domenica 28 agosto 2016

Balsami tecnologici

Internet, lo sappiamo, ha rivoluzionato il mondo: ha velocizzato le comunicazioni e ridotto le distanze, ha dato accesso ad ogni genere d'informazione, ha reso atemporale l'intrattenimento e indipendente l'arte. Ma esiste anche un lato segreto della rivoluzione telematica di cui nessuno parla, per l'ovvio motivo che solo chi ne usufruisce lo può vedere, pochi fortunati, se così si può dire, colpiti dallo sputo di un immaginario Maiastrillo. Tra quei fortunati, neanche a dirlo, ci sono gli ansiosi sociali.
Internet infatti ha reso la vita molto più facile a gente come me, che rischia il crollo nervoso ogni volta che è costretta a mettere un piede fuori dal rassicurante tracciato della routine. Il web mi ha salvato le coronarie più spesso delle volte in cui Alex è stata soccorsa da Walker Texas Ranger, riducendo all'osso sfiancanti contatti non indispensabili e garantendomi al contempo una certa autonomia. Meno stampelle e più indipendenza, insomma. Il computer è diventato presto un aiuto fondamentale per me. Non è un amico, è uno strumento, come un apparecchio acustico o il collare di Dug. E' il mio scudo lucente durante la battaglia contro medusa, la maschera che non ho mai avuto, lo strato di buccia più esterno della mia cipolla emotiva. E' il mio vetro antiproiettile, è una versione beta della parte che sto cercando di far crescere dentro di me. Internet mi fa sentire più sicura, più forte, addirittura più coraggiosa. Probabilmente questo effetto positivo è dato dal fatto che il web è fondamentalmente un'ambivalenza tecnologica, cioè annulla le distanze mettendo delle barriere di chip, plastica e codici binari. Siamo vicini ma mai in contatto diretto e questo è proprio ciò che cerca un ansioso sociale. Prima di tutto, internet annulla il corpo, sia quello fisico che sociale. Il corpo fisico è il corpo dell'immagine, cioè l'abbigliamento, il peso o la stazza, ma è anche la dolorosa evidenza di essere un oggetto geometrico, un poligono che occupa uno spazio, una massa di cui si diventa particolarmente consapevoli proprio nel momento della conversazione e che si rivela decisamente ingombrante. Mani e braccia di cui non sappiamo che farcene, ad esempio, o un particolare senso della gravità che ci fa empatizzare con la mela di Newton. Il corpo sociale, invece, è tutta quella marea di piccoli gesti che veicolano informazioni sulla personalità di ciascuno di noi, definendoci come affettuosi, distaccati, socievoli o timidi. Tutti messaggi non verbali che io non so proprio esprimere né tantomeno gestire, finendo perciò coll'assumere la consistenza di una lastra di legno di betulla. Come essere affettuosa ma non invadente, rispettosa ma non distanziante, spontanea ma non imbranata, espressiva ma non caricaturale, comunicativa ma chiara, onesta ma non brutale, sensibile ma non omertosa? Tutte queste domande diventano semplicemente inutili davanti ad un computer, perché non siamo più corpo, ma solo mente. Siamo aria con una bocca. 
In secondo luogo, internet annulla la velocità. Non so voi, ma quando parlo con qualcuno, sono sempre angosciata dal tempo: tempo di battuta, ritmo del discorso, tempi morti, lunghezza dell'intervento. Il momento più difficile però è sicuramente quel lasso di tempo che intercorre tra il momento in cui la persona finisce di parlare e l'inizio della battuta successiva. Temo sempre di parlare troppo presto, e rischiare così di tagliare spazio all'altro, oppure di parlare troppo tardi e perdere quindi il turno di parola. Internet annulla tutto questo e ripristina il tempo, restituendo a ciascuno il diritto di parola e di ascolto, dando il tempo di pensare, di cambiare idea, di rileggere prima di premere il tasto invio. Il web annulla sudore, pudore, batticuore, defezioni mentali, rossori e la fastidiosa sensazione di essere Homer Simpson senza la benedizione dell'inconsapevolezza. Mi rende normale, più o meno. O almeno, mi rende me senza la coperta dell'ansia, sostituita da un lenzuolino leggero. In quell'universo in cui tutto è il contrario di tutto, al punto che un foglio non è davvero un foglio, io mi sento più vera del vero. Internet mi permette di coltivare i miei interessi, di condividere, di scrivere per altri oltre che per me stessa, di ricevere consigli e critiche, di fare domande senza chiedermi prima se sono stupide, di ordinare i libri in biblioteca e il cibo a domicilio, di scoprire nuova musica senza la frustrazione di non riuscire ad entrare in un negozio di dischi. Il web mi restituisce l'esperienza, separa la spensieratezza dalla paura. Mi regala la possibilità di espormi senza sbriciolarmi, di mettermi alla prova, di essere parte, di osare, di piacere o meno, di fare amicizia, di dire e dare. Mi restituisce a me stessa, mi concede una tregua nella mia battaglia contro il drago. Sia chiaro, non è assolutamente la soluzione ai problemi perché nessun messaggio di testo può sostituire un abbraccio, uno sguardo complice, una lettera scritta a mano, così come un ebook non potrà mai competere con un libro di carta. Io lo considero più che altro la dimostrazione, nero su bianco, che sono più della somma delle mie paure, che ho qualcosa da dare e che ciò che ho è pregiato quanto quello degli altri. E in questo modo Internet diventa altro ancora: testimone di me stessa laddove io non riesco ad esserlo, custode del mio coraggio, ispiratore della mia battaglia, là fuori, nel mondo vero in cui voglio vivere.
Duille



