domenica 23 aprile 2017

Scrivere

Ho sempre scritto, fin da piccola, fin dal primo momento magico in cui ho scoperto di poter tenere la mia fantasia in punta di penna. Scrivevo per raccontare i miei sogni, per vivere avventure, per giocare con l'inchiostro così come giocavo con le conchiglie, inventando per loro improbabili avventure. Come le conchiglie, le parole non erano solo sequenze di difficili segni con complicate regole di composizione, ma erano infinite possibilità di combinazioni che, prendendo vita, creavano vita. Mi resi presto conto che le parole per me erano facili come una risata ed intrattenibili come l'acqua che zampilla dal foro di una bottiglia.
Crescendo, la scrittura è diventata la mia seconda pelle, un luogo in cui essere vulnerabile ed autentica, in cui esistere quando mi sentivo invisibile, il mio rifugio di bimba sperduta. Scrivere mi ha dato sostanza, mi ha dato respiro e mi ha fornito un linguaggio con cui raccontare i miei silenzi inspiegabili. Mi ha dato spazio per stiracchiarmi come un gatto pigro, anche in quel lungo periodo in cui ho creduto di vivere in un ditale di ottone. La scrittura mi ha permesso di sfuggire a me stessa, di ripararmi dalle mie frecce, quando sono diventata preda e cacciatrice. Dove la voce si frantumava in piccole schegge di suono, la parola scritta cresceva sempre più sicura, come un albero di quercia in primavera. Dove il mio corpo fisico diventava soffocante granito, il mio corpo di china diventava liquido come acqua e leggero come il vento. Dove nel mondo diventavo più fragile, così sulla carta diventavo più forte, ricucivo le ferite con collane di sillabe, e trovavo me stessa, ancora integra, sotto i cumuli di macerie. Credo che scrivere mi abbia salvato la vita, ma in un senso più profondo di quello biologico dato dal semplice accumulo delle ore sulla pelle. Scrivere mi ha salvata perché mi ha dato corpo quando mi sentivo vapore, mi ha dato valore quando pensavo di essere carta straccia, mi ha mostrato piena quando credevo di essere vuota, mi ha dato un punto fermo nel naufragio che neanche io sono riuscita a distruggere. Ma soprattutto, mi ha dato una voce con cui gridare quando ero ormai ammutolita, con cui commuovermi senza vergogna, con cui ridere, con cui correre a perdifiato senza perdere mai il fiato. Scrivere mi ha permesso di nuotare nel latte di stelle, di piangere lacrime sospese e di intingervi il pennello per creare da esse un acquerello opalino. Scrivere inoltre mi ha dato ordine e senso in momenti in cui ero caos.  Mi ha spiegata con parole semplici e dispiegata come un ventaglio di foglia, fino a scoprirne la trama elaborata che credevo di non avere. 
Ha smontato ogni mia certezza e mi ha insegnato a volermi un po' più bene. Scrivere mi ha insegnato a non avere paura del dolore, ma ad accoglierlo, viverlo fino a consumarci, ascoltarlo in ogni sua spina, fino a sentire la rosa all'apice di quel gambo che non osavo scalare, perché avevo troppa paura. E poi, una volta sentito, a scriverlo, nero su bianco, rendendolo eterno, struggente e bello, anche se solo per me. Scrivere mi ha insegnato che non esiste il sentire troppo e che le emozioni, per quanto intense, non uccideranno e non taglieranno fino all'osso. Che il sangue prima o poi si secca e le lacrime non scavano solchi. Scrivendo, ho scoperto di potermi tenere sul palmo di una mano, in punta di dita e sull'orlo di un respiro trattenuto, di potermi sbirciare tra le fessure delle mani chiuse e di potermi contenere tutta in una frase. La scrittura mi ha fatto scoprire l'infinito nel millimetro cubo di un pennino e mi ha rivelata infinita ed infinitamente felice nell'atto di scrivere. Mi ha reso padrona di me stessa, mi ha resa fragile ma non debole, mi ha resa fiume ed albero e foglia dondolante. Mi ha regalato il dono della contemplazione, della meditazione, dell'esistenza in una solitudine color blu oltremare. Ha trasformato distruzione in creazione, lava in luce, singhiozzi e risate in musica. Mi ha dato vita più volte e mi ha permesso di usare le sillabe come note di un pentagramma, di stratificare i significati, di stuzzicare più sensi, di rendere immortale e universale un momento piccolo come una noce. Nello scrivere, oggi, mi concedo a me stessa, apro tutte le porte e spalanco tutte le finestre, mi lascio inondare dal vento della tormenta, mi lascio amplificare, esplodere in migliaia di piume, mi accoccolo all'angolo di un sorriso, mi inspiro e mi espiro senza rispetto per le convenzioni di acciaio che mi sono imposta da sola, mi prendo in giro rispettandomi fino in fondo. Oggi scrivo per me, per chi legge o leggerà, scrivo per chi non vedrà mai il mio maldestro affresco di parole, scrivo perché vivo e vivo perché scrivo.
Duille


