domenica 29 settembre 2019

Telefilm addicted #20: Mad Men

"Sex. Lies. Storyboards". Così la tag-line sui manifesti presentava, nel 2007, una delle serie più acclamate della contemporaneità, Mad Men. E mai descrizione fu più azzeccata per riassumere l'immenso e stratificato mondo di questa serie, che ha fatto scuola parlando della Storia moderna americana attraverso i suoi personaggi. 
Mad Men ci racconta infatti la vita di un'agenzia pubblicitaria di New York, la Sterling Cooper, durante il decennio che va dal 1960 al 1970, e delle vite dei suoi dipendenti, dei loro progetti ambiziosi, la loro lotta per l'affermazione individuale e professionale, il loro adattarsi ai cambiamenti sociali e lavorativi, mentre sullo sfondo si snodano i grandi eventi della Storia. Il titolo, Mad Men, è un gioco di parole che incarna perfettamente il doppio binario su cui corre la serie: da un lato c'è Madison Avenue, la via dei pubblicitari in cui si trovano gli uffici della Sterling Cooper e delle altre agenzie, un mondo patinato, veloce, in cui l'immagine vince su tutto ed in cui la realtà viene piegata e deformata ad esigenza del consumatore; dall'altro c'è la follia (mad in inglese significa "pazzo") delle vite scheggiate dei suoi protagonisti che rifiutano di fare i conti con le proprie fragilità e che finiscono quindi spesso per autosabotarsi nel tentativo di salvarsi. E' necessario un avvertimento però: Mad Men non è una serie facile. La sua struttura narrativa è lenta, con un graduale scivolamento verso profondità di cui intuiamo appena le forme, i suoi dialoghi sono studiati ma spesso ermetici, l'analisi dei personaggi non imbocca mai la facile strada della esplicitazione, i suoi protagonisti sono tutti, immancabilmente, antieroi pieni di ambiguità. Mad Men, insomma, richiede impegno, costanza e concentrazione, perché non ha nessuna intenzione di imboccare lo spettatore. E' una serie densa come l'ambra che cola dalle conifere, che però, se le si da' il tempo di solidificare, diventa un gioiello prezioso, proprio per quelle caratteristiche così lontane da certe forme di serialità contemporanea a cui siamo abituati. Mad Men è un progetto ambizioso che fa della stratificazione il suo punto di forza: infatti si prende il tempo di costruire non una narrazione, ma un intero universo sociale, puntando tutto su personaggi/specchio di una società che per molti tratti sembra l'embrione di quella attuale.
 Mad Men infatti ci presenta molti temi della contemporaneità, raccontandone gli albori: il razzismo dilagante, la precarietà lavorativa, la quotidianità alienata dentro un ufficio, che diventa il solo vero scopo della vita, al punto che perdere l'impiego significa perdere tutto, anche il senso della propria esistenza. E ancora la disparità di genere, che non è mai vera misoginia, quanto un'abitudine culturale già quasi pronta ad essere superata, la sessualizzazione della donna, che fatica ad emanciparsi dal suo corpo, e la scarsa complicità femminile, vittime della stessa abitudine culturale che affligge i maschi. Mad Men ci mostra un mondo dominato da uomini in cui le donne faticano ad inserirsi senza snaturare se stesse, ma è un mondo difficile anche per gli uomini, cui viene richiesto di omologarsi al modello maschile vigente. In questa realtà così complessa e realistica si innestano, come diamanti ancora da levigare, le storylines dei diversi personaggi, i dipendenti della Sterling Cooper e le loro famiglie, che stratificano ulteriormente la vicenda. Ogni lavoratore della Madison Avenue è infatti un antieroe, come dicevamo, fatto di ombre spesse come linee di pennarello, ciascuno in fuga da qualcosa o in cerca di qualcosa, tutti aspiranti alla bidimensionalità del pubblicitario vincente e carismatico, anche rinunciando alla tridimensionalità dell'essere umano autentico. Ciascuno di loro fugge dalle contraddizioni che li differenzia l'uno dall'altro, tutti proteggono i loro segreti e le loro fragilità anche dai colleghi con cui hanno maggior confidenza, alienandosi a se stessi e agli  altri, isolandosi al punto da non riuscire più a capire chi sono e finendo, inevitabilmente, per agire sotto l'influsso di questi segreti che tentano di nascondere sotto litri di alcool. Lo spettatore, alla fine, finisce coll'avere dei sentimenti ambivalenti verso di loro, amandoli per la loro fragilità e odiandoli per il loro egoismo e la loro cecità, che spesso finisce col danneggiare anche le persone che li circondano. 
Accanto a loro, infatti, c'è il secondo nucleo di personaggi, composto dalle mogli, dai figli, dai compagni dei protagonisti, che cercano di ritagliarsi uno spazio nelle vite di questi pubblicitari ossessionati dal lavoro, che lottano per non essere marginalizzati e, a loro volta, deformati e strumentalizzati, o peggio, dati per scontato. Personaggi che, alla fine, saranno anche pronti a forti gesti di autovalorizzazione quando saranno messi di fronte all'inconsistenza dei legami su cui hanno investito. Don Draper, il protagonista assoluto della serie, è sicuramente l'esempio più emblematico della contraddizione interna che affligge i personaggi: è l'uomo del momento, il pubblicitario dalle idee più brillanti, carismatico, enigmatico, corteggiato da uomini e donne, colui che tutti vorrebbero essere. Ha una moglie bellissima e fedele, due bimbi biondi ed educatissimi che stravedono per lui e una casa in periferia con ogni genere di confort. Don però si rivela ben presto essere solo una bugia ben confezionata, che cela dietro di sé un vuoto interiore da cui il protagonista fugge, scappando da un letto all'altro, da un incarico al successivo, da un bicchiere di whiskey ad un Old Fashioned, fino a quando la realtà lo agguanta al punto da costringerlo a scappare davvero, anche se solo per brevi periodi. 
Dietro queste lotte intestine, Don si lascia una scia di cuori infranti, di abbandoni reciproci, di illusioni smontate dalla realtà, di scelte difficili. Ma Mad Men non è una serie cinica e disillusa e i suoi personaggi non sono sadicamente destinati al precipizio: evolvono a colpi di realtà, lottano contro la verità che si para loro davanti e, di volta in volta, scelgono se e quanto accogliere di questa verità. Diventa perciò affascinante osservarne i cambiamenti e si finisce a fare il tifo per loro, si piange con loro e si gioisce con loro, come si farebbe con un membro della propria famiglia. Mad Men è quindi una serie che ha i tratti del grande romanzo, con una narrazione corale che punta tutto sulla psicologia dei personaggi e che sfida lo spettatore ad intuire, a fare uno sforzo di comprensione, proprio come si farebbe con persone in carne ed ossa. Mad Men è un esempio di ottima scrittura creativa e se ne può estrapolare anche un messaggio di fondo: non si può sfuggire a se stessi e l'omologazione ha sempre un prezzo, spesso molto caro. In 7 stagioni, 92 episodi, 72 ore di visione, Mad Men ci racconta un'era, con le sue contraddizioni, le sue fatiche e i suoi protagonisti che cercano la felicità nascosti dietro una cortina di fumo di Lucky Strikes e un bicchiere di Martini sorseggiato con grazia. In barba a fegato e polmoni. 

