domenica 6 gennaio 2019

Una cosa di cui avevo bisogno

Qualche giorno fa stavo ascoltando un podcast di Francesco Costa, un giornalista che si occupa di politica americana. Durante una delle sue puntate, occasionalmente registrata in diretta da un locale di Milano, all'incirca verso la conclusione della seconda stagione del programma, Francesco ha tirato le somme di un'epifania vissuta in un momento molto particolare, uno di quei momenti un po' cinematografici in cui tutto sembra concludersi là dove era iniziato (che nel suo caso, era davanti ad un discorso di Obama). Era la chiusura di un cerchio, come l'ha definita lui stesso. 
"Senza eccedere nelle retoriche sui sogni, perché li sappiamo tutti ed è anche un po' svenevole ed esagerato, però se c'è una cosa che volete fare e non trovate lo spazio per farla, cercate di creare quello spazio dove non esiste, e si può fare senza che un qualcuno vi assuma […], si può fare senza che qualcuno vi dia l'incarico, senza che qualcuno vi dia soldi […]". A rileggerlo, è chiaramente un discorso di una semplicità estrema, alla Canto di Natale ( della serie "se non sarai buono morirai triste e solo"), forse anche un po' banale, se ci pensiamo bene. Ma come accade spesso, non è il modo in cui vengono dette le cose a stravolgerti il mondo, ma la particolarità del momento in cui quelle stesse cose vengono ricevute. Un po' come un libro, che letto in un momento della vita non trasmette nulla, è insipido come il piatto di pasta preparato ad un iperteso, ma che il momento dopo è il sorprendente specchio di come ti senti, la bussola delle tue emozioni, la stella polare che guiderà la tua zattera fatta di bottiglie di plastica attraverso la burrasca. E' stato così anche per me quando, mentre pulivo casa, mi sono sentita arrivare addosso una manciata di parole che ho scoperto essere ciò di cui avevo bisogno, come se fossi un piccione particolarmente affamato a cui venivano lanciate briciole di pane da un signore uguale a tutti gli altri, su una panchina identica alle altre di un parco qualunque. Era l'attimo perfetto ed evidentemente avevo il cuore orientato nella giusta direzione, come un aquilone lanciato su una gentile onda di vento ascensionale, che solleva senza strappare. Forse questa linfa vitale è stata particolarmente rinvigorente perché arrivava in uno dei periodi che meno amo, il cambio dell'anno, quel difficile momento in cui secondo la società dovrebbe cambiare tutto, in cui si dovrebbe ripartire da zero, pianificare incredibili cambiamenti di connotati esistenziali, riesumarsi dalle feste freschi come rose ed energici come all'uscita da una Spa ma che, per la natura (e per i nostri fisici provati da troppe fette di panettone), è solo l'ennesimo giorno di un ciclo senza fine di albe e tramonti. Ormai è chiaro che per me il capodanno ed il primo dell'anno siano passaggi ruvidi da affrontare, come carta vetrata sulla pelle o quelle difficili ore estive in cui sei costretta a soffrire le pene dell'inferno per la ceretta mentre, in fondo alla tua mente, ti chiedi insofferente che senso abbia torturarsi in questo modo, dato che, tanto, la selva ricrescerà con un ghigno malefico sulla faccia di ogni pelo. 
Forse, quindi, è proprio in virtù di questa difficoltà personale e della malinconia che il primo dell'anno porta con sé, che queste parole, semplici come briciole di pane condivise con un piccione, sono state così efficaci. Quello di Francesco Costa è un discorso onesto, realista e soprattutto, fattibile. Non è infarcito di retoriche disneyane o di romantici idealismi che fanno sempre a pugni con la noiosa e faticosa quotidianità. E' proprio come la mia visione del Capodanno: nulla più che un altro giorno che si inanella a quelli precedenti, nulla più che un altro sogno che potrebbe restare tale. Perché, diciamocelo, non siamo mica tutti J. K. Rowling, o Barack Obama. Rovesciando la celebre massima, è vero che non tutte le ciambelle riescono col buco, ma noi siamo i triliardi di ciambelle, mentre loro, le ciambelle senza buco, sono in realtà delle krapfen piene di crema che noi fingiamo di non riconoscere come tali perché l'invidia è una brutta bestia ma è anche l'animale da compagnia implementato in ogni confezione di essere umano, come i piedini minuscoli della Barbie che sfidano le leggi della fisica. Ma anche così, pur rischiando di scoprire di non essere eccezionali, vale comunque la pena di far crescere questi germogli, anche se senza la pretesa che un pomodoro diventi una quercia secolare. Magari resterà un pomodoro, ma comunque un ottimo pomodoro. E' un cerchio che si chiude, insomma. E per me, diventa la parola del 2019: coltivare. Coltivare le mie passioni per il gusto di farlo e non per cercare riconoscimenti, per inseguire carriere da sogno o trovare uno spazio di visibilità. Come dice Francesco Costa, creare quello spazio dove non esiste e, aggiungo, farlo perché se ne ha l'urgenza, perché fa stare bene, perché si ha bisogno di fare uscire quella parte di noi che non trova spazio nel piccolo mondo in cui viviamo ma che non possiamo ignorare, forse perché è la parte più importante di noi, la più autentica, la più frizzante, ribollente di vita, l'aria fresca di montagna che passa nel buco della nostra ciambella. Ritagliare uno spazio in cui vivere a modo nostro, secondo regole che potrebbero assomigliare più a quelle del Paese delle Meraviglie che della società moderna, in cui si festeggiano i non compleanni perché sono di più dei compleanni, in cui la logica è ribaltata ma resta pur sempre logica, solo un po' diversa. Un fazzoletto di vita, che sia una stanza tutta per noi, come diceva Virginia Woolf, in cui essere febbricitanti di entusiasmo mentre ci compare sulla faccia uno di quei sorrisi idioti da persone innamorate. Un luogo in cui rifugiarsi quando i capelli diventano bianchi per lo stress e quando gli inevitabili pugni nello stomaco ci mozzeranno il fiato. E fare tutto questo, senza la pretesa che diventi più di quanto non sia in partenza, onestamente, realisticamente, senza costruire utopistiche fantasie, senza inquinare una bolla di sapone perfettamente rotonda pretendendo che assuma la forma di una stella, ma arrivando alla dorata via di mezzo: la testa completamente tra le nuvole, mentre i piedi sono ben radicati a terra. 
Una vita da albero, insomma.
Duille

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2 commenti:

  1. Ciao cara! 💖 Bellissimo post e, francamente, proprio ciò di cui avevo bisogno.
    Un meraviglioso anno a te!

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    1. Ciao Adele! Sono contenta che sia stato un post utile anche per te. A volte un piccolo bagno di realtà profumato di ottimismo è quello che ci vuole per recuperare la giusta prospettiva e sgravarsi di un po' di pesi inutili e,francamente, dannosi. Ti auguro un anno splendido pieno di belle soddisfazioni. :)

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Eccomi! Sono una scrittrice in erba, divoratrice di libri, sognatrice professionista e ansiosa sociale multicorazzata. Ho la fissa dei ricordi, la testa fin troppo tra le nuvole, interessi disordinati, un amore impossibile per gli alberi e una passione al limite del ridicolo per le serie tv. Ah, e le presentazioni non sono proprio il mio forte. Si vede?

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