domenica 21 agosto 2016

Lettera ai creatori di orrori

Cari sceneggiatori, produttori e registi di film horror,
vorrei farvi una domanda: siete consapevoli del potere che avete tra le vostre mani? Sicuramente sapete che uno solo dei vostri prodotti può condizionare l'immaginario collettivo di intere generazioni, lo avete toccato con mano con serie come Nightmare o The Ring, ma sapete perché riuscite ad avere un tale impatto? Perché siete un genere di intrattenimento, come una panna cotta dopo una bella mangiata per intenderci, un genere che attira soprattutto un pubblico adolescente.
Sì, proprio loro, quei ragazzetti brufolosi e dalla risata da iena che affollano le sale cinematografiche e che lasciano così tanti popcorn sul pavimento da dare l'impressione che ci abbiano sguazzato, dentro il contenitore. Proprio loro che, tra l'altro, saranno gli adulti di domani. Tra loro potrebbe esserci il prossimo presidente del consiglio o il futuro capo della polizia, ma anche l'insegnante di vostro nipote. Iniziate a capire di che genere di potere parlo? Il potere di influenzare divertendo, di essere il vecchietto sulla panchina che lancia briciole di pane ai piccioni nella speranza che qualcuno di loro diventi una versione aviaria di Ratatouille. Adesso, molti di voi questo potere l'hanno capito in pieno e lo hanno sfruttato egregiamente (parlo anche di te Scott Derrickson), ma invece voi altri che non avete voglia di assumervi questa responsabilità e che continuate semplicemente ad ingrassare i piccioni, potreste almeno limitarvi a fare intrattenimento e non farla così olimpionicamente fuori dal vaso andando a mettere le mani in cose che non vi competono e che, soprattutto, sembra non conosciate affatto? E se proprio volete colorare fuori dai margini, potreste almeno documentarvi per bene? Potete accendere per un secondo l'intero sistema neurale e ragionare sulle cose prima di scriverle e/o approvarle?  
No, perché io sono davvero stufa di assistere a questo abuso dei disturbi psichici, sono stufa di vederli associati a gente che fa patti con il diavolo, che si improvvisa strega o che nel tempo libero smembra ignari viandanti senza motivo. Ragazzi, il manuale di psichiatria non è un bestiario di animali fantastici da cui attingere per ispirarsi. Qui si parla di disturbi veri, che consumano fazzoletti, aprono voragini di dolore e che frantumano le speranze peggio di un video di Miley Cyrus! Non capisco se il vostro sia un problema di onnipotenza, di egoismo o di superficialità. Prendiamo un esempio a caso: quello scempio di Friend Request uscito pochi mesi fa. E parliamo direttamente con te, sceneggiatore di quel film. Cosa cavolo ti sei fumato quando hai deciso che appioppare la tricotillomania all'antagonista del film fosse una buona idea? Credevi che vedere una tizia che si strappava compulsivamente i capelli avrebbe reso il personaggio più inquietante? Credevi che la gente si sarebbe spaventata di più? Bravo, missione compiuta! Ma mentre ti facevi orgogliosamente pat-pat sulla spalla, hai pensato che forse, e dico forse, esistono persone che soffrono realmente di questo disturbo? Mentre ti regalavi una ciambella-premio per la tua "genialità", hai pensato che queste persone vivono già in una società in cui tutto ciò che non si capisce deve essere demolito/allontanato/denigrato? Era davvero necessario che tu mettessi altra benzina sul fuoco? E mentre mosso da questo moto di ispirazione, scrivevi della povera Marina che si strappava i capelli davanti al computer, hai pensato di leggere, anche solo di sfuggita, se non il DSM-V, almeno la pagina di Wikipedia? Perché, nel caso tu non lo sapessi, la tricotillomania è un disturbo OSSESSIVO-COMPULSIVO.
Sai cos'è un disturbo compulsivo? La sensazione di dover fare una determinata cosa per placare uno stato di ansia delle proporzioni di uno tsunami di marshmallow fuso. E' un obbligo. Non c'è scelta. Pena la morte per ustione. E' una costrizione a cui non si può sfuggire, che non si può nascondere, che condiziona la vita e che espone continuamente allo sguardo delle altre persone. Uno sguardo che, tra l'altro, difficilmente è comprensivo. E poi, aggiungiamo danno al danno: hai scelto un disturbo che colpisce soprattutto bambini e adolescenti? Ma bravo! Questo sì che ti rende un eroe! Qualcuno dica alla Marvel di inserirlo subito nel team degli Avengers! Ma a cosa pensavi? Perché non mi dire che credevi davvero che le persone affette da questo disturbo avrebbero gradito la tua improvvisata! Credevi forse che si sarebbero sentite importanti perché nominati nel tuo film? E soprattutto, sei così ingenuo da credere che la gente che invece non ha questo disturbo si sarebbe intenerita o avrebbe sfruttato il film per riflettere su questa patologia? O forse, non so, dico per dire, avrebbe fatto la più evidente e indotta associazione "tizia che si strappa i capelli = pazza furiosa da internare e buttare la chiave"? Perché ricordiamolo, hai descritto Marina come una squilibrata aspirante strega che, dopo essere stata rifiutata dalla protagonista appena conosciuta, ha pensato bene di suicidarsi davanti ad uno specchio nero per poi, da morta, indurre al suicidio tutti i suoi amici. Ma a questo punto, perché fermarci qui? Perché non fare un film in cui i malvagi aiutanti di Satana sono nani, focomelici o gemelli siamesi? Ah, no, scusa, quelli erano i freak shows! Ed è immorale e di pessimo gusto proporre un horror popolato da persone normali la cui unica colpa, se tale la vogliamo chiamare, è quella di essere portatrice di alterazioni genetiche, giusto? Potrebbe far venire strane idee razziste alla gente, vero? Va beh, ma chi ha bisogno di persone con patologie fisiche se abbiamo questo campionario umano di disagiati mentali da infilare in modo pretestuoso in film d'intrattenimento? E allora spazio alla sindrome di Tourette, alla coprolalia, alla psicosi, alla sindrome di Fregoli e a quella di Cotard e non dimentichiamoci l'autolesionismo, che fa sempre scena! E poi l'anoressia nervosa, la schizofrenia e perché no, anche l'autismo! 
Guarda, se vuoi ti do il permesso di metterci anche l'ansia sociale! In fondo la nostra è una vita che va già così alla grande, avremmo giusto bisogno dei nostri quindici minuti di notorietà. Sai, per brillare! Quindi, fammi un favore, se non sai gestire tematiche di tale portata, come invece altri tuoi colleghi sanno fare, rinuncia, rinuncia e focalizzati sulle bestie demoniache, fai qualcosa di tradizionale, come The Conjuring, resta nel classico che fa sempre la sua porca figura e non fa danni, se non qualche notte insonne. Basta con questa leggerezza nell'inserire situazioni di dolore psichico come pretesti fini a se stessi per fare drizzare i peli delle braccia, basta con questa superficialità da ragazzini delle medie che non fanno altro che inacidire stupidi pregiudizi sociali! Un po' di coscienza, santo cielo! O almeno, un po' di logica! Che senso potrà mai avere, infatti, associare un disturbo mentale ad una realtà che è così irrealistica da essere definita PARAnormale e SOPRAnnaturale? Non solo si ridicolizza la patologia mentale, la si appiattisce e la si da' in pasto alla pubblica gogna, ma la si associa a situazioni scientificamente inspiegabili come fantasmi, oggetti che volano, presenze demoniache e possessioni! La si rende doppiamente pericolosa perché non solo è folle, non solo danneggia l'altro, ma viene presentata come una cosa di cui avere paura perché incontrollabile e inconoscibile, esattamente l'opposto di ciò che si dovrebbe fare! Si alimenta la sensazione di non sapere e si favorisce la regressione allo stesso pensiero medievale che ha prodotto fenomeni come l'apartheid, il razzismo e, appunto i freak shows! Quindi per favore, tu e tutti quelli che come te vogliono fare soldi, li facciano pure, ma non a discapito di chi davvero soffre. A meno che, certo, tu non voglia davvero entrare a far parte di quel campionario di mostri che popolano i film dell'orrore. Chissà, magari ne verrebbe fuori un bel lungometraggio.
Cordiali saluti,

