domenica 27 maggio 2018

Telefilm addicted #18: UnReal

Tutti, prima o poi, ci siamo arenati su uno di quei finti reality trash dal sapore profondamente americano che raccontano, o fingono di raccontare, le vite di persone sconosciute ma accomunate tutte da personalità alla Donald Trump: autostima alle stelle (e strisce) e totale assenza di un senso del ridicolo, soprattutto visto che tale autostima non è supportata da alcuna reale qualità esibibile. Che sia il Grande Fratello, The Bachelor o il Jersey Shore, tutti abbiamo all'attivo almeno uno di questi trashissimi scheletri nell'armadio. Ma cosa succede dietro a questi reality dal gusto così vistosamente pecoreccio?
La risposta ci viene fornita da UnReal, serie drammatica approdata sulle nostre iridi nel 2016 e che conta la bellezza di tre sfavillanti stagioni, l'ultima delle quali si è conclusa da poco. 
UnReal è una serie che racconta i retroscena di un fittizio reality show chiamato Everlasting, in cui uno scapolottino (come lo chiamerebbe lo specchio incantato di Shrek) viene ficcato in una casa lussuosa con decine di ragazze taglia 42 (e variabili coppe di reggiseno) pronte ad accapigliarsi per essere scelte dal principe azzurro di turno e avere il loro finale da favola. Dietro a questo mondo apparentemente fiabesco (e anacronistico), tutto concentrato su una fittizia ricerca del Vero verissimo Amore, UnReal ci mostra la realtà, molto meno luccicante e decisamente più inquietante, del gioco degli ascolti. Narrando la vicenda dal punto di vista dei producer che gestiscono e creano Everlasting, UnReal ci svela un mondo fatto di manipolazioni psicologiche sui concorrenti, montaggi strategici capaci di stravolgere la realtà e situazioni costruite ad hoc per creare attriti e scandali, tutto in nome del dio Audience. Protagoniste di questo gioco perverso sono la capo Producer Quinn King, che ha fatto della carriera la sua principale ragion d'essere, e la sua seconda, Rachel (interpretata dalla ex amica degli alieni di Roswell, Shiri Appleby), una ragazza con così tanti problemi affettivi da poterci riempire una piscina olimpionica. Sono loro che muovono i fili di questo teatro degli eccessi, insieme ad una serie di comprimari altrettanto sfaccettati ed egregiamente caratterizzati. La serie ci catapulta quindi in uno scenario ben diverso da quello confettoso (anche se un po' stantio) del reality e caratterizzato da una costante e strisciante intrusività dei producers, in cui non vi è più nulla di autentico tranne che la spettacolarizzazione del dolore e lo sfruttamento cinico e quasi sadico delle fragilità dei concorrenti, ridotti a burattini inconsapevoli pronti ad essere sacrificati in nome della macchina acchiappascolti. Il mondo dei producer rivela uno show che, lungi dall'essere realistico, è fatto di schemi, in cui ogni concorrente è scelto con cura per entrare in un'etichetta che ne determinerà il destino. Nella storyline del reality, la serie si rivela sì inquietante, ma capace di molti momenti di leggerezza, giocando con gli stereotipi e sfruttando la sua natura cinica, divertente e scorretta sia nel linguaggio che nelle dinamiche.
Parallela a questa prima narrazione, ve ne è un'altra che, invece, rivela tutta la sua tragicità impossibile da sdrammatizzare. Le manipolazioni psicologiche che i singoli producer attuano sui concorrenti, infatti, si allargano come una macchia d'olio fino a contaminare le relazioni tra loro e con gli altri membri dello staff, mostrando che quello che sembrava essere una strategia lavorativa è in realtà (o è sempre stata) un modo d'essere di cui si è perso da tempo il controllo, una patologia che si autoalimenta nell'essere glorificata ed esaltata dal successo dello show, ma che, gradualmente, diventa predominante a discapito della persona, portando alla solitudine tutti i personaggi, in un modo o nell'altro. La protagonista di UnReal è quindi la patologia psichica che assume il controllo imprigionando i suoi portatori e, cosa ancora più inquietante, che si rivela cieca a se stessa e ai tentativi di risanamento operato da terzi, creando una palude che si oppone tenacemente ad ogni bonifica. Lasciate ogni speranza voi che entrate, insomma. Punto cardine di questa seconda narrazione è Rachel, personaggio seduttivo, manipolatorio e, contemporaneamente, fragilissimo, quasi di vetro, e che, proprio grazie a questo disequilibrio intrinseco, è l'unica che a tratti coglie la patologia che infesta tutto il set, compresa se stessa, cosa che la porta costantemente ad oscillare tra disperati tentativi di autosalvataggio e di redenzione (propria e dello show) e improvvise regressioni a vecchie modalità di comportamento. Rachel agirà il suo sintomo, diventandone vittima e artefice, in una spirale alimentata dagli altri personaggi che, apparentemente più strutturati, si rivelano anche i più ciechi al disagio che li abita.
Per questo motivo, Rachel, fra tutti i personaggi, sarà quella che produrrà maggiormente un vissuto di ambivalenza nello spettatore: sarà amata profondamente per il suo lato umano e fragile ma non potrà mai essere totalmente esentata da una condanna etica, perché lei stessa continua a scegliere il sintomo alla più difficile strada della salvezza. UnReal si scopre perciò una narrazione che mostra come, a volte, il successo vada a braccetto con il disagio. In questo caso, infatti, il successo è possibile solo a discapito della sanità mentale, solo mantenendo e alimentando delle dinamiche disfunzionali che, di stagione in stagione, si faranno sempre più tragiche e asfissianti. In conclusione, UnReal è una serie estremamente divertente, grazie ai suoi dialoghi brillanti, alla dissacrante demolizione del sistema televisivo e ad un parco concorrenti sempre rinnovato e caratteristico che lo rendono un prodotto di intrattenimento intelligente e d'intrattenimento, mantenendo delle tematiche di fondo stimolanti e vivide. Ma c'è un però. Il punto debole della serie, relativamente trascurabile, è la sua ripetitività e prevedibilità: per quanto ci possano essere, nel corso delle puntate, delle svolte narrative che farebbero sperare in un ribaltamento dello status quo, di fatto, alla fine, tutto torna come prima, a costo di forzare pesantemente la sceneggiatura e stravolgere le personalità di alcuni personaggi. Per quanto ci si possa vedere una ennesima rappresentazione del mondo circolare e reiterativo del disturbo psicologico, resta il fatto che, a livello di trama, diventa frustrante come cercare di raccogliere una moneta con due stuzzicadenti. Con una nuova stagione in arrivo, che forse sarà anche l'ultima, speriamo in una conclusione di trama che non punti, ancora una volta, sui cavalli di battaglia e che produca quell'ultimo gesto coraggioso tra i tanti di cui la serie è già un emblema.
Duille


