domenica 13 gennaio 2019

Se telefonando io potessi non infartuarmi ti chiamerei

Ci sono suoni che terrorizzano e che trasformano subitaneamente nella gelatina verde sul cucchiaio di Lex in Jurassic Park. Ognuno ha il suo, che sia l'abbaiare furioso di un cane o lo sfarfallio inquietante e sinistro di una cimice ancora non individuata nella stanza. A volte si tratta di suoni dalla comprovata e condivisa spaventosità, come una forte esplosione, un urlo raggelante nel cuore della notte o quei maledetti petardi lanciati da incauti preadolescenti a cui vorresti poi staccare arti e testa (che, tanto, è evidentemente inutilizzata). 
Altre volte invece, questi suoni sono Hill Houses personali, case infestate che solo pochi eletti possono davvero percepire e comprendere e che, per la maggior parte delle persone, sono solo espressione di menti un po' troppo impressionabili. Noi ansiosi sociali amiamo trattarci bene e abbiamo due suoni della cripta che, in linea di massima, ci producono uno stato di disagio di gravità variabile (dal tenderci semplicemente come corde di violino fino al desiderio smodato di seguire l'esempio di Van Gogh e staccarci le orecchie): il primo, di cui parleremo oggi, è lo squillo del telefono. Il secondo, come direbbe Papà Castoro, è storia per un'altra volta. Dunque, il telefono. Lo squillo del telefono per noi ansiosi sociali è qualcosa di terrificante, capace di scombussolarci al punto da sospettare di essere diventati dei quadri cubisti picassiani. I danni inferti da quel primo squillo mortale si sviluppano su più fronti e i più attenti di voi avranno già capito che l'eruzione vulcanica investirà, con le sue ceneri e lapilli, tanto il fisico come la psiche. Dal punto di vista fisico si potrà assistere ad uno spettacolo circense di occhi fuori dalle orbite, cuore martellante dai virtuosismi heavy metal, guance incendiate delle tonalità di aragoste cotte, sudorazione alla Pumba ("ma dopo ogni pranzo lui puzzava di più, tutti quanti svenivano e cadevano giù") e tutto il corpo irrigidito come se fosse stato inzuppato nell'amido ma comunque pronto ad una fuga precipitosa. Dal punto di vista psicologico, il telefono squillante rivela avere per noi la stessa carica batterica di un bambino urlante, ci impanica come la piccola Verdun durante il cambio del pannolino e ha la stessa portata mortale di una pistola puntata alla tempia durante il gioco della roulette russa. Ma, più semplicemente, possiamo paragonarne l'effetto psicologico a quello di una sirena che annuncia l'imminenza di un bombardamento aereo. Solo che, invece del consueto "si salvi chi può", a noi viene chiesto di restare dove siamo e continuare a conversare come se nulla stesse accadendo, cioè come se non stessimo per diventare carne grigliata. Un po' illogico, non vi pare? E spesso, molto più spesso di quanto non vorremmo, ci viene pure chiesto l'apoteosi dell'insensatezza, roba che farebbe impallidire anche Maccio Capatonda in persona: rispondere al telefono. In quel momento, la situazione diventa critica perché il nostro corpo si oppone strenuamente a quello che considera essere un vero atto suicidario. Il braccio si finge morto come un opossum nel deserto, le vie neurali improvvisano uno sciopero che paralizza tutte le arterie comunicative e la parte razionale del nostro cervello apre delle trattative che già sa saranno difficili. 
Da un lato, quindi, la parte razionale tenta di mostrare l'assurdità della situazione, dall'altra i sindacati neuro-muscolari si ribellano alla dittatura logica in nome del sacrosanto diritto al panico e all'autoconservazione. Il muscolo cardiaco, d'altronde, ha parlato: quando c'è la tachicardia si attivano i protocolli di emergenza, ovvero fuga scomposta verso nuove galassie con lascito di nuvoletta di fumo o sagoma del nostro corpo contro la parete sfondata. Tutto ciò accade, di solito, mentre la cornetta continua ad urlare iraconda, riempiendoci le orecchie della sua furente disapprovazione. Il cervello razionale sa di avere poco tempo e una credibilità da difendere e, di solito, dopo una fiacca quanto inutile strategia diplomatica, finisce col chiamare la cavalleria in tenuta antisommossa. Se