sabato 19 settembre 2015

Tentacoli di casa: routine

Molti di noi, quando erano piccoli, avevano un amico speciale, un giocattolo magico capace di regalarci il coraggio necessario a fare qualsiasi cosa, purché fosse con noi. Un pupazzetto di pezza, un camioncino, una copertina di stoffa alla Linus in cui rifugiarsi per combattere la paura. Era come se conservassimo dentro questi oggetti tutto il bene del mondo e ci sentivamo sicuri ad averli accanto a noi. 
Molti di noi conservano ancora quei magici Daimon da qualche parte. Molti di noi ne creano addirittura di nuovi: un libro che ha segnato un momento della nostra vita, un portachiavi morbido regalatoci alle medie, un quadernetto/scrigno in cui nascondere i nostri pensieri, l'Ipod con tutte le colonne sonore delle nostre emozioni, una sciarpa, un vecchio maglione sformato da indossare nei momenti di bisogno, una collana comprata per caso in un viaggio lontano. Sono tutti fratelli di quel pupazzetto che ormai siamo troppo grandi per portarci dietro nel nostro girovagare nel mondo. Potremmo dire che sono una versione in positivo degli Horcrux di Harry Potter. Solo che noi non abbiamo assassinato la nonna per crearli. In mezzo a tutte queste persone che si muovono in compagnia del loro protettore magico in miniatura, ci siamo noi, l'esercito degli ansiosi sociali, che di un portachiavi morbido, di una collana o di un quaderno non se ne fanno niente. O meglio, non bastano. L'ansioso sociale medio, come avrete capito, vive terrorizzato anche dai cestini della spazzatura. E' un fascio di nervi ambulante con gli occhi perennemente strabuzzanti come un gatto davanti ad una vasca da bagno piena. Praticamente, siamo dei lemuri in borghese. Tutto è minaccioso, pericoloso, da evitare. Ogni passo va calcolato meticolosamente, perché camminiamo sempre su un filo sospeso e senza neanche la cordicella di sicurezza sulla schiena, e questo non perché vogliamo fare gli impavidi. Semplicemente, nel circo dove lavoriamo noi vige la regola del massimo risparmio. Quindi, lemuri in borghese che camminano su fili sospesi, o ancora meglio, scalatori senza una gamba e con problemi di asma a cui dei bulli hanno rubato l'unico inalatore lasciandolo sulla cima del Kilimangiaro. Capite bene da questa metafora che noi non abbiamo nessun interesse a scalare quella montagna, né ci interessa fare cose che la nostra natura da primati ha snobbato per una vita, ma siamo costretti a farlo. E, come conseguenza, sentiamo il bisogno di corazzarci a dovere per evitare attacchi a sorpresa di aquile reali, stambecchi a cui abbiamo violato il territorio e marmotte a cui abbiamo pestato involontariamente la coda mentre confezionavano la cioccolata. 