Duille

sabato 13 agosto 2016

Il paradosso del libro-pillola: la ragazza interrotta

Esistono tanti tipi di libri: esistono i libri-cuscino, ad esempio, che coccolano quando se ne ha più bisogno, o i libri-cerino, che infiammano per una notte per poi essere dimenticati in fretta. E poi ci sono i libri-rivelazione, delle sorta di visioni che ti appaiono per caso, mentre guardi un film o mentre scorri le dita lungo lo scaffale in libreria. 
Sono libri che sembrano arrivare al momento giusto e, come sassi che cadono in un lago calmo, producono movimenti concentrici sempre più grandi e inarrestabili. La ragazza interrotta, di Susanna Kaysen, per me è stato un libro-rivelazione. Parlare di questo minuscolo volumetto di appena 160 pagine non è impresa facile perché si tratta di un libro molto particolare, all'apparenza disorganizzato, confuso, fissato in un tempo passato a cui stanno già sbiadendo i contorni. Diciamo innanzitutto che La ragazza interrotta è un libro che si sottrae: si sottrae alla definizione di genere, alle valutazioni stilistiche, si sottrae addirittura al classico confronto libro/film. Ma va oltre in questo processo di sottrazione, perché rinuncia anche al concetto di tempo e spazio, di logica e di sequenzialità. Non è una testimonianza, perché non si rivolge ad un pubblico; non è una biografia, perché di fatto non racconta una vita; non è un romanzo, perché non ha una storia; non è una denuncia, perché non ha una posizione univoca. E allora che cos'è? E' una sequenza di pensieri, un tuffo nella mente di Susanna che copre i due anni, dal 1967, in cui è stata internata in un ospedale psichiatrico dopo il suo tentato suicidio. E' uno stream of consciousness dilazionato nel tempo o forse un tentativo di dare ordine là dove questo mancava. Per capire questo libro dovete immaginarlo come un vecchio album di fotografie trovato per caso in soffitta, in cui le diapositive si susseguono sospese, senza contesto, e sta a noi ricostruire una storia a partire dai dettagli dei sorrisi, dello sfondo o delle acconciature. Questo libro è quindi un'istantanea di pensieri fissata sulla carta, o forse è come guardare dal buco di una serratura. Alcuni dicono addirittura che sia come sbirciare tra le pagine di un diario segreto. Comunque lo vogliate considerare, va letto accettando di perdere tutto, ogni confine ed ogni orientamento, accogliendo il disordine, i salti temporali, l'annullamento del senso di prima e dopo, accettando che i morti resuscitino e poi muoiano per poi resuscitare di nuovo e morire un istante dopo. Questo disordine si rivela un punto di forza del libro, perché costringe a fare attenzione alle parole, e non al flusso del discorso generale, che di fatto non esiste. In questo senso La ragazza interrotta è un libro-pillola, da leggere piano, da mandar giù aspettando che faccia effetto.
Infatti si tratta di un libro che induce la riflessione per il semplice fatto che esso è costruito su domande e risposte parziali, è la ricerca di un senso che non riesce ad essere mai universale, ma che resta drammaticamente declinato al singolare, lasciandoci soli con quelle stesse domande, alla ricerca della nostra, di risposta: qual è il confine tra sanità e pazzia? Chi è folle e chi solo ribelle, anticonformista o in anticipo con i tempi? Chi lo decide? La società? Un manuale-bibbia? E comunque, cos'è la follia? E' un disagio? O è uno scudo che, come una fodera di pelle bruciata e ormai rimarginata, non possiamo più togliere? E' la porta verso l'universo parallelo o la via per la libertà? Queste sono le domande che Susanna si pone e a cui cerca di rispondere usando un linguaggio franco e onesto, per niente letterario, ma nudo, diretto, a momenti brutale, un linguaggio libero, concesso, non a caso, solo ai pazzi. E' in questo modo che si può invidiare la determinazione di un tentato suicidio o vedere una realtà troppo densa nei motivi geometrici di una mattonella. Ma soprattutto, è in questo modo che si rivela la verità ultima dell'essere umano, il vero tabù della nostra società: l'ambivalenza. E' l'ambivalenza che rende la pazzia limite e vantaggio e che trasforma l'ospedale in una prigione che protegge dal mondo e da cui non si vuole uscire, come quando ci si trova sotto una coperta troppo calda ma che sappiamo essere la nostra unica difesa contro i mostri. Uno stile semplice, quindi, introspettivo fino agli estremi, in cui non c'è spazio per la relazione e in cui il lettore è intruso accolto a braccia aperte ma a cui non è concessa alcuna spiegazione. I temi poi, sono appena abbozzati, ma si susseguono a velocità vorticose, senza mai esaurirsi, come se in ognuno di loro infilassimo un dito per saggiarne il calore, per poi fuggire via, distratti dal prossimo fotogramma. In conclusione non si può giudicare questo libro come se fosse un libro, perché non è nulla eppure è tutto, non spiega niente ma è denso come maionese: è un paradosso. E' la somma di migliaia di parole che però non fanno una storia. E' un insieme di risposte che non esauriscono la domanda. E' un gruppo di cellule nervose che però non fanno una mente. E' il mistero della vita. E' la domanda ultima.

