domenica 18 novembre 2018

Capitolo 27: Ink

Esiste un tacito accordo tra editore e lettore che fa sì che un libro, a dispetto del motto, possa essere giudicato dalla copertina, almeno in merito alla sua qualità. Potremmo chiamarla "La regola della merendina": c'è una bella differenza tra la Kinder Paradiso e una fetta di torta fatta in casa. Possono piacere entrambe, ma è indubbio che a livello di qualità ci passi un abisso. E' così anche per i libri: copertine curate suggeriscono libri scritti bene, copertine arrangiate alla meno peggio suggeriscono libri scritti male.
Una differenza essenziale e che non ha nulla a che vedere con l'effettivo piacere di leggere quel determinato libro: è semplicemente una bussola implicita che permette di orientare il lettore tra i diversi livelli di qualità, un po' come il muschio sulla corteccia degli alberi che indica sempre il Nord. Ci sono ovviamente le eccezioni che fanno sì che, ad esempio, ci si ritrovi tra le mani la più brutta copia esistente del Grande Gatsby o che, al contrario, ci si imbatta in libri le cui copertine sono così belle da spingere all'acquisto compulsivo, ma che si rivelano più deludenti di un cioccolatino ripieno di gelatine alla frutta. Un esempio di questa seconda categoria è Ink, di Alice Broadway, primo capitolo di una nuova trilogia chiamata Skin Trilogy. Ink è un romanzo con così tanti problemi che non si riesce neanche ad insultarlo a dovere perché sarebbe come prendere in giro un malato terminale: semplicemente crudele. E' un pasticcio confezionato alla perfezione però, come quando a Natale ricevi un pacco gigantesco avvolto in splendida carta da regalo al cui interno finisci col trovare un paio di calzini così brutti che potrebbero piacere solo a Dobby. In questo romanzo non funziona niente, a partire dal genere a cui vorrebbe fare riferimento. Infatti, per definire questo romanzo, urge adottare la massima di Balto: "Non è cane, non è lupo, sa soltanto quello che non è". E infatti Ink sembra vivere in un'eterna crisi d'identità che lo porta ad appropriarsi di elementi propri di generi diversi, facendolo pure molto male. Inserisce mappe inutili, che cavalcano l'onda dei fantasy classici, e tenta, fallendo, di proporre una distopia a tema religioso che resta talmente abbozzata da continuare a sembrare più un ceppo di legno che un burattino, figurarsi diventare un bambino vero. Cerca anche di attingere a temi mitologici e folkloristici, finendo drammaticamente nel plagio e anche come Young adult è decisamente insufficiente, dato che la protagonista non si limonerà mai il belloccio di turno. Diciamo che, sulla carta, Ink dovrebbe essere un romanzo distopico: racconta infatti di un mondo in cui, per motivi religiosi, le persone si tatuano tutti gli avvenimenti significativi della loro vita, nella prospettiva che, alla morte, il loro corpo verrà trasformato in un libro di pelle e giudicato degno di essere ricordato o meno in una cerimonia chiamata la pesatura dell'anima. Se la vita del defunto sarà giudicata priva di macchie, il libro verrà consegnato alla famiglia che lo custodirà e ricorderà, altrimenti verrà bruciato e condannato all'oblio. Come in molte distopie, anche qui il conflitto si crea nel momento in cui la protagonista si ritrova a mettere in discussione tutto il funzionamento sociale su cui ha costruito la sua esistenza e che nel caso di Leora, la nostra eroina, parte dalla scoperta che il padre morto aveva dei segreti tali che rischiano di condannarlo a diventare un bel fiammifero di carne (immagino la puzza!).
Peccato che l'autrice non abbia fatto bene i compiti a casa e non abbia tenuto conto del fatto che affinché una distopia sia tale, è necessario che le regole siano imposte in modo dittatoriale, che soffochino la libertà di espressione e che si crei un senso di claustrofobia intollerabile che spinge il personaggio ad un'azione disperata, rischiando la vita. Qui non c'è niente di tutto questo: il conflitto morale è così poco stringente da essere facilmente soppiantato da problemi ben più importanti per la protagonista, come le ondate ormonali verso l'Adone di turno e le lunghe sessioni imbronciate allo specchio analizzandosi le smagliature. Inoltre non c'è controllo né imposizione legale al tatuaggio, tanto he viene espressamente detto che i clienti chiedono ai tatuatori simboli ambigui per celare le loro manchevolezze, e ovviamente scordiamoci di trovare punizioni esemplari per i dissidenti. Cosa più importante, non esiste una reale minaccia di morte o pericolo oggettivo per la protagonista, dato che né