Duille


domenica 15 settembre 2019

Quando procrastinare è un'arte

Procrastinare. L'arte del rimandare fino a quando non è più possibile farlo, la scienza della segmentazione costante del tempo in granelli sempre più infinitesimali, la disciplina agonistica del resettare il timer ogni volta che si avvicina la fatidica scadenza, bestia sacra degli iniziatori di dieta, dei pigri, dei compilatori di buoni propositi, degli studenti universitari e, naturalmente, degli ansiosi. Tutti la conosciamo, tutti ce la portiamo dentro come il batterio del fuoco di Sant'Antonio che, si sa, finisce sempre col bussare alla porta nei momenti meno opportuni e senza neanche portare una conveniente bottiglia di vino. 
 La procrastinazione non è di certo prerogativa dell'ansia sociale e non sono neanche certa che tutti noi ansiosi la usiamo allo stesso modo, ma di sicuro la sottoscritta ne usa e abusa a piene mani, al punto che, se esistesse un suo equivalente del barattolo delle parolacce, a quest'ora avrei già potuto comprarmi una capannina alle Maldive, con quel giusto grado di modestia dato dalle mie umili origini. Dato che suppongo che la procrastinazione agisca per vie oscure e personalissime, lasciate che vi racconti come essa si declini nella mia nervosissima personcina. Prima di tutto, per me la procrastinazione è fortemente legata all'ansia, detta anche il buco nella ciambella della mia esistenza. Ansia e procrastinazione sono amiche per la pelle, tipo la pizza e l'ananas per gli americani, e in me diventa lo strumento supremo dell'autosabotaggio, proprio come la pizza hawaiana. Vorrei dire che la uso per evitare eventi spaventosi, ma questo significherebbe affermare che agisco su di lei una qualche forma di controllo, quando, diciamocelo, è molto più probabile che io riesca a convincere telepaticamente i piccioni a liberare i loro intestini sulle auto dei miei nemici piuttosto che controllare il piccolo sabotatore interno. No, direi piuttosto che lei si attiva quando ho paura di fare un qualcosa collocabile in un futuro dall'imminenza variabile e sempre in occasione di eventi da evitare assolutamente, anche a costo di dover espatriare sotto falso nome. In questo senso non so se dovrei considerarla, almeno nelle intenzioni, una sorta di salvavita Beghelli, un salvagente nel mezzo di un oceano senza neanche lo sputo di un atollo all'orizzonte, oppure la mazzata definitiva sui denti, stile bastone che si abbatte sul cucciolo di foca. Penso che in definitiva sia un mezzo con cui cerco di illudermi di poter evitare il problema che mi affligge senza prendermene davvero la responsabilità, proprio per la mancanza di controllo di cui sopra. Per me la procrastinazione gode di vita propria, come la ricrescita post epilazione: non la puoi evitare, non la puoi rallentare, puoi solo continuare a combatterla come si lotta per estirpare il male dai posseduti (the exorcist insegna). La mia procrastinazione poi, proprio perché è una veterana e ha molti anni di fidato (e non richiesto) servizio alle spalle, col tempo ha iniziato a diventare creativa, così da riuscire a svicolare meglio al mio già lasso controllo razionale. Il mio piccolo sabotatore interno quindi ha diversificato l'offerta, comprendendo:

1. uno starter pack, fatto delle classiche frasi standard tipo "lo faccio dopo", "finisco questo e vado", "stasera mi ci metto, giurin giurello", "cascasse il mondo, domani lo faccio" e svariate altre versioni del "perché fare oggi quello che potresti fare domani, soprattutto se quella cosa che devi affrontare te la fa fare nelle mutande peggio di un abbondante piatto di lenticchie in brodo?". Lo Starter pack mi si attiva di solito quando la Diabolica Scadenza è molto lontana o quando l'evento in questione non è per me di grande importanza, quindi probabilmente riuscirò ad evitarlo senza troppi sensi di colpa. Questo perché di solito è la forma di procrastinazione più facilmente rilevabile dalla mia coscienza, che io immagino sempre come dei Nasi che subodorano le palle che mi racconto da sola. Se dovessimo paragonarlo ad un odore, il pacchetto base saprebbe molto di gorgonzola. E si sa, la puzza di piedi è inconfondibile e impossibile da ignorare.

2. Bugie, in vasto assortimento e a diversi livelli di raffinatezza, che vanno dal non ho tempo, al sono stanca, lavoro troppo, sono molto impegnata, ci sono le pulizie da fare, i gatti da nutrire, l'aria da respirare, il senso della vita da cercare, fino a contorti ragionamenti scagionanti che si supporrebbero a prova di bomba. E non iniziamo neanche a parlare delle indulgenze papali che mi regalo quando ho affrontato altre situazioni ansiose durante la giornata e che mi permettono di giustificare la procrastinazione della scadenza al giorno dopo in nome del mio essere Giovanna D'Arco. Come si potrà intuire, la bugia è particolarmente conveniente perché, oltre a permettere di procrastinare, mi ammanta anche di un'aura di santità stakanovista, praticamente divento una mondina dei primi del Novecento. Di fatto, mi da' la scusa perfetta per mettere al tappeto i cani del senso di colpa già pronti a spolparmi viva. 

3. Le amnesie. Qui siamo già a livelli di creatività da Triennale di Venezia. Dato che nel corso degli anni i Nasi hanno iniziato a subodorare puzza di bruciato anche nelle bugie (ve lo dicevo che la mia coscienza è un po' lassa), la procrastinazione ha fatto un salto di qualità arrivando direttamente a farmi dimenticare le scadenze che mi spaventano, ripalesandole nella mia mente quando, per vari motivi, sono impossibilitata a portare a termine quelle azioni. Uno dei momenti più deliziosamente disturbanti è la ricomparsa del ricordo la sera tardi quando, già indossato il pigiama con le pecorelle e comodamente sistematami sotto le coltri, inizio ad abbioccarmi felicemente. A quel punto, in un lampo da fulmine a ciel sereno, mi ricordo di aver dimenticato di fare quella cosa, La Terribile Cosa che mi mette un'ansia assurda. Risultato? Sonno rovinato, ansia a pallettoni e cuore che tenta di sfondare il petto in stile cartone dei looney toones. Il mio futuro prossimo è costellato di occhiaie grandi quanto piccoli monolocali e irritabilità da gatto a cui hanno pestato la coda. 