martedì 11 aprile 2017

Telefilm addicted #13 - This is Us o l'arte della coccola

Avete presente quei giorni in cui vi alzate tardi perché la sveglia non ha suonato, vi vestite alla velocità della luce, scoprite, con un sottofondo musicale drammatico, di aver finito il caffè e che non avete spiccioli per comprarlo al bar, e scappate fuori casa ritrovandovi senza ombrello, in ritardo e con un acquazzone che sembra giunto direttamente dalla foresta amazzonica? Avete in mente quei giorni in cui arrivate al lavoro o a scuola solo per scoprire che vi è scoppiato il pranzo nella borsa sopra tutti i documenti? Vi ricordate quei momenti in cui i pianeti sembrano allinearsi e Paolo Fox vi annuncia nell'oroscopo della giornata che saranno le 24 ore più sfigate della vostra vita?
Avete presente quei giorni in cui tutti i modi di dire più celebri sugli imprevisti della vita (mettere i bastoni tra le ruote, essere passati sotto un camion, essere l'elefante nella cristalleria) decidono di fare una riunione di famiglia proprio sopra la vostra testa, con la coprinuvola piovosa a fare da chaperon? Se avete avuto una di queste giornate, tutto quello che vi serve per riequilibrare i chakra è This is Us. Si tratta di una serie semplice come una fetta di pane e consolatoria come una torre di pancakes con fiumi di sciroppo d'acero. This is Us è la serie-coccola per eccellenza, quella che vi abbraccia come una copertina di flanella, che vi sussurra nell'orecchio "Non ti preoccupare, andrà tutto bene", che vi consola e vi restituisce un po' di fiducia sulle sorti di questo sporco mondo che sembra popolato solo da piccoli volpini incazzati e da multietniche Regina George. This is Us è l'affinamento dell'arte della civetta coccolosa, una serie tenera come un marshmallow ma che, stranamente, non vi farà vomitare arcobaleni. La serie racconta la vita della famiglia Pearson, composta dai genitori, Rebecca e Jack, e dai tre figli, Kate, Kevin e Randall, e che si sviluppa su due archi temporali, quello della giovinezza dei coniugi (ed infanzia dei ragazzi) ed il presente delle vite adulte dei tre figli. Punto. Non c'è nient'altro da aggiungere. I Pearson infatti non sono una famiglia multimilionaria che vive ad Orange County o che frequenta i country club, non hanno superpoteri e non hanno il brutto vizio di esternare in modo plateale i loro drammi esistenziali in una fedele imitazione della rabbia di Paperino. I Pearson non si pugnalano alle spalle creando complicate trame di tradimenti e riappacificazioni, non si scambiano i fidanzati come fossero figurine e non hanno lavori di vitale importanza o di grande interesse. Infine, This is Us non è una sitcom né un teen drama.
Ma quindi, togliendo tutto questo, che cos'è This is Us? Una gran noia, apparentemente. E invece no. E' una serie che parla di famiglia, di amore e di crescita e lo fa in modo semplice, poco pretenzioso, senza trame cervellotiche, ma sfruttando la parte virtuosa del nostro muscoletto sottotoracico. This is Us mette fine alla fame di scandalo, al gusto per il sordido a cui ci hanno abituato molte serie e riporta la quotidianità al centro della narrazione. This is Us è infatti una serie che vuole emozionare con una storia familiare fatta di rispetto reciproco, di grandi amori, di strade percorse insieme, di sacrifici, di errori commessi e di ammende, dei dubbi, dei riscatti personali e delle difficoltà tipiche della vita, ma senza che queste vengano ingigantite, distorte o stereotipate. La serie sembra voler premere sul tasto dell'ottimismo, presentandoci personaggi indiscutibilmente buoni, senza però essere perfetti. Tutti i protagonisti vivono dei drammi personali, spesso conseguenza di esperienze del passato, che affrontano in modo intenso ma discreto: Kate e la sua obesità, Randall e il rapporto con il padre biologico, Kevin e la sua carriera insoddisfacente, Rebecca ed i suoi sogni di cantante, Jack e il suo scomodo rapporto con il padre. Lo sviluppo di queste crisi portano i personaggi ad affrontarle, sopravvivervi, imparare da essa e, soprattutto, rinunciare alla solitudine.
Oh yes, miei cari steli: Milo Ventimiglia è Jack. Gioite, fan
di Gilmore Girls
I Pearson infatti si aiutano a vicenda, si sostengono, si raccolgono quando cadono, si donano con tutto loro stessi, nel loro squisito modo imperfetto. Come dicevo, è una serie sull'amore: l'amore romantico, qui esploso in una miriade di coriandoli a forma di cuore (con buona pace degli allergici al rosa), ma anche l'amore fraterno, che non è un amore facile, è un amore fatto di compromessi, di accettazione e di tanto, tanto perdono. E' l'amore verso se stessi, faticosamente costruito, anche con l'aiuto degli altri, è il volersi bene nella propria imperfezione e scoprirsi amati proprio per i nostri difetti. Si tratta quindi di una serie buona senza buonismi, dolce senza essere stucchevole, morbida come un maglione di cachemire senza essere troppo finta. Dico "troppo" perché sfortunatamente, a tratti la finzione emerge, soprattutto quando compaiono i personaggi maschili, che sono spesso fin troppo perfetti per essere davvero reali, anche con i loro difetti. Jack è sicuramente l'apoteosi di questa idealizzazione del maschile, diventando un vero e proprio principe azzurro paziente, tollerante, innamoratissimo, senza macchie, ostinatamente determinato a diventare l'opposto del padre. Ma in fondo, e qui parlo da portatrice di doppio cromosoma X, a noi ci piace proprio così. Da' un tocco utopistico che regala calore. Stona, certo, ma stona come la Nutella nella dieta. Alla fine, l'obiettivo della serie, come ha detto il suo ideatore, non è quella di essere rivoluzionaria o imperdibile, ma di far star bene le persone che la guardano, riempirle di amore e di fiducia nei confronti del futuro attraverso l'identificazione con personaggi normali che vivono vite normali ma che, come dice il dottor K. nella prima puntata, sono capaci di prendere il limone più acido che la vita ha da offrire e trasformarlo in qualcosa che assomiglia ad una limonata.
Duille