Leora né i suoi familiari amici rischieranno più di un buffetto sulla guancia di fronte ai "crimini" di cui si macchieranno. Quindi, di che distopia parliamo? Direi di nessuna. Sicuramente la pessima caratterizzazione dei personaggi contribuisce largamente a far evaporare quel poco di sostanza che il romanzo vorrebbe avere: i nemici sono così inconsistenti e poco curati che al confronto Mignolo e il Prof sono dei super villain alla Hellraiser, i comprimari sono piatti come le tette dell'ispettore Van Thian nei panni della vedova Ho (spoiler: due bistecche) e la protagonista stessa ha l'acume di un piccione a passeggio sulla tangenziale. Diciamo che il problema principale di Ink (tra i tanti) è che sembra eternamente fermo ai blocchi di partenza, è un prologo lungo 370 pagine in cui non succede letteralmente niente. La trama principale non decolla mai e snerva il lettore sotto la martellante domanda: "ma quando inizia?", vengono cominciate mille sottotrame che restano monche e mai sviluppate (un esempio per tutti: gli intonsi), sono presentati personaggi che non hanno alcuna funzione né alcuna storia personale a dargli spessore e tutta la narrazione è un ripetersi continuo e snervante di momenti di vita quotidiana fini a se stessi che non funzionano neanche ai fini del world building. Quest'ultimo, poi, è addirittura disastroso. L'intero mondo di Leora ruota intorno ad un francobollo della città in cui vive, Saintstone, e ai quattro luoghi che la ragazza frequenta e che il lettore si trova a ripercorrere fino alla nausea, come una pallina da ping pong con il mal di mare. Queste poche locations, oltretutto, sono descritte malissimo, sono tutte identiche tra loro e non creano nessuna atmosfera riconoscibile, tanto che alla fine non riusciamo neanche a capire in che diavolo di epoca ci troviamo. Questa pochezza contenutistica infetta tutto, compresi i temi, che sono più oscuri della vista di un cieco, e lo stile, che è basico come i pensierini scritti dai bambini alle elementari.
L'autrice, ad esempio, si sofferma continuamente ed inutilmente su descrizioni del meteo invernale e usa due coppie di aggettivi per descrivere tutto, dall'ambiente ai sentimenti: caldo/freddo, sicuro/insicuro. E lì si ferma. Inoltre la Broadway cerca maldestramente di inserire elementi comici all'interno della narrazione che però, più che divertire, finiscono col risultare grotteschi, come quando Leora, leggendo il libro di pelle del nonno, si accorge di star fissando le ex chiappe del defunto antenato. La cosa però forse più fastidiosa è il fatto che il testo è infarcito di fiabe che dovrebbero contribuire al world building ma che non solo non ci riescono ma sono anche degli incredibili plagi. Tutte le fiabe sono infatti la copia sputata di fiabe realmente esistenti, dalla Bella addormentata nel bosco al mito del vaso di Pandora, fino alla leggenda di Iside e Osiride. Tutto copiato. E a quel punto anche la compassione viene meno di fronte al dubbio sempre più crescente che l'autrice ci stia prendendo in giro o ci consideri particolarmente ignoranti. Ai posteri l'ardua sentenza. Alla fine, comunque, in questo romanzo non c'è niente. Niente di bello, niente di interessante, niente da giudicare. E' scritto male, ha un'idea che, più che embrionale, è ancora alla fase della morula, lascia in sospeso ogni filone narrativo, non ha antagonisti, i plot-twist sono sorprendenti come scoprire che l'acqua è bagnata e il testo finisce così come è iniziato: nel nulla più totale. L'unica cosa che si salva? La copertina. Quella è davvero bella.
Duille

"Mi domando come debba essere trovare l'amore della propria vita, amare ed essere amati appieno - e poi mi rendo conto che sto guardando quello che una volta era stato il sedere di mio nonno e volto in fretta la pagina" (p.211)



1 commento:

  1. Ciao ragazza!
    Ho sentito parlare tanto di questo libro quando uscì, ma non mi aveva incuriosito abbastanza. Però devo dire che l'idea di base mi sembrava interessante, avrei anche potuto farci un pensierino. Leggendo il tuo commento però sembra essere lontanissimo dalle mie corde.

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Eccomi! Sono una scrittrice in erba, divoratrice di libri, sognatrice professionista e ansiosa sociale multicorazzata. Ho la fissa dei ricordi, la testa fin troppo tra le nuvole, interessi disordinati, un amore impossibile per gli alberi e una passione al limite del ridicolo per le serie tv. Ah, e le presentazioni non sono proprio il mio forte. Si vede?

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