4. Le somatizzazioni. Somatizzare significa trasferire sul piano fisico questioni che riguardano l'emotività: crampi allo stomaco, problemi intestinali vari, dermatiti, tachicardia e altri deliziosi flagelli fuori elenco sono tutti classici esempi in cui il corpo reagisce alla psiche. Quando è la procrastinazione ad avvalersi di questo meccanismo, si raggiungono però livelli da magia nera perché è la forma che agisce direttamente sul corpo e la percezione e che viene usata solo nelle situazioni di emergenza, cioè quando, evidentemente per intercessione divina, sono riuscita a superare tutte le precedenti tecniche di sabotaggio e mi ritrovo catapultata nell'imminenza della Terribile Cosa. A quel punto, maestro entra in azione. Innanzi tutto il tempo improvvisamente assume due velocità diverse: c'è il tempo accelerato nella mia mente, che corre come una volpe inseguita da altolocati cani britannici, e il tempo esterno, che continua a muoversi alla solita velocità. Il risultato è che mentre per me passa un secondo (quel secondo in cui io ragiono sul da farsi) fuori, nel mondo, di secondi ne sono passati cinque. L'obiettivo è quello di farmi perdere l'occasione e credo di costellare il tutto con la classica figura da cioccolataia. Lo sfasamento temporale si associa poi con l'atteggiamento da stoccafisso del corpo, che rifiuta di fare qualsiasi cosa che vada oltre al tenersi in vita. Fine di ogni comunicazione tra centro e periferia e marmorizzazione istantanea da attacco d'ansia. Sciopero dei mezzi fino a nuovo ordine. Silenzio siderale in ogni direzione. La tundra praticamente. Alla fine, in questo tipo di procrastinazione, il mondo, che non ha tempo da perdere con me, decide al posto mio, lasciandomi sola in mezzo ai rotolacampi a domandarmi cosa diavolo sia successo. E naturalmente, a piangere. Quello è un evergreen intramontabile che pepa le mie giornate dagli inizi del nuovo millennio. 

Questi sono le tecniche che la mia procrastinazione ha sviluppato nel corso di decenni di lotta armata e non oso immaginare quali incredibili altre meraviglie da incubo abbia in serbo per me in futuro.
Se per ognuno di noi la procrastinazione crea un campionario di tecniche pensate ad hoc per la nostra persona, penso di poter parlare con certezza nel dire che l'obiettivo sarà sempre quello di impedirci di prendere di petto la situazione, crogiolandoci piuttosto in una lenta agonia da verdura in cottura nella minestra che, sorprendentemente, troveremo essere comunque un'alternativa molto più valida e ragionevole alla folle idea di risolvere la questione una volta per tutte. In fondo, credo, ci si abitua a tutto, anche al vapore del bollito. 