Ma siccome indossare un armatura medioevale ci renderebbe un pelino appariscenti e andare in giro ricoperti di cuscini sarebbe piuttosto scomodo, ci tocca trovare alternative più "socialmente accettabili" per affrontare la nostra scalata quotidiana senza essere fatti a striscioline buone solo per un riso alla cantonese dal vento glaciale delle alte quote. E' così che ci ritroviamo a costruire infinite routine da rispettare alla lettera, che si stratificano negli anni aumentando le nostre difese immunitarie contro l'allergia alle persone, amuleti personali contro gli attacchi del pipistrello. Invece di avere quintali di ciondoli simboleggianti le religioni del mondo, noi abbiamo i talismani del coraggio, totem collezionabili come i fantasmini degli ovetti kinder, versioni delle zampe di coniglio in salsa ansia sociale rappresentate da rigide abitudini da non infrangere. Il che, attenzione, non ci rende dei soggetti affetti da disturbo ossessivo-compulsivo. Noi non crediamo che uscire dal percorso prestabilito produca conseguenze terribili, o che un vaso di fiori caduto da un balcone ci manderà al Creatore se non seguiamo la traiettoria scavata dai nostri piedi in anni di routine. Semplicemente, quelle routine sono la nostra corazza contro il mondo, spazi in cui, lentamente, proiettiamo un pochino di casa, come dei bracci di piovra invisibili che si allungano nelle strade che percorriamo ogni giorno o piccole nuvolette di nebbia che si condensano in punti precisi dello spazio, con un grande cartellone sorridente che annuncia "Casa (quasi)". Sono proprio questo: estensioni di casa, protuberanze di camere, parti di arredamento galleggianti, mensole di cucina che svolazzano allegramente, scrivanie che galoppano al nostro fianco in pieno stile Spirit Cavallo Selvaggio. Pezzetti di casa volate insomma, un po' Alice nel Paese delle Meraviglie, un po' Castello errante di Howl dopo un'esplosione. In quei tentacoli invisibili sono irretiti, come su un nastro trasportarore da aeroporto, le nostre lampade, i piatti della cucina e sì, anche i nostri sanitari (perché, diciamocelo, non esiste cosa più intima al mondo della propria tazza del gabinetto). Le routine fanno le veci della "casa base" usata dai bambini quando giocano a rincorrersi. In quello spazio, non ci possono prendere, siamo parzialmente al sicuro. Quella è casa-base. Non proprio casa, ma comunque abbastanza familiari da permetterci di riprendere fiato e abbassare un pochino la guardia. Siamo un po' come dei treni che seguono dei binari immaginari tracciati in un campo pieno di mine. 


