domenica 21 luglio 2019

Sindrome dell'impostore

Qualche settimana fa ho rincontrato una vecchia compagna del liceo e siamo andate a cena insieme. Da brava ansiosa quale sono, non ho mancato l'opportunità di farmela sotto come una donna in attesa del suo turno per l'ecografia a vescica piena. In effetti questo incontro aveva tutti gli ingredienti necessari per terrorizzarmi a dovere, un po' come un film horror costruito su misura: io e questa compagna non ci vedevamo da più di 10 anni e, di solito, in questi casi ci si aspetta di trovarsi molto cambiati (si spera in meglio), con una vita ormai avviata, di avere un poderoso effetto nostalgia dei tempi d'oro dell'adolescenza e l'inevitabile spolvero dei vecchi album di ricordi per mettersi in pari. 
Che non sono esattamente cose che posso annoverare nel mio inventario personale. Prima di tutto, io continuo ad essere la solita ansiosa patologica di sempre, forse un po' migliorata, ma decisamente non ancora nella condizione di vantarsene. Secondo, la mia adolescenza è sicuramente materiale da dimenticare e terzo non ho nessun album dei ricordi da sfogliare in allegria osannando i bei tempi andati. E non iniziamo neanche a parlare della voce "vita avviata", che è meglio. Piuttosto, potevo vantare solchi lacrimali profondi come il canale di Suez e una collezione di diapositive incentrate su eventi a cui ero stata invitata ma a cui avevo rinunciato per restare in compagnia di Madre Gothel l'ansia. Insomma, mi trovavo in una situazione a dir poco spiacevole. La cena alla fine si è rivelata molto carina (come quasi sempre accade quando sono prossima ad infartuarmi dalla paura) ma quella familiare sensazione di essere seduta su un cactus provata tutta la sera, mi ha fatto riflettere. Cosa c'era di sbagliato in questa equazione? Volevo evitare di cadere nella solita risposta passepartout alla Billie Eilish ("I'm the anxious guy, duh!") e così sono andata un po' più a fondo, facendo la palombara interiore in caccia di vecchi relitti dell'anteguerra. Da questa immersione nelle profondità del mio triangolo delle Bermuda sono arrivata ad esumare un'idea, che ho ribattezzato, con la mia solita fantasia da plagio seriale, SINDROME DELL'IMPOSTORE. La sindrome dell'impostore declinata all'ansia sociale è una paura sottile, strisciante ma costante, di essere smascherati per quello che siamo, ovvero dei disadattati patologici che anche prima di ordinare un caffè al bar hanno bisogno della preparazione che fu necessaria agli alleati per organizzare lo sbarco in Normandia (per un esempio, vedi qui). Da qui, la sensazione di essere sempre seduti sul cactus di cui sopra. Potrete intuire da questa premessa che la nostra sindrome dell'impostore non fa sì che mentiamo allo scopo di essere diversi, noi non ci fingiamo fachiri su un letto di chiodi quando in realtà abbiamo la soglia del dolore di un uomo al primo colpo di ceretta, no, noi tendiamo piuttosto a schivare disperatamente gli argomenti che potrebbero stanarci, che poi sono quasi tutti quelli che si affrontano in una conversazione normale. Io definisco questo comportamento "anguillare". Noi, come le anguille, scivoliamo tra le conversazioni senza toccarne nessuna perché il nostro principale obiettivo non è quello di raccontarci, di quello non ce ne frega niente, tanto siamo convinti di avere la ricchezza esperienziale di un rombo impiattato. Quello che per noi assume l'urgenza di un trapianto di cuore è la necessità di nascondere la lettera scarlatta che abbiamo tatuata sulla fronte, quella A di Ansia che pesa su di noi come una palla da carcerato e che siamo convinti nessuno possa capire. 
Ci mascheriamo, anguilliamo e sudiamo freddo, accettando di restare in bilico su quel cactus pronto a pungerci le chiappe perché non vogliamo che ci scoprano difettosi, mancanti e, conseguentemente, che ci percepiscano come stramboidi da cui tenersi alla larga, da compatire o, peggio, da consigliare (male, di solito).Alla base di tutto c'è sempre la paura del Grande Mostro, il giudizio altrui, il timore che, se sputassimo questo rospo interiore, verremmo superficialmente liquidati sulla base dei nostri vuoti, senza considerare il fatto che intorno a quegli spazi ci sono tantissimi pieni, e saremmo ridotti ad essere solo quel rospo che gracida spacconamente sul tavolo, tra i piatti e i bicchieri, con tutto ciò che conseguentemente significa avere un anfibio bavoso e molliccio accanto al piattino del pane. E' proprio a causa di questo timore che, ad ogni conversazione, si crea l'effetto prestazionale di uno scambio di figurine davanti ai propri album, in cui si fa la conta dei "celo" e dei "manca", ma con una pistola puntata alla tempia. Una sorta di roulette russa versione figurine Panini. Celo, celo, manca, manca, manca, manca e, sì, manca anche quella. Certo, l'elefante nella cristalleria che nessuno vuole riconoscere è che ci ostiniamo a confrontare album diversi, che NOI siamo album diversi, ma questo gli altri non lo sanno e noi non vogliamo assolutamente che ne vengano a conoscenza, sempre per la questione "voglio essere un bambino vero" alla Pinocchio. Quindi sfruttiamo quelle poche figurine simili che graziano il nostro album della loro presenza e ne facciamo i pilastri della nostra fittizia identità "normale", infiocchettandoli di capitelli corinzi e bassorilievi su tutta la lunghezza, sperando che questo distragga dal fatto che queste bellissime colonne sono praticamente dei monoliti in mezzo ad un prato. Riassunto: Sindrome dell'impostore. Vorrei pensare che in buona parte, questa paura sia generata dal fatto che l'ansia sociale fa parte di quel novero di disturbi sfigati che non inducono la comprensione né la preoccupazione di nessuno, uno di quei problemi che nessuno conosce, approfondisce o capisce ma su cui tutti, stranamente, hanno un'opinione non richiesta. E forse in parte è proprio così, ma dato che non ho ancora tolto la tuta da palombaro, è giusto essere onesti fino in fondo e riconoscere che c'è anche un'altra ragione per la nostra sindrome dell'impostore ed è la nostra patologica tendenza all'Autosvalutazione (guarda caso, un'altra lettera scarlatta), l'abitudine a giudicarci spietatamente, al non darci mai tregua, a non abbonarci neanche un piccolissimo errore, a non consentirci di essere niente meno che perfetti. E se siamo così crudeli con noi stessi, come possiamo pensare che gli altri saranno più misericordiosi? La realtà di solito ci smentisce, ma è raro che noi diamo una possibilità alla realtà. Sarà sempre molto più pericoloso sputare un grassoccio rospo che sedersi su un cactus per un'intera serata. Le spine di un cactus si possono estrarre e curare. Una volta che il rospo è sul tavolo, invece, non si può più tornare indietro. E a quel punto, l'unica soluzione, si sa, è la legione straniera. 

Duille


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Eccomi! Sono una scrittrice in erba, divoratrice di libri, sognatrice professionista e ansiosa sociale multicorazzata. Ho la fissa dei ricordi, la testa fin troppo tra le nuvole, interessi disordinati, un amore impossibile per gli alberi e una passione al limite del ridicolo per le serie tv. Ah, e le presentazioni non sono proprio il mio forte. Si vede?

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