Duille

"La paziente è (indicare con una crocetta):
1. Impegnata in un viaggio rischioso dal quale potremo imparare molto al suo ritorno
2. Posseduta da (indicare con una crocetta):
    a) divinità
    b) Dio (vale a dire un profeta)
    c) spiriti maligni, demoni, diavoli
    d) il Diavolo
3. una strega
4. stregata (variante del 2)
5. violenta, da isolare e punire
6. malata, da isolare e curare mediante (indicare con uan crocetta):
   a) purghe e salassi
   b) ablazioni dell'utero, se ne è provvista
   c) elettroshock
   d) fasciatura stretta del corpo con lenzuola gelate
   e) Thorazine o Stelazine
7. Malata, e deve passare i prossimi sette anni a parlarne
8. Vittima dell'intolleranza sociale verso comportamenti devianti
9. Sana di mente in un mondo di pazzi
10. Impegnata in un viaggio pieno di pericoli, dal quale potrebbe non fare ritorno. "
                                                                                                              La ragazza interrotta, pp.12-13)

sabato 30 luglio 2016

Amplificati

Qualche giorno fa mi sono ritrovata a guardare, per la milionesima volta, Ragazze Interrotte, un film del 1999 tratto dall'omonimo romanzo autobiografico di Susanna Kaysen. Non so perché mi piaccia tanto, ma spesso mi ritrovo a guardarlo. In effetti ci sono film che, senza un apparente motivo, ti si attaccano addosso come i piumini dei pioppi in primavera, inducendoti a cercarli in diversi momenti della vita. Bruno Bettelheim diceva, riferendosi alle fiabe, che ciò dipendeva dal fatto che queste sono portatrici di una verità, rispondono cioè a delle implicite domande di vitale importanza in quel dato momento. Quindi mi sono ritrovata a pensare che forse anche i film, come le serie tv o i romanzi, svolgano la stessa funzione negli adulti. Sussurrano cose, ci raccontano qualcosa di noi e le continuano a dire fino a quando siamo pronti ad udirle e lasciarle entrare. Io ho sentito qualcosa di nuovo riguardando ancora, per la milionesima volta appunto, questo film degli anni '90. E quello che mi ha detto è concentrato in un'unica, bellissima frase pronunciata dalla protagonista, Susanna, alla fine di questo viaggio di caduta negli inferi e di rinascita:

"Essere pazzi non vuol dire essere spezzati, o inghiottire un oscuro

segreto. Sono io, sei tu, amplificati."