Ma facciamo un esempio, il mio, per la precisione: Io avevo un percorso molto preciso che mi permetteva di eseguire le attività quotidiane senza che mi cadessero i capelli ad ogni rumore forte: seguivo i binari invisibili dalla casa al pullman, passavo davanti allo stesso parco giochi tutti i giorni, prendevo sempre la stessa scorciatoia, attraversavo la strada sempre nello stesso punto e aspettavo alla fermata sempre ad una certa distanza dalla pensilina (non chiedetemi perché, sarebbe troppo lunga da spiegare). Entravo nell'autobus con il biglietto già in mano, obliteravo e mi sedevo nella quarta fila di sinistra, dal lato del finestrino, controllando sempre prima quanta gente ci fosse, per calcolare le probabilità che qualcuno si potesse sedere vicino a me. Quindi attaccavo il mio sgangherato mp3 e mi alienavo per i quaranta minuti che mi dividevano dall'arrivo. Giuro, per quaranta minuti io non guardavo nient'altro che il paesaggio fuori, ignorando completamente tutto quello che accadeva nell'autobus. Guardavo sfilare i paesi, facevo l'aggiornamento dei cambiamenti dettati da stagioni e intervento umano, salutavo le nutrie che mangiucchiavano nei campi. Avrei potuto ripetere il percorso del pullman ad occhi chiusi, con tanto di dettagli delle case o di coltura del periodo, ma non avrei saputo nemmeno indicare il genere della persona dietro di me. Pregate di non incontrare qualcuno come me se siete oggetto di un crimine. Non saprei identificare neanche un individuo vestito da clown tra dieci esattori delle tasse. Arrivata alla fermata, scendevo e mi settavo sui nuovi binari che mi avrebbero portato all'università: passavo davanti ad una pizzeria, un bar, quindi una via pedonale trafficata di studenti. Mi piaceva cercare le regolarità nella regolarità: il pendolare che comprava sempre la stessa mela dal fruttivendolo situato alla sinistra della strada, la ragazza nel cappotto giallo che risaliva la corrente come un salmone luccicante, portando a spasso il cane. Fantasticavo, mentre i binari mi portavano alla lezione del mattino. Avevo un posto preferito per ogni aula, sempre a metà stanza, in una posizione laterale, circa due o tre sedili oltre quello che dava al corridoio. Mangiavo sempre negli stessi posti, nelle stesse panchine o negli stessi scalini e andavo sempre negli stessi locali se ero in compagnia. 
Al ritorno, non mi fermavo a guardare le vetrine, non entravo nei negozi, perché non erano luoghi approvati dalla piovra e poi riprendevo l'autobus (sempre a certi orari) e mi sedevo nello stesso posto, quarta fila, lato finestrino e tornavo a casa, seguendo al contrario la stessa identica strada. Lo so, adesso vi sembrerà che forse dovrei rivedere la mia idea di non essere una ossessiva compulsiva, ma vi assicuro che non sto negando l'evidenza, anche perché, dopo quello che ho raccontato, ho mandato alle ortiche anche quell'ultima briciola di dignità che conservavo per i tempi difficili, quindi che senso avrebbe negare? Io avevo (e spesso ho ancora) bisogno di questi percorsi perché la paura era tanta, troppa. Noi ansiosi sociali viviamo costruendo continuamente corazze, all'infinito. E' la corazza che tiene a bada il pipistrello, facendolo volare più lontano. Finché siamo nel flusso invisibile del tentacolo, siamo un po' più al sicuro e riusciamo addirittura a concederci il lusso di una tintarella, noi, eterni lenzuoli sbiancati dalla paura, scambiati anche dai vampiri per gli avanzi di qualche spuntino altrui. Inutile tentare di mettere un piedino fuori dal percorso del tentacolo, perché il pipistrello non aspetta altro che svolazzarci vicino per mostrarci la valle di desolazione che è il nostro mondo. Mordor al confronto è un campo di fragoline di bosco popolato di orchetti con treccine bionde che saltellano felici con i loro cestini di vimini. Uno spettacolo forse di dubbio gusto estetico, ma di certo non pericoloso. Noi siamo come dei castori che costruiscono dighe. Costruiamo, costruiamo, per arginare il fiume che immancabilmente ci inonderà e, ricordo, noi non sappiamo nuotare e veniamo da un contesto psichico in cui il risparmio la fa da padrone! Siamo solo noi e il fiume. Quindi costruiamo in continuazione argini per continuare a muoverci, per fare quello che ci viene chiesto con insistenza di fare: essere normali. Creiamo protocolli neanche stessimo maneggiando particelle atomiche al Cern, ci mimetizziamo come insetti stecco tra il fogliame, ci improvvisiamo lampioni sperando che nessun cane ci faccia la pipì addosso. Le routine sono il nostro pupazzo di pezza, l'ennesima torre di guardia da cui controllare gli spostamenti del pipistrello e, dove necessario, assestargli un bel colpo di fionda. Quando si ha molta paura, si possono fare due cose: evitare la situazione oppure farsi abiti con carta bullonata in modo da attutire i colpi. La routine è la nostra carta bullonata. Non è tanto follia, quanto istinto di sopravvivenza. Forse allora più che lemuri in borghese, siamo Rambo in carta da pacchi.