Duille


domenica 8 settembre 2019

Assaggi #5 : L'altra Marilyn

Circa un mesetto fa, mentre praticavo lo sport in cui riesco meglio in assoluto (lo zapping agonistico sul divano), sono incappata in un film su Marilyn Monroe ("Marilyn", appunto) che mi ha catturata subito, perché racchiudeva nella sua patinata pellicola due cose che mi piacciono moltissimo, ovvero
 A. elementi biografici e 
B. approfondimenti psicologici. 
Il film, per chi non l'avesse visto, racconta della settimana cui Marilyn, già famosissima, volò in Gran Bretagna per recitare nel film Il Principe e la Ballerina. In realtà questo spaccato temporale diventa il pretesto per indagare sulla tormentata personalità di Marilyn, di cui, personalmente, non sapevo assolutamente nulla, a parte il fatto che aveva avuto una brutta infanzia e non era proprio un modello di virtù sul set. Ma quei 96 minuti di pellicola sono bastati ad accendere il mio lato da delfino curioso con occhialetti freudiani (lo so, che accoppiata improbabile). 
La domanda che mi sono posta, quindi, è stata la seguente: ma qualcuno avrà cercato di fare il profilo psicologico a questa povera creatura piagata apparentemente da ogni sorta di disturbo psicopatologico? E se sì, esistono libri a riguardo? Da qui segue
1. ricerca febbrile sull'internet di informazioni a riguardo, neanche ne andasse della mia vita,
2. scoperta sconcertante della mole antonelliana di libri esistenti sull'argomenti, tali da poter riempire comodamente la biblioteca della Bestia,
3. attivazione dei miei superpoteri di ex studentessa di psicologia al fine di scandagliare questo oceano di testi alla ricerca del volume che, a mio avviso, sembrava più affidabile, 4. approdo sull'isola felice del testo di cui parliamo oggi, grazie al mio pusher di fiducia, la biblioteca. Il saggio che vi propongo oggi è l'Altra Marilyn, scritto a quattro mani dalla psichiatra Liliana dell'Osso e dallo psicoterapeuta Riccardo Dalle Luche, uniti in un sodalizio lavorativo dai cognomi infiniti. Il saggio ha due pregi fondamentali: primo, è organizzato come un manuale, il che significa che è schematico (ma non sbrigativo), organizzato (ma non rigidamente), esplicativo (senza ridursi al semplicismo superficiale di certi testi), approfondito (senza eccedere) e sequenziale (senza rinunciare alle meritate pause caffè riflessive). Secondo, si propone di rivolgersi a lettori non addetti ai lavori, cioè a tutti coloro che di psicologia ne sanno quanto basta per sapere socraticamente di non saperne nulla. E lo so che spesso, parlando di saggi, queste promesse si rivelano fin troppo simili ai buoni propositi per l'anno nuovo snocciolati con finta convinzione a Capodanno, finendo così col trovarsi tra le mani libri che sembrano scritti in ostrogoto mischiato con la lingua farfallina, ma in questo caso gli autori hanno fatto bene i compiti e hanno seguito questo faro luminoso fino all'ultima pagina, sforzandosi ampiamente di semplificare il linguaggio senza impoverirlo e trattando il lettore come un non esperto e non come un bimbo di quattro anni a cui si stanno insegnando i rudimenti del vasino. Il risultato è un bel manualetto chiaro, interessante e approfondito, in cui si analizza l'intera psicopatologia di Marilyn Monroe partendo dalla sua biografia, compresa la storia familiare, analizzando le perizie dei numerosissimi analisti che l'hanno presa in carico (una fra tutte, Anna Freud) e ricostruendo da queste evidenze l'ipotesi diagnostica su cui si poggia l'intera seconda metà del volume, ovvero una diagnosi di disturbo borderline a spettro autistico. La