Amplificati. La verità in una parola piccola come una noce, di sole cinque sillabe. Una parola che si irradia, che sconfina dalla curvatura delle sue lettere, che sembra proiettare fibre di luce, come dita lunghissime, verso luoghi sempre più lontani dal punto di partenza. Io mi sento amplificata in effetti, almeno quanto mi sento matta, soprattutto quando la paura mi paralizza senza motivo, di fronte ad un viso, ad una scelta o ad un'opportunità. 
E Susanna ha ragione, perché neanche io mi sento spezzata, difettosa, mancante o, peggio, rotta. Mi sento troppo. Mi sento amplificata. Una verità che, tra l'altro, avevo già sentito, anche se in un'altra veste. In psicologia statistica, infatti, la chiamano deviazione dalla norma, ovvero quando, su un bel grafico, la freccetta della nostra anima sfreccia verso l'alto o verso il basso, fuori dall'andamento standard. L'unico problema di questa verità scientifica è che ha sempre puzzato insopportabilmente di naftalina. E' asettica, fredda, sa di cloroformio. E' fin troppo pulita per parlare di qualcosa che dovrebbe essere terroso, sanguigno, pulsante. Mi sembra che ci riduca a quegli animali dentro i vasetti di alcool che si vedono nei musei di scienze naturali. Preferisco di gran lunga questa visione poetica della realtà, più sanguigna, ma anche aperta in più direzioni, come la parola da cui tutto ha avuto inizio. Siamo amplificati dunque. Sentiamo troppo e troppo di qualcosa soltanto. Troppa paura. Troppo dolore. Troppa rabbia. Troppo vuoto. Troppo nulla. Perché, anche quando si sente poco, in realtà si continua a sentire troppo, solo che si sente troppo niente. Se ci si pensa bene, siamo come dei supereroi al rovescio. La super forza di Jessica Jones, il super udito di Daredevil, la super velocità di Flash, la super elasticità di Mr. Fantastic, sono amplificazioni di abilità umane che già possediamo. Noi, invece, siamo amplificati in negativo, finendo con l'essere autodistruttivi, Meduse allo specchio, villain ed eroi di una storia drammaticamente tragicomica. Ma in fondo, in questa amplificazione non c'è anche qualcosa di maledettamente romantico? Questo nostro allungarci fino a sentire le note più acute sulle corde del violino, quelle che spaccano i vetri e che fanno abbaiare i cani, e le note più basse, che sembrano provenire dalle profondità della terra, questo sentire estremo non è in fondo dolorosamente struggente? Possiamo considerarlo solo un abbraccio mortale, un difetto, una deviazione dalla norma?
O dal fondo dell'abisso in cui ci troviamo possiamo imparare qualcosa? Imparare a sentire le gocce d'acqua sulla lingua quando piove, per esempio, ad ascoltare lo scricchiolio delle pietre intorno a noi o a godere della morbidezza della terra umida sotto le dita dei piedi. L'amplificazione si può addestrare come un drago, o un meta-lupo? Possiamo imparare ad amplificarci in ogni direzione, a toccare con la punta delle dita tutte le corde di quel violino? Possiamo espanderci come la parola, lanciando rami di luce oltre i confini della nostra pelle, diventando più di un corpo paralizzato? Riusciremmo ad imparare dal "troppo", trasformando il troppo dolore in troppa gioia, il troppo strazio in troppo amore e il troppo vuoto in troppa contemplazione? O ancora meglio, potremmo sostituire quel troppo con il tanto? Forse è questo il primo passo per scalare l'abisso: ascoltarlo, guardarlo in faccia e lasciarsi guardare da lui, come direbbe Nietzsche, lasciarsi osservare ma, per la prima volta, non distogliere lo sguardo e rubarne i segreti così come lui ci ruba il tempo e l'anima. Amplificarci, quindi, aprirci come stelle marine, come boccioli di margherite, per piangere fino ad arrossarci gli occhi e ridere fino alle lacrime, per sentire il cuore spezzettarsi come pane secco e cogliere la frizzantezza dei polpastrelli solleticati dal vento, fuori dal finestrino di una macchina in corsa. Se proprio dobbiamo essere amplificati, impariamo a sentire tutto, per essere finalmente pieni di molte cose, e non di una sola che non vorremmo. E allora, forse, non sarà più l'abisso ad inghiottirci, ma saremo noi a guardarlo, dall'orlo di una caduta che non ci spaventa più così tanto. Forse allora, ci accorgeremo di aver domato l'abisso e di essere ancora meravigliosamente amplificati.
Duille  


domenica 24 luglio 2016

Quando il prelievo del sangue si rivela l'armadio di Narnia...

Dicono che la città di notte sia un mondo a parte, fatto di ombre e colori sgargianti, di evasione dalla quotidianità e tuffi nel dolore concentrati nell'alcolico fondo di una bottiglia. Scrittori e poeti ne hanno parlato, affascinati dall'alone decadente e romantico di quella coperta stellata capace di avvolgere tutto in un'ovatta fredda e anestetica.