Duille  


domenica 13 settembre 2015

Vivere creativamente

Creare è una parola simile ad un incantesimo: è un azione declinata all'infinito, senza confini o spaziatura, senza limiti e senza tempo. Significa far nascere, dare luce, generare, regalare al mondo qualcosa che prima non esisteva e inserirlo nel movimento della rotazione terrestre, come un germoglio piantato in una crepa del marciapiede, disponibile a tutti pur non appartenendo più a nessuno se non a se stesso.  
E' un po' come aver operato una mitosi, come se dalla nostra testa o dalle nostre mani fosse uscita una piccola bolla di sapone denso e dai colori brillanti che ha iniziato a galleggiare nell'aria, indipendente da noi eppure piena dei nostri riflessi. La creazione è quindi un po' un ossimoro: è qualcosa di totalmente nostro, una proiezione di ciò che siamo al di fuori di noi, familiare come solo ciò che ci appartiene profondamente può essere eppure, nel momento stesso in cui nasce, ormai diventata altro, come un riflesso d'acqua in una pozzanghera. E' il nostro riflesso quello che vediamo, sono i nostri occhi quelli che ci guardano dalla loro casa acquosa, i nostri capelli quelli che ondeggiano ad un passo da terra, eppure non siamo totalmente noi, perché quel riflesso è fatto d'acqua e luce, quel viso che ci osserva capovolto è distorto dai cerchi prodotti da una goccia caduta da un ramo, da una carezza di vento o magari da una libellula appoggiatasi sulla punta del nostro naso riflesso. Siamo noi mischiati con il mondo come tempere su una tavolozza di legno. Ho sempre pensato che ci fosse qualcosa di misterioso nel modo in cui creiamo, come se avessimo anche noi una bacchetta magica incastonata nella punta delle dita, nel fondo della gola o in qualche angolo della mente. Un piccolo seme che cresce fino a velarci gli occhi con il reticolo delle sue foglie, impossibile da ignorare, anche quando sembra solo un'erbaccia senza valore. Diciamocelo, ci meravigliamo un po' anche noi quando creiamo qualcosa di nuovo e bello. Ci sorprendiamo di noi stessi, ci stupiamo di essere riusciti in questa incredibile magia, ci chiediamo quasi se siamo stati proprio noi a compiere questo piccolo miracolo. 
Quella piccola bolla perfetta è proprio mia? Quei colori riflessi dai raggi di sole che cambiano secondo cromature melodiche sono proprio usciti dai miei occhi? E si compie allora una seconda magia, quella della meraviglia. Ci siamo guardati creare e ci ritroviamo a sorridere increduli di quello che abbiamo fatto, della vita che abbiamo trasferito in quella bolla di sapone galleggiante davanti a noi, ad un metro da terra, leggera come l'aria, anche quando è piena di dolore. Perché anche questa è la magia del creare, in fondo: rendere bello anche l'orribile, estetizzare anche il dolore più aguzzo e le lacrime più salate, estetizzare fino ad anestetizzare, fino a ricoprire quell'emozione bruciante di balsamica ambra, fino a rendere il male un monile dai colori tenui da indossare senza timore di essere feriti. Creiamo ambra quindi, ambra leggera come una bolla di sapone, sfere di resina che volano sopra di noi, lasciandoci sollevati, ad un metro da terra insieme a lei. Lei, frutto della nostra mente, che ci insegna come si vola, pur rimanendo perfettamente incollati a terra. E' magia questa. Qualsiasi sia la forma che questa bolla di sapone assumerà, sarà pur sempre magica e tutti saremo in grado di crearla. Spesso sento dire da molte persone di non essere capaci di creare arte, di non avere la manualità, il talento o l'idea giusta, ma non è così. Tutti creiamo arte ogni giorno, anche quando sembra che non lasciamo dietro noi niente di tangibile. Non dobbiamo essere tutti Picasso, Mozart, Michelangelo, Sepulveda o Sorrentino per creare arte. Non dobbiamo per forza essere dei graphic designers, dei videomaker dalle incredibili doti o dei programmatori di videogiochi dall'ultraterreno talento per fare magie. E non lo dico solo io! Un importante psicologo del Novecento dal nome morbido come quello di un orsetto di pezza, Donald Winnicott, sosteneva che creare significasse prima di tutto vivere creativamente, una cosa che tutti possiamo fare ogni giorno. Vivere creativamente significa non smettere mai di sognare e di fantasticare, significa continuare a guardare il mondo con i propri occhi e non con quelli della realtà, significa lasciare che le cose intorno a noi ci stuzzichino il palato come farebbe un bel piatto di spaghetti al sugo con le polpette. Io credo che dentro ognuno di noi esista un modo unico di osservare, inimitabile, speciale e spettacolare ed è quello sguardo particolare che ci rende capaci di vivere creativamente, facendo sì che ogni passo poggiato sull'asfalto faccia sbocciare fiori dalla nostra suola, o che un ramo proteso verso di noi diventi una mano decisa ad accarezzarci. 