domenica 2 aprile 2017

Personali epifanie sull'ansia sociale

Finora, quando pensavo all'ansia sociale, la prima parola che mi veniva in mente era guerra: non una guerra qualsiasi però, non il conflitto di Waterloo, non una battaglia di cuscini, una singolar tenzone in difesa dell'onore, una lotta a pesci in faccia o una battaglia di insulti alla Monkey Island. Quello a cui pensavo era più una guerra d'invasione, in stile Vietcong VS Nordamericani, Resistenza VS fascismo, Compagnia dell'anello VS Sauron, procione che tenta di entrare in casa VS umano con il fucile a piombini di gomma.
Una guerra strisciante quindi, fatta di assalti lampo e sguardi truci, in cui partivo svantaggiata sotto ogni fronte (tecnologie d'avanguardia contro zappe, lauree in strategie militari contro diplomi all'accademia del Risiko, la certezza del bullo contro l'insicurezza del nerd con gli occhiali scocciati). Col tempo però, e con tanta terapia, ho imparato che, più che una guerra in stile moschetto e tuta mimetica, la mia era una situazione da crisi coniugale decennale, di quelle in cui ci si prende a parole rinfacciandosi anche il cartone del latte non comprato nel 2001, in cui si lanciano piatti e si rischia l'esplosione della vena giugulare in uno zampillio da fontana ad agosto. Questa consapevolezza, ovviamente, cambiava tutte le carte in tavola: non si parlava più dell'invasione esterna di un estraneo indesiderato, simile alla gravidanza di un Alien, ma di una parte di me che non potevo semplicemente accoppare con la padella di ferro battuto ereditata dalla zia Cesira, ma che dovevo prima di tutto ascoltare e comprendere, per poi poterla lasciare andare come Edward Bloom nella sequenza finale di Big Fish. La mia idea, forse un po' ingenua, era che, comprendendo la mia controparte agitata, avrei capito anche me stessa, facilitando il processo di evaporazione dell'ansia come accade alla medusa sul bagnasciuga descritta da Thomas Mann in Tonio Kroger. Magari non sarebbe scomparsa del tutto, ma contavo su un rapporto di cordiale amicizia, forse anche su due risate davanti ad un caffè. Non avevo considerato però che, come nelle migliori crisi coniugali da romanzo, la suddetta controparte avrebbe fatto di tutto per ostacolare le pratiche del divorzio e si sarebbe impegnata al massimo per non scoprire le sue carte. Vedete, sono recentemente giunta alla conclusione che l'ansia sociale sia in realtà una giocatrice di poker maledettamente brava: sa captare le microespressioni del suo avversario per intuire il valore delle sue carte, sa adottare una poker face da testa dell'isola di Pasqua e, soprattutto, bluffa. Schifosamente, senza rimorsi, anche se dall'altro lato del tavolo hanno ormai impegnato pure il dente d'oro le mutande portafortuna.
E come bluffa l'ansia sociale? Confondendo le acque come un luccio fa con il fondale, camuffandosi come un truffatore professionista o un cacciatore di dote, facendoti credere di star assistendo ad un'eclissi di Luna quando in realtà stanno solo spegnendo le luci, convincendoti di aver capito tutto, quando in realtà, di nuovo, non hai capito proprio niente.