cosa sicuramente più interessante di questo testo è l'approccio estremamente metodico del saggio, che può essere considerato un esercizio diagnostico, una simulazione che si rivelerà molto interessante per coloro che vogliono sapere come ci si muova effettivamente nel processo analitico e diagnostico e che vede nell'anamnesi il punto di partenza per la ricostruzione della storia psicopatologica del paziente e nella esplicitazione delle motivazioni che soggiacciono all'ipotesi diagnostica il verso segno della validità del lavoro. Che è come dire, niente illazioni alla Vanna Marchi qui. 
Marilyn viene qui trattata come una paziente, ne vengono individuate le caratteristiche patologiche tipiche del disturbo borderline, come l'oscillazione velocissima tra idealizzazione e svalutazione delle persone a lei care, la dipendenza dall'opinione degli altri, veri e propri Io ausiliari per l'attrice, ma soprattutto la maschera Marilyn, a cui Norma Jean, vero nome dell'attrice, si identifica adesivamente per dare senso ad un vuoto identitario incolmabile e che si manifesta , in tutta la sua distruttiva profondità, nella vita privata dell'attrice, esponendola a continui vissuti di abbandono, reali o presunti, e al bisogni di cercare un costante ottundimento in varie forme di dipendenza (alcol, farmaci, relazioni, telefono). Marilyn è un doppio privo di nucleo, è la donna sicura di sé, evidentemente consapevole della sua prorompente sessualità che non esita ad esibire, e contemporaneamente è anche la persona insicura, rimuginativa, che vorrebbe tanto diventare una vera attrice, pur non avendo un vero talento per esserlo completamente. E questo perché la maschera Marilyn, come ci dicono gli autori, non può mai essere sostituita con un'altra maschera recitativa, perché dietro ad essa c'è il vuoto terrificante, un vuoto che l'attrice cercherà di colmare in ogni modo, per essere più dell'icona in cui è e sarà per sempre intrappolata. L'analisi della paziente Marilyn verrà considerata con lo sguardo clinico e privo di giudizio degli autori, che ne rivelano tutta l'umanità e la complessità, ne fanno emergere luci e ombre, comprovando tutto con il riferimento alla benedetta corposissima bibliografia a fine volume. Ultima chicca da non sottovalutare è poi l'album fotografico a fine opera, utile compendio visivo alla narrazione del saggio. Naturalmente non si tratta di un lavoro perfetto: le note a piè di pagina a volte si rivelano solo prolissi approfondimenti che sembrano più uno sfoggio di cultura che un reale ampliamento  del discorso, e il taglio psichiatrico spesso prende il sopravvento su quello psicoterapeutico, rendendo il tutto un po' troppo asettico e un filo ambulatoriale. Inoltre, per quanto ci sia un forte tentativo di snellire il linguaggio per renderlo più fruibile al lettore, non sempre questo tentativo arriva ad avere successo, cadendo in qualche tecnicismo di troppo che si poteva evitare. Ma si tratta di casi isolati che si possono tranquillamente superare con un bel "boh" privo di conseguenze. In conclusione, l'Altra Marilyn si rivela essere un libro ben studiato, approfondito, ampiamente documentato, che non dimentica mai il target di destinazione e che si sforza di alleggerire il linguaggio sfruttando metafore, esemplificazioni, ripetizioni e prendendosi il tempo per spiegare i concetti più difficili senza darli per scontati. Consigliatissimo a coloro che vogliono scoprire come si fa diagnosi, agli appassionati di Marilyn e agli addetti ai lavori interessati ad un profilo clinico che si rivelerà roba da leccarsi i baffi. 
Duille