le premesse sono le stesse ogni volta (o quasi), i risultati di questa manovra militare possono portare a due esiti, a seconda della gravità della nostra ansia: la resa popolare con il sollevamento della cornetta oppure una riproduzione in scala delle Cinque giornate di Milano, che lasceranno morti, ammaccature e stanchezza, ma anche la vittoria contro il demoniaco telefono. Come si potrà capire, quindi, rispondere al telefono per noi è come chiedere di strapparci un braccio a morsi, o una versione personalizzata di un episodio di Saw - L'enigmista. E la cosa peggiore è che siamo continuamente circondati da questi infernali strumenti strombazzanti che esigono presuntuosamente la nostra attenzione e che, ad ogni squillo, ci fanno sentire sempre più in trappola, sempre più con le spalle al muro. Un aguzzino sempre in tasca verso cui non riusciamo neanche a sviluppare la sindrome di Stoccolma. A questo punto, la domanda emerge, conseguente come una bolla d'aria nello stagno dopo il passaggio di un ranocchio o, meno poeticamente, come un bel rutto dopo una poderosa mangiata: cosa ci spaventa tanto? Ci sono due elementi problematici del rispondere al telefono: da un lato l'ignoto, l'imprevedibilità della situazione, a partire dal mistero della voce che risponderà al nostro "pronto". Questo primo problema ci impedisce di attivare qualsiasi meccanismo difensivo da noi abitualmente usato: non possiamo pianificare la risposta o prepararci alle possibili direzioni che prenderà la conversazione, né possiamo richiuderci nella nostra conchiglia di invisibilità da Wallflower. Siamo indifesi come gli alieni della Guerra dei Mondi all'arrivo dei virus, insomma. E sappiamo tutti come sono finiti. Il secondo elemento problematico è l'immediatezza della risposta insita nella natura stessa del dispositivo, che ci impedisce di avere il benché minimo controllo su quello che diremo, dato che sarà indispensabile una certa spontaneità ed improvvisazione, tutte cose in cui noi ci sentiamo capaci quanto un lamantino alle prese con un apriscatole manuale. Se quindi per gli altri rispondere al telefono è solo un gesto, per noi è un'interrogazione a sorpresa alla lavagna su un argomento che non abbiamo studiato. E questo vale esattamente allo stesso modo sia che siamo costretti a rispondere al telefono che nel caso in cui dobbiamo fare la telefonata. L'ansia può poi estendersi anche al citofono, al campanello, al messaggio istantaneo e, nei casi di ansia grave, anche alle mail, soprattutto quelle formali. La situazione poi peggiora drasticamente quando questo mini colpo apoplettico si sviluppa in un contesto allargato, come quello lavorativo, dato che, oltre alle paure sopra citate, si aggiungerà anche l'ansia causata dal bisogno di nascondere la propria fragilità e l'autoimposizione (perché non si può parlare di esigenza, ma di obbligo) di fornire una prestazione perfetta. Capite bene che il rischio di sovraccarico cognitivo è praticamente scontato ed infatti dopo pagheremo pegno, quando passeremo tutto il pomeriggio a letto con addosso la stanchezza di un raccoglitore di pomodori africano e l'angosciosa immagine di un futuro arricciato su se stesso. In realtà, fortunatamente per noi, le cose non sono così drammatiche come vorremmo credere: il tempo, la terapia e la pratica portano consiglio e rendono sempre più semplice affrontare il terribile strumento comunicativo. Gradualmente, telefonare al migliore amico non sarà più paragonabile a strapparsi i denti con una pinza arrugginita e il citofono sembrerà sempre meno il libro Mostro dei Mostri di Harry Potter. Ci vorrà pazienza, ci vorrà coraggio, ci vorrà speranza. Ma stranamente, di quella, ne abbiamo a pacchi. 

Duille




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Eccomi! Sono una scrittrice in erba, divoratrice di libri, sognatrice professionista e ansiosa sociale multicorazzata. Ho la fissa dei ricordi, la testa fin troppo tra le nuvole, interessi disordinati, un amore impossibile per gli alberi e una passione al limite del ridicolo per le serie tv. Ah, e le presentazioni non sono proprio il mio forte. Si vede?

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