Vivere creativamente significa pensare che dentro una pozzanghera d'acqua ci sia un mondo alla rovescia in cui tutto si muove al contrario o che le persone si muovano secondo i ritmi della musica che stiamo ascoltando mentre viaggiamo in autobus. Significa credere che nel riflesso di sole lanciato da una finestra si celi una fatina luminosa intenta ad indicarci la strada o che una lanterna cinese lanciata in aria in una notte d'agosto possa solleticare i piedi ad una stella. Vivere creativamente significa continuare ad immaginare, divertirsi ad interpretare la realtà, plasmarla come se fossimo degli scultori dell'irreale, ma anche vedere le piccole bellezze che già esistono. Vivere creativamente significa fare attenzione, essere recettivi, fare arte con i sensi, perché non si deve conoscere la musica per essere musicisti. Si può suonare la risacca marina o dirigere il tubare dei piccioni in una piazza. Si può soffiare il vento tra gli alberi e pizzicare il brusio della folla in città. Si può addirittura suonare il silenzio di una biblioteca, fino a farlo vibrare di sottili fili nylon, quasi tangibili, ma solo ai più attenti. La manualità non ha niente a che vedere con la creatività, né con l'ispirazione. Si può creare senza sapere nemmeno impugnare un pennello, senza avere la minima idea di come fare una pallina con una manciata di plastilina, senza conoscere un singolo passo di danza, senza sapere nulla di programmazione o film making. Creare non ha nulla a che fare con la tecnica. Creare significa dare forma a bolle di sapone. Una cosa che sappiamo fare fin da bambini. 
Duille

   
domenica 6 settembre 2015

Anche i girini possono battere le serpi

A molte persone piacciono i film horror per lo stato di tensione che producono e i brividini lungo la schiena che fanno battere i denti e la colonna vertebrale. E' divertente tenere la faccia nascosta sotto le coperte da cui, ogni tanto, far affacciare un occhio coraggioso per valutare la situazione, occhio che di solito si rivela poi non tanto coraggioso quando si ritira precipitosamente nell'orbita chiusa di fronte al primo rumore sospetto della pellicola.
I film dell'horror ci hanno abituato a prendere confidenza con la paura di un certo tipo, quella di creature dai visi sfregiati, di uomini indossanti maschere comprate di corsa al discount sotto casa, di bambini troppo pallidi e apparentemente ignari della rivoluzionaria invenzione degli elastici per capelli, di presenze invisibili con il pallino dell'arredamento. Si tratta sempre di entità misteriose, sconosciute, a volte addirittura invisibili. Di fatto sembra che questi film siano stati scritti da mamme apprensive che ricordano di non dare mai confidenza agli sconosciuti, soprattutto se hanno un coltello grande quanto un vaso Ming nelle mani. Nessuno ha mai pensato però di aggiungere a questa carrellata di simpatici personaggi dal dubbio gusto per l'abbigliamento il re dei cattivi, peggio di Sauron in persona: il Rimugiserpe. Creaturina deliziosa, il Rimugiserpe, davvero. Un perfetto villain alla Batman, che racchiude l'eleganza di Pinguino, l'arguzia dello Spaventapasseri, l'ironia dell'enigmista e la genuina cattiveria del Joker. La quintessenza del male inguantata in un abito da Lord inglese. Anche Samara tornerebbe nel suo pozzo umido a farsi venire i reumatismi pur di non dove fare una conversazione con il Rimugiserpe.  Ma chi è il Rimugiserpe? E' quella vocina nella testa che vi scoraggia sempre quando avete in mente un progetto, che vi fa sentire piccoli come una biglia rotta in un oceano di sabbia, che vi ripete sempre di non farvi grandi speranze, perché non avete niente di speciale da dare al mondo. In una parola: è quel malefico ronzio di sottofondo che è il Rimuginio. Tutti rimuginiamo, anche se noi ansiosi sociali siamo dei campioni. Che volete farci, c'è chi sceglie di diventare un genio degli scacchi e chi si impegna in una sistematica autodistruzione rimuginante. Noi ansiosi sociali rimuginiamo quando andiamo a fare la spesa, quando ci alziamo dal letto, prima di addormentarci, quando camminiamo per strada, addirittura mentre parliamo con qualcuno.


