sabato 21 marzo 2015

Imbruttirsi fa bene all'anima

Quando si inizia un percorso terapeutico di solito ci si aspettano grandi stravolgimenti e grandi battaglie intestine. Ci si aspetta anche la propria quota di dolore e fatica, perché nessun cambiamento arriva senza il proverbiale accompagnamento di sudore, sangue e lacrime. Ma nessuno