Nessuno ha però mai parlato del mondo dell'alba e, vi assicuro, quello è un mondo a cui varrebbe sicuramente la pena dare un'occhiata. Non mi riferisco al mondo dei postumi della notte, quello delle walks of shame con i tacchi in mano o dei barcollamenti fino a casa con l'alito che puzza ancora di alcol. Mi riferisco al mondo che all'alba esce di casa dopo un lungo pisolo ristoratore, quel mondo che la pazza vita notturna non sa neanche che faccia abbia. Casualmente, qualche settimana fa mi sono ritrovata catapultata proprio in quel mondo brinoso da disgelo mattutino. L'occasione era il classico esame del sangue, quello che solitamente esige l'abbandono della branda in orari che dovrebbero essere resi illegali e il trascinamento fino al più vicino ospedale senza avere potuto addentare neanche l'aroma di una brioches. Un esempio civile di tortura autoinflitta, insomma. Nel tragitto da casa mia all'ambulatorio ho potuto assistere al risveglio del mondo intorno a me, scoprendo che ci sono un milione di cose che non vengono raccontate da quei pochi pazzi che si sono ritrovati a ramingare senza meta nei primi raggi di sole. Tutti parlano della brina sulle foglie, del risveglio delle margheritine nei prati, del sole che scalda la terra con i suoi timidi baci, ma nessuno parla degli stormi di piccioni che fanno feng shui aerei con la coordinazione di una squadra di nuoto sincronizzato misto alla lenta serenità degli anziani giapponesi, che sembrano avere nei loro pugnetti rugosi il segreto dell'eternità.  Nessuno parla dei folli (perché sono folli) esseri umani che alle sei del mattino fanno jogging in rigorosa tenuta sportiva in tinta e con la determinazione di un atleta olimpionico negli occhi. E nessuno, ma proprio nessuno, parla della caratteristica fauna ultracentenaria che si può incontrare all'arrivo all'ambulatorio. Perché svegliarsi all'alba quando si ha 28 anni è uno sforzo indicibile che comporta bestemmie cellulari così colorite da far vergognare anche un pirata ubriaco, ma apparentemente questa è una realtà che cessa di avere i tratti della violenza non appena le nevi perenni raggiungono i capelli dell'individuo. In effetti, quando sono arrivata alle porte dell'ambulatorio non ancora aperto (le più dolorose 7.10 della mia vita), c'era già una fila di anziani delle più diverse altezze, consistenze e morbidezze, variamente accessoriati ma tutti accomunati dallo stesso inspiegabile silenzio del meditatore e tutti apparentemente convinti che impalarsi davanti alla porta d'ingresso potesse avere qualche sciamanica capacità di accelerasse il tempo. Sembravano un piccolo esercito di terracotta cinese, perfettamente immobili nella loro armatura di camicie, apparecchi acustici, bastoni e deambulatori. Tra loro e i pinguini imperatori la differenza era minima, giusto una quota di diffidenza che li teneva ad una reciproca distanza di sicurezza...o magari temevano che, stando troppo vicini, avrebbero fatto la fine dei birilli dopo il contatto con la palla da bowling.
La cosa più strana era il contrasto tra quella marmorea immobilità da bradipo e la frizzante tensione che si sentiva nell'aria. Quelle persone attendevano l'apertura delle porte con la stessa eccitazione della sposa squattrinata davanti alla svendita nell'atelier di lusso. E io, confusa, osservavo quella elettricità calma con la sensazione di essermi persa qualche dettaglio di vitale importanza. Perché erano tutti così ansiosi di farsi bucherellare un braccio? Era noia? Erano i postumi di una notte insonne? O forse questa era la versione vetusta dello sport estremo? Le domande si affollavano nella mia mente e la situazione delle mie interrogazioni è decisamente peggiorata quando le porte sono state effettivamente aperte, venti minuti dopo. I letargici vecchini che avevano messo radici davanti alla porta come degli Ent, di colpo avevano recuperato le energie di giovani puledri e si erano gettati nell'atrio con un'ansia da saldi in un centro commerciale americano. Gente che fino a trenta secondi prima sembrava potesse inciampare nelle proprie gambe, di colpo era diventata un maratoneta che si lanciava a grosse falcate verso le scale o verso l'ascensore. Da nonno a Jess Owens in un secondo e mezzo. Come non sia esploso il cuore a tutti ha del miracoloso! Davanti a me c'erano vecchini che abbandonavano i deambulatori per lanciarsi in staffette da centometrista, altri che, togliendosi l'ossigeno con un atteggiamento da Bruce Willis in Die Hard, zompavano verso l'ascensore come canguri australiani, ho addirittura visto un anziano che saliva le scale a due a due, cosa che nemmeno io sarei riuscita a fare senza rischiare l'ammutinamento di un polmone. E tutto questo A STOMACO VUOTO! Iniziavo a sospettare che nel mezzo ci fosse qualche accordo con il diavolo, che in realtà quelli fossero cyborg travestiti da anziani o che al terzo piano, dove si trovava la stanza dei prelievi, ci fosse qualche premio che valeva assolutamente la pena ottenere. Magari ai primi cento prelievi veniva omaggiata una brioches alla crema o una scatola di lassativi (si sa, i vecchietti sono molto attenti alle loro esigenze intestinali). In ogni caso, quando sono arrivata al piano per fare l'accettazione, c'era un'aria da solotto borghese mista a catena di montaggio. Mentre gli anziani, in una forma smagliante e senza neanche un po' di fiatone, chiacchieravano amabilmente aspettando il proprio turno per il piercing ematico, dalle porte dell'ambulatorio uscivano a nastro altri anziani già bucherellati e con il loro cotoncino applicato come una medaglia al valore al braccio torturato dall'ago ipodermico. Era magia quella a cui assistevo? Il prelievo del sangue era la versione italiana e molto meno poetica dell'armadio di Narnia? Ero finita in qualche mondo parallelo? In un quadro di Dalì? In un libro di Benni? In una versione geriatrica di I love shopping? E' tuttora un mistero per me, ma di certo adesso posso affermare con cognizione di causa e con orgoglio da Guerra dei Mondi di aver visto cose che voi umani non potete neanche immaginare.
Duille    

