli alberi e una passione al limite del ridicolo per le serie tv. Ah, e le presentazioni non sono proprio il mio forte. Si vede?

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