domenica 1 settembre 2019

Promesse

E' tornato Settembre, e con lui la prima promessa d'autunno. L'ho sentita chiaramente ieri, quando Agosto sgocciolava le sue ultime ore. Ero raggomitolata in un angolo del letto, incuneata tra il muro bianco della mia camera e il legno rosso scuro della cassettiera dell'IKEA. 
Settembre mi si è parato davanti agli occhi improvvisamente, come una lucciola nel giardino di casa. Erano solo poche note sospese nell'aria, giusto qualche goccia di suono in stand-by, ma erano già un preludio carico, come una di quelle nuvole temporalesche che non vedi l'ora di ascoltare. Mi ha fatto sorridere sapere che cosa la natura aveva in serbo per noi, anche se lontana, per ora. Fuori è ancora estate, io indosso ancora i pantaloncini leggeri che lasciano respirare le gambe ed i calzini sono ancora in letargo, nel buio di un cassetto. Dentro però, sotto la pelle che memorizza le consistenze del pavimento e delle ciabattine in legno, così simili a quei teli da mare in bambù chiaro, c'è già un'aria diversa, una stringa che mi collega a quella solitaria lucciola che brilla fioca all'altezza degli occhi, in un incontro carico di significato. Ci sono suoni nuovi che si risvegliano e che hanno bisogno di silenzio per essere sentiti: soffiano i respiri a pieni polmoni, scrocchiano le foglie sotto le scarpe, scivolano le lane sulle braccia e tintinnano i cucchiaini nelle tazze. Sono ancora in viaggio, ma io li sento già, sto già accordando l'orecchio per non perdermene nemmeno uno. In fondo, l'autunno è un'attitudine mentale più che una stagione. Richiede lentezza, pazienza, domanda il coraggio di fermarsi anche quando il mondo corre più veloce delle nostre gambe. Non s'imporrà mai, ma lascerà che siamo noi a decidere se e quando ascoltare. E quando lo faremo, ne varrà sempre la pena. Settembre, in quel suo singolo lampo di futuro, settembre che ancora brilla sgargiante come una moneta d'oro ben lucidata, mi ha promesso tutto questo, anche se solo in una lieve vibrazione dell'aria mattutina, anche lei già in cambiamento, come una pelle di serpente. Ha la frizzantezza di un atomo di neve, l'alone umido di una goccia di pioggia e il silenzio che si spande a volute rotonde dalla prima tazza di tè. E' ancora solo un frullo d'ali, appena un riflesso color delle zucche, ma è già una promessa mantenuta che m'increspa le labbra in un sorriso dalle tinte dorate.   
Duille






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Eccomi! Sono una scrittrice in erba, divoratrice di libri, sognatrice professionista e ansiosa sociale multicorazzata. Ho la fissa dei ricordi, la testa fin troppo tra le nuvole, interessi disordinati, un amore impossibile per gli alberi e una passione al limite del ridicolo per le serie tv. Ah, e le presentazioni non sono proprio il mio forte. Si vede?

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