Ve l'ho detto, siamo dei campioni. Cintura nera di rimuginio, pesi massimi dell'insicurezza, maledettamente bravi a metterci tronchi d'albero tra le ruote. I nostri sono Rimugiserpe di prima qualità, forgiati dal fuoco di mille battaglie. Il problema del Rimugiserpe, del nostro come del vostro, è però uno solo: non riflette nessuno dei modelli del film dell'orrore. Non è brutto, non è deturpato, né palesemente malefico e anche il suo gusto per il vestire non è evidentemente orrido. Non è uno che aggredisce con mazze da hockey, con coltelli rubati a Sandokan o con fantasiose mani uncinate che hanno rubato il copyright a Wolverine. Il superpotere del Rimugiserpe è l'ambiguità, la sua strisciante cattiveria, la sua serpentesca lingua biforcuta. All'apparenza è la classica figura del mentore, saggio vecchio aristocratico inglese pronto ad elargire consigli mentre sorseggia pensieroso un bicchiere di buon cognac invecchiato. Si presenta proprio quando se ne ha bisogno, come Batman con il batsegnale, come la fata turchina al pianto disperato di Cenerentola, come il prode John Keating all'urlo "O capitano, mio capitano". Suvvia, chi non vorrebbe un John Keating pronto a tenderci la mano nel momento in cui se ne ha più bisogno? O un barbuto John Mcguire deciso ad aggiustarci a tutti i costi? Insomma, chi non vorrebbe un Robin Williams che, paternamente, guidi nel buio aiutando a schivare sassi, buche e qualche cacca di cane? Il Rimugiserpe è tutto questo: una figura che ispira fiducia, che sembra conoscerci meglio di noi stessi, che sa trovare la parola giusta per catturare la nostra simpatia, che non ci biasima ma ci comprende profondamente, genuinamente interessato alla nostra felicità. Qualcuno a cui regaleremmo volentieri un rene, se ce lo chiedesse. Ci fa sentire al sicuro, con quel suo fare da intellettuale vecchia scuola e lo sguardo comprensivo da mamma oca, al punto che alla fine, non possiamo fare a meno di affidarci a lui, ai suoi modi eleganti, al suo sguardo che ricorda tanto il nostro professore preferito e finiamo col pendere dalle sue labbra come un babbuino alla ruota pneumatica dello zoo. In fondo, cosa abbiamo da perdere?
Lui sembra avere tutte le risposte che ci mancano e noi siamo pieni di domande che continuano a cadere nel vuoto come la tabellina del nove. Finalmente qualcuno sembra pronto a raccoglierle, queste domande, e questo qualcuno è il Rimugiserpe. Ma, come ci insegna Cluedo, l'assassino è sempre il maggiordomo ed il Rimugiserpe non fa eccezione. Dietro a quell'attitudine da nobiluomo ottocentesco, si cela in realtà un lupo travestito da agnello,un Grima Vermilinguo in abiti britannici e occhialetti di corno. Credendo di chiamare Batman, in realtà stiamo nominando per tre volte Beetlejuice. Con la scusa di aiutarci, il Rimugiserpe si attorciglia intorno al nostro collo come una sciarpa e ci sussurra parole velenose all'orecchio camuffandole da nuvolette di zucchero filato. In effetti sta tutta qui l'eccezionale cattiveria del Rimugiserpe: l'arte dell'oratoria. Il maledetto non userà parole come "stupido", "inetto", "povero scemo" (a quello ci pensa già il procione), ma argomenterà, con proprietà di linguaggio, esempi e dimostrazioni, la tesi secondo cui, in effetti, degli inetti incapaci di qualsivoglia cosa lo siamo davvero. Con modi gentili ci darà l'impressione di toglierci i famosi prosciutti dagli occhi mostrandoci la realtà della nostra non poi così brillante situazione, rivelandoci che quello che noi consideravamo talento era in realtà semplice apprendimento scolastico, che la nostra evidente bellezza in realtà è solo un cumulo di bei dettagli che nell'insieme producono un quadro di Picasso, che la nostra socievolezza è però priva di contenuto. Argomenta, il disgraziato, e lo fa maledettamente bene, lasciando a noi l'ingrato compito di mettere la lapide alla nostra tomba identitaria: "qui giace il Nulla. Ha vissuto nel nulla ed è morto nel nulla. Prego, non lasciate fiori, che sono allergico". La gentilezza del Rimugiserpe è in realtà accondiscendenza, la tenerezza che ci mostra è spietata pietà, la comprensione, altezzosità velata. Ci intorta per bene, il nostro serpentesco amico, facendoci ingoiare palline di piombo ricoperte di codette di zucchero. E' più simile alla madre del Sesto senso che avvelenava la figliastra mettendole il veleno nella minestra, che non ad un terribile Scream dalla faccia alla Munch.