4 commenti:

  1. Ciao! Non conoscevo questa serie,ma mi sembra abbastanza interessante. Non sono il tipo da "Grande fratello", "jersey Shore" e simili, però ammetto che il modo in cui vengono costruiti mi intriga parecchio. La inserisco nella mia lista di serie da vedere ^^

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    1. Ciao Giusy, ti dirò, nemmeno io sono una accanita telespettatrice dei reality, li guardo giusto ogni tanto per farmi quattro risate davanti al trash, ma questa serie ha proprio questo di bello: è una grande critica a questo mondo, gioca con il suo lato trash mostrandolo in modo consapevole e alla fine il prodotto che ne esce fuori è qualcosa di divertente e spietato allo stesso tempo. Quindi credo che sia perfetto per persone che non amano il genere dei reality. 😊 se lo vedrai, mi piacerebbe molto sapere cosa ne pensi. Nel frattempo grazie per essere passata, un bacione. ❤

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  2. Ti devo confessare che durante la lettura di tutto il post il mio pensiero si era fissato solo su l'attrice che interpreta Rachel. Lungi da me ogni collegamento con Roswell - telefilm che ho sempre snobbato alla grandissima - nel mio cuoricino di undicenne lei è la co-protagonista di A time for dancing, film allegrissimo (la colonna sonora è Dancing di Elisa, canzone stupenda che amo tanto, ma il livello di allegria della canzone ti farà immaginare quello del film...) incentrato sulla danza e su due migliori amiche. Il film è obiettivamente discutibile ma, oh, che ci vuoi fare, ero tanto sensibile ai temi che trattava, e non rinnego mai le cose tanto amate in passato. Perciò per me Shiri Appleby resta Sam di A time for dancing (anche perché ammetto di non averla poi vista in nessun altro ruolo).
    A parte i miei soliti pipponi inutili, non conoscevo questa serie, o per lo meno non avevo idea del contenuto. Sembra davvero molto intrigante! Il mondo del backstage dei reality mi è sempre sembrato un ambiente molto losco ed oscuro... Da quanto scrivi, UnReal mette in scena proprio questo. Terrò in conto questo titolo!

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    1. Ciao Julia, ma ti pare che IO non abbia visto A time for dancing? Oltre alla splendida canzone di Elisa, questo tipo di film sono uno dei miei numerosi guilty pleasures (ho avuto per anni una passione smodata per i film sulla danza), quindi conosco, conosco bene il personaggio di Sam e la sua tragica storia! Roswell invece l'ho evitato come la peste perché lo trovavo adatto solo per ammazzare l'insonnia. 😊 Parlando di Unreal, secondo me questo è un prodotto fatto apposta per te perché è intelligente, cinico, divertente e consapevolmente trash. Insomma, è un pacchetto completo! 😊

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Eccomi! Sono una scrittrice in erba, divoratrice di libri, sognatrice professionista e ansiosa sociale multicorazzata. Ho la fissa dei ricordi, la testa fin troppo tra le nuvole, interessi disordinati, un amore impossibile per gli alberi e una passione al limite del ridicolo per le serie tv. Ah, e le presentazioni non sono proprio il mio forte. Si vede?

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