Nella pratica, ed attingo a manciate dalle mie esperienze personali, potrebbe farti credere che il motivo per cui non vuoi uscire quella sera non sia perché hai la paura che provò Maria Antonietta davanti alla ghigliottina, ma perché sei stanca, senza soldi, perché stai trascurando il gatto e il cactus di casa e poi, beh, c'è quel puzzle  che aspetta di essere finito da troppo tempo. Scherzi a parte, le motivazioni che l'ansia ci propone sono dannatamente plausibili, soprattutto quando, esaurite tutte le cartucce, sfrutta l'asso nella manica del "non ho voglia". Cosa si può dire di fronte ad un alibi d'acciaio come questo? Personalmente ho passato anni credendo di aver capito di essere pigra, solo per scoprire ancora una volta che l'ansia mi stava gettando fumo negli occhi come una fata tabagista con gravi problemi polmonari. Ogni volta che credo di aver scoperto qualcosa di lei, quando penso di averla smascherata sotto la sua pietra, con tanto di "aha!" di esultanza, mi ritrovo nella posizione del mio cane, che continuava a cercare la lucertola alla base dell'albero mentre quella, tronfia, la guardava una spanna sopra la sua testa, dalla corteccia. Il motivo di questo valzer è semplice quanto uno starnuto: se venisse scoperta, spolpata fino all'osso come un nocciolo di ciliegia, l'ansia smetterebbe di esistere. Quindi tutto si riduce ad una questione di sopravvivenza, che per antonomasia è una delle motivazioni più ardue da estirpare. Una sopravvivenza che è sua e nostra, dato che siamo noi ad averla creata. Siamo noi la fata turchina tabagista che ha dato inizio alla vicenda. Ma questa, come direbbe papà castoro, è un'altra storia. Ciò che conta sapere adesso è che l'ansia è un genio diabolico, è quello che Moriarty è per Sherlock Holmes, è infida come Vermilinguo e fetente come una scheggia sotto l'unghia del piede. Capirla sarà difficile, coglierla in fallo arduo e trovarla sarà un'impresa, perché andrà scovata sotto un mare di palline dell'IKEA mentre lei ti grida "Bazinga!" Alla fine, il consiglio che ci do è quello di non abbassare mai la guardia, non dare niente per scontato e soprattutto adottare l'atteggiamento socratico del "so di non sapere ma ho un cervello e non ho paura di usarlo" (lo so, ho un po' parafrasato). L'ansia sociale va capita, certo, e questo è il mandato della nostra missione, ma il Serraglio non è nostro amico. E' la nostra nemesi, la nostra parte oscura, il nostro protettore a cui sono venute manie di grandezza. Il dubbio, quindi, sarà il nostro credo per un sacco di tempo, il punto di domanda il simbolo sulla nostra tuta da supereroe. Sarà estenuante, lo so, e non sarà facile dover farsi domande anche sulle motivazioni della scelta di una maglietta, ma abbiamo anni di addestramento fatti di pippe mentali, rimuginii e guerreggiamenti interni che ci hanno conferito muscoli cerebrali da culturista e la vista di un falco pellegrino, quindi tanto vale usarli. In fondo, per citare un'altra massima, non importa ciò che si ha, ma cosa si fa con ciò che si ha.
Duille


Here I am!

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Eccomi! Sono una scrittrice in erba, divoratrice di libri, sognatrice professionista e ansiosa sociale multicorazzata. Ho la fissa dei ricordi, la testa fin troppo tra le nuvole, interessi disordinati, un amore impossibile per gli alberi e una passione al limite del ridicolo per le serie tv. Ah, e le presentazioni non sono proprio il mio forte. Si vede?

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