Il Rimugiserpe ci avvelena quindi, usando le parole come un nettare catramoso, ci dissuade dal prendere decisioni avventate, dal rischiare troppo, ma a volte anche dal giocare sul sicuro, con la scusa di non farci fare una inevitabile brutta figura, di non abbattere il nostro ego o semplicemente per evitarci inutili sofferenze coprendoci di ridicolo. Così facendo ci riduce all'immobilismo, smontandoci pezzo per pezzo come un vecchio puzzle impressionista. Alla fine ci rende così insicuri da lasciarci sparpagliati sul tavolo, intenti a raccoglierci senza neanche uno straccio di libretto d'istruzioni dell'IKEA, totalmente dipendenti dalla sua parola, sempre più convinti che lui la sappia davvero più lunga di noi. E mentre noi cerchiamo di capire quando diavolo siamo diventati questa massa di pezzetti bianchi impossibili da combinare tra loro, il Rimugiserpe succhia allegramente con una cannuccia la nostra autostima, ormai ridotta ad un pesce rosso nella sua boccia. Capirete bene che ribellarsi al Rimugiserpe è difficilissimo: come riconoscere il conte Dracula nell'aspetto rassicurante del Rimugiserpe, che sembra uscito da un libro di Harry Potter? Una volta presi nella sua rete, diventerà molto ostico liberarsi dalla sua morsa da boa constrictor, perché anche quando metteremo in dubbio la sua parola, inevitabilmente finiremo con il crederci persone incapaci di accettare le critiche e ci manderemo all'angolo dietro alla lavagna con il cappello d'asino. Combattere contro questo intellettuale laureato a Cambridge è durissima e dovremo raccattare anche l'ultima squama di autostima rimasta al nostro pesce per sfidare a singolar tenzone il nostro occhialuto britannico, magari lanciandogli il molliccio pesciolino dritto in faccia. Per noi ansiosi sociali la situazione è particolarmente dura perché non possiamo contare neanche su un pesce rosso, ma su un girino malaticcio e pallido che sembra che stia per tirare le cuoia da un momento all'altro, frutto di anni di milkshakes del Rimugiserpe. Nonostante questo, non c'è da temere: come ci insegnano i film dell'horror, alla fine, miracolosamente, la brunetta urlatrice finisce sempre col salvarsi dalla mano del suo assassino soprannaturale, pronta per il sequel del film. Secondo questa filosofia, quindi, anche da un girino può nascere un pesce rosso e da lì una carpa koi, un delfino ed infine un'orca che salta recinzioni come se avesse bevuto a goccia un intero barattolo di olio cuore. Basta quella piccola creaturina asmatica per capovolgere la situazione, ma bisogna credere in lei, dobbiamo scommettere sul cavallo più sfigato, sul numero che ci sta più antipatico, sul contendente più scarso. Dobbiamo fare un atto apparentemente suicida, anche se forse suicida non lo è del tutto. Ricordiamoci che siamo nel mondo alla rovescia del Rimugiserpe, dopotutto. In fondo è proprio vero che i film insegnano: se è vero che ci si deve guardare dagli uomini con maschera e motosega (e dai maggiordomi), è altrettanto vero che da cheerleader biondine e svampite sono nate ammazzavampiri di prima qualità. E se Antman può essere un supereroe, anche il nostro girino potrà vincere la battaglia con il terribile Rimugiserpe. Un colpo di coda alla volta.

Duille


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Eccomi! Sono una scrittrice in erba, divoratrice di libri, sognatrice professionista e ansiosa sociale multicorazzata. Ho la fissa dei ricordi, la testa fin troppo tra le nuvole, interessi disordinati, un amore impossibile per gli alberi e una passione al limite del ridicolo per le serie tv. Ah, e le presentazioni non sono proprio il mio forte. Si vede?

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