sabato 16 luglio 2016

Conigli e coccodrilli in tangenziale

Ci sono dettagli nell'essere ansiosa sociale che a volte mi fanno sentire un personaggio uscito da un libro di Lewis Carroll. Uno di questi dettagli è il mio rapporto con il tempo. Non posso garantire che questa sia una caratteristica comune a tutti gli ansiosi sociali perché, come si potrà facilmente intuire, non siamo esattamente persone dalla favella facile e ciò rende il confrontarsi arduo quanto scalare l'Everest con i lacci delle scarpe annodati insieme. Quello di cui vi parlerò, quindi, è il mio personalissimo rapporto con il tempo, un rapporto che definire complicato è riduttivo. Io e il tempo infatti ci siamo stati antipatici fin dall'inizio, forse c'era qualcosa a pelle che non funzionava, non saprei. Il fatto è che dal fatidico momento in cui ci siamo messi gli occhi addosso, è stato subito odio, e da allora ho passato la vita a correre dietro al tempo, ad arrivare in ritardo, a mancarlo sempre per un pelo, neanche fossi il bambino della pubblicità della cremeria che non trova mai Gigi a casa. 
In poco tempo sono diventata il Bianconiglio di Carroll che passa le giornate a correre dietro ad appuntamenti urlando "è tardi, è tardi assai, io son già in mezzo ai guai" e dopo tanti anni sono giunta alla conclusione che il problema, nel mio caso, sia di duplice natura: da un lato c'è la mia tendenza costitutiva alla lentezza, la mia pelosa anima da bradipo, il mio orologio biologico sempre impostato su slow-motion (non so se per un desiderio di epicità o se per perdita del telecomando). Dall'altro lato c'è l'ansia sociale, che mi paralizza grazie a corpose iniezioni di paura, facendomi diventare ancora più Bianconiglio di quanto non vorrei, ma di quelli  veri, che ti si piazzano davanti alla macchina in movimento, con l'occhio sbarrato dal terrore mentre tu li insulti in aramaico dicendo loro di muoversi, di scostarsi, stupida bestia, non vedi che ti sto lasciando passare? Dai, che ho dietro il camionista che mi sta già clacsonando! Spostati, santo Cielo, MUOVI QUELLE CHIAPPE PELOSE! E davanti, niente,  lo stesso occhio sbarrato e, suppongo, un principio d'infarto in atto. Ecco. Io sono quel genere di roditore. La bestia che sta per essere investita e che, nonostante questo, non riesce proprio a muoversi. Il risultato è la continua sensazione di muovermi nell'acqua, così lenta da produrre la promozione di compassionevoli campagne per la mia soppressione terapeutica, o di essere sempre in un fuso orario diverso rispetto agli altri. Ciò significa che mentre tutti pranzano io sto ancora facendo colazione, mentre gli altri partecipano a rave party vestiti di colori fluo che si illuminano alla luce UV, io sono ancora in pigiama a scegliere cosa indossare, e quando gli altri sono sposati e con figli, io sono appena arrivata alla festa. Non è solo una questione di tempi fisici, ma anche biologici. La paura di fare, di osare, di buttarmi nel flusso, mi rallenta al punto da farmi perdere un'intera era evolutiva, da sfasarmi tutte le tappe della crescita, per cui finisco con il sentirmi pronta a partecipare al ballo studentesco quando ormai la palestra è vuota, i coriandoli simulano la geografia planetaria sul pavimento e i palloncini interpretano per immagini ciò che probabilmente accadrà alla prossima rimpatriata scolastica. Il punto è che perdo tempo, o meglio, spreco tempo prezioso nel combattere con me stessa per muovere quelle dannate gambe paralizzate dal terrore, per poi ripetere tutto al passo successivo e a quello dopo ancora. Ai piedi l'ansia mi mette dei bei blocchi di cemento ed io non sono esattamente The Rock in quanto a forza e non sono Michael J. Fox in quanto a determinazione. Il mio riflettere, convincermi, litigare con me stessa, per poi rinunciare perché la stanchezza prende il sopravvento mi fa perdere occasioni che vorrei agguantare a mani tese. 
Il problema diventa sempre lo stesso: vorrei farlo, ma non ce la faccio. E mentre io non ce la faccio e mi fermo a pensare, a struggermi, a domandarmi, a sgridarmi, compiangermi, annegare in fazzoletti e pigiami di pile di due taglie più grandi (mbeh? Quando soffro, amo stare comoda), il tempo continua la sua corsa, sfuggendomi dalle mani come un mucchietto di sabbia raccolta sulla spiaggia. E la cosa peggiore è che il tempo va così veloce che ad un certo punto me lo ritrovo di nuovo alle spalle, dopo essere passato già due volte dal via che io ho appena lasciato, e mi incalza con un particolarissimo suono, spaventoso quanto il jingle che accompagna Jason o che annuncia la comparsata della tripla fila di denti dello Squalo: il ticchettio dell'orologio. E' in quel momento che scopro perché io e il tempo siamo costitutivamente in rotta. Lui è il coccodrillo di Peter Pan, quello che ha ingoiato orologio e mano di Capitan Uncino ed io, ricordo, sono ancora quel coniglio bianco nel mezzo della tangenziale con gli occhi sbarrati dal terrore. Siamo biologicamente incompatibili, cacciatore e preda che, come ci insegna Red e Toby, non potranno mai essere amici fino in fondo. Lui è destinato a mangiarmi ed io ad essere digerita nel suo stomaco giurassico. La mia reazione a quel ticchettio in effetti riflette questa consapevolezza biologica, avvicinandosi drammaticamente a quella di Capitan Uncino: baffi che si muovono a tempo di orologio, zompi dal letto nel cuore della notte indossando imbarazzanti camicie di flanella, pupilla dilatata che interpreta gli effetti dell'LSD e la consapevolezza che la fine è vicina, che l'inverno sta arrivando, che siamo alla frutta, che è arrivato il momento di fare testamento, insomma. E se Capitan Uncino sentiva l'acquolina del coccodrillo colargli lungo la schiena, io sento avvicinarsi i titoli di coda del mio film personale senza che abbia neanche avuto il tempo di leggere la prima battuta della sceneggiatura. Il che produce un incremento dell'effetto tangenziale. Solo, con più tachicardia. 
Alla fine quindi il mio rapporto con il tempo si riduce a questo: un coccodrillo e un coniglio che corrono una maratona ferma in tangenziale davanti ad una macchina con i fari accesi. Praticamente l'inizio di una barzelletta! 

Duille


domenica 10 luglio 2016

Telefilm addicted #10 - Orange is The New Black: il mondo in una stanza

Le serie tv sono come dei lunghi libri visivi che invece di svilupparsi in kilometri di pagine, si dischiudono lungo il tempo, avvolgendosi in mantelli di minuti. E come i libri, le serie tv, figlie di un Dio cinematografico minore, sono creature che si prendono il tempo di raccontare una storia in tutte le sue parti, senza correre, perché loro non hanno una vita di 120 minuti, ma di 10, 12 ore. Più che farfalle, sono gatti selvatici. E' forse per questo che le amo così tanto. E come i libri, le serie tv hanno un grande potere, quello di dire Qualcosa, e sì, qualcosa con la lettera maiuscola, che fuor di simbolo significa mandare un messaggio che non passi troppo per il cervello ma arrivi dritto allo stomaco, come una freccia scagliata direttamente nella cornea.
Un esempio mirabile è Orange is the New Black, una serie che ha fatto scalpore per essere un pout-pourrì di questioni sociali, politiche ed esistenziali da far girare la testa. Tratto dall'omonimo (e molto più insipido) libro di Piper Kerman, Orange is The New Black è quella che viene definita una serie corale, ovvero una serie a più voci, in cui non c'è un vero protagonista che traina la storia, ma piuttosto un personaggio/chaperon che ci introduce nella vicenda, diventandone poi parte integrante. E in Orange is The New Black di personaggi ce ne sono tanti, tanti quanti sono le etnie rinchiuse all'interno della prigione femminile di Litchfield, sezione di Minima Sicurezza. Una serie corale, quindi, e quasi interamente al femminile, in cui le donne vengono rappresentate nella loro interezza e complessità. Non c'è nessun appiattimento dei personaggi in facili stereotipi di genere, ma un attento studio del background culturale, etnico e individuale di ogni detenuta, che emerge prepotentemente nella sua psicologia e ne giustifica le azioni. Ne emerge quindi un'esaltazione del femminile in cui non trova spazio il modello iperfemminista moderno, ma che punta a dipingere un'immagine vera e differenziata della donna, che tenga conto delle radici individuali di ogni personaggio. Questo è un elemento che amplifica il divario tra la prigione e le sue detenute.
Laddove infatti la prigione tende a differenziare in modo grossolano le sue "ospiti", accalcandole per etnia, la serie mostra una realtà ben diversa, fatta di storie, di personalità definite e sensibilità uniche. Così ad esempio nel ghetto, sede delle detenute di colore, troviamo Poussey, che parla tre lingue ed è figlia di un rigido soldato americano, mentre nella sezione delle caucasiche convivono americane, russe, hawaiane e cinesi provenienti dalle più diverse estrazioni socio-economiche, comprese famiglie altolocate come quella di Piper. Come dire, l'abito non fa il monaco. Un altro elemento fortemente presente nella serie, e che all'epoca dell'uscita suscitò grande scalpore, è la presenza di temi legati al mondo LGBT, anche in questo caso mai polarizzato verso estremismi irrealistici. L'amore lesbico è descritto con grande onestà e sensibilità, considerandone i diversi aspetti e le sue più variegate sfumature: l'amore tra donne esplode per un bisogno di calore umano, per combattere la solitudine, per svago, ma anche per scelta, per affinità, per amore insomma. E come il rapporto tra donne è affrontato seriamente, allo stesso modo vengono descritte le donne lesbiche: mi ha particolarmente colpita la cura con cui hanno descritto le lesbiche più mascoline, che non sono ridotte a macchiette di uomini pettoruti e non ricalcano i modelli maschili, come troppo spesso siamo stati abituati a vedere, ma che piuttosto esprimono la libertà di essere loro stesse in quanto donne.
E' un po' questa la chiave di lettura con cui Orange is The New Black analizza la dimensione femminile, ovvero quella di considerare il femminile come una questione mentale più che fisica, rendendo in questo modo ovvio tanto il delicato e frivolo temperamento di Lorna, come la grezza femminilità di Boo o l'incredibile eleganza di Sophia, transgender in continua lotta per il riconoscimento della sua identità. Orange is The New Black si rivela quindi un vero manifesto del mondo femminile, che non si lascia ammaliare da facili rappresentazioni della donna e che invece ne sottolinea ogni piega, compreso lo straordinario potere dell'amicizia e della solidarietà, capace di superare ogni differenza ideologica. Accanto a questo tema, se ne sviluppa uno parallelo, che trova massima espressione soprattutto durante la quarta stagione, ovvero quello del carcere e del potere nel carcere. Come ci insegna il celebre esperimento di Zimbardo (vedi qui), l'estremizzazione dei poteri, senza alcun controllo, porta inevitabilmente ad una deumanizzazione collettiva, in cui le guardie diventano sadici dei a cui tutto è concesso e le detenute schiave costrette a sottostare in silenzio ad ogni forma di vessazione, consapevoli dell'assenza di ogni loro libertà umana. Se nelle prime due stagione questa deumanizzazione si esprimeva soprattutto nell'annullamento delle libertà personali e della privacy, con perquisizioni corporali costanti, spesso ad opera di uomini, molestie verbali, sfruttamento lavorativo delle detenute e insopportabili giorni in cella di isolamento, nella quarta stagione la situazione precipita in modo vistoso, complice anche l'acquisizione del carcere da parte di una compagnia privata che considera la struttura come un qualsiasi altro investimento di cui massimizzare i benefici. Questo produce scelte superficiali che non considerano gli interessi delle detenute e che rende la prigione solo un luogo in cui sopravvivere, annullandone quindi lo scopo rieducativo e rendendone tutti i frequentatori meno di animali. Quello a cui assistiamo è la caduta di ogni valore positivo della detenzione, l'evaporazione delle regole civili e della sensibilità così tanto acclamatamente attribuita all'essere umano.
Le guardie si rivelano aguzzini senza cuore, che torturano in vari modi le carcerate, e spesso si sentirà la parola Guantanamo, come a sottolineare con più enfasi la direzione della denuncia verso cui la serie protende. Tutto ciò pone lo spettatore di fronte alla domanda delle domande: qual'è lo scopo del carcere? E' solo una scatola in cui chiudere persone che hanno commesso un delitto oppure è un'opportunità per creare, in un ambiente protetto, un cittadino migliore laddove la società non è stata in grado di farlo? E chi è il buono in questa storia di continui ribaltamenti, in cui chi dovrebbe rappresentare la legge finisce coll'abusare così selvaggiamente del suo potere dimenticando le stesse regole di cui dovrebbe farsi propulsore? E se ancora non bastasse, qual'è il ruolo dell'istituzione di fronte al disagio psichico? E' quello di abbandonare a se stesso il detenuto disturbato, nella speranza di trovare qualcuno, come nel caso di Suzanne, che lo accolga e lo protegga da sè, dagli altri e dall'istituzione stessa, per poi chiuderlo nella sezione psichiatrica, fantasma dal sapore di incubo, quando la situazione sfugge al controllo? Guardando la storia dall'interno, dal punto di vista delle carcerate, Orange is The New Black annulla la distanza tra lo spettatore e il carcerato, costringe ad entrare in contatto emotivo con loro ponendolo di fronte ad un vero dilemma morale, che poco ha da spartire con quei giudizi morali dati dalle persone comuni nei bar, lontani dalla trincea, o sedute nelle poltrone della MCC, la ditta acquisitrice del carcere. La serie non si risparmia quindi, proponendo tanti temi di grande spessore e mettendo le mani in pasta con consapevolezza e cura, al fine di smuovere le coscienze e fare ciò che una serie dovrebbe far fare: riflettere.
Duille

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Eccomi! Sono una scrittrice in erba, divoratrice di libri, sognatrice professionista e ansiosa sociale multicorazzata. Ho la fissa dei ricordi, la testa fin troppo tra le nuvole, interessi disordinati, un amore impossibile per gli alberi e una passione al limite del ridicolo per le serie tv. Ah, e le presentazioni non sono proprio il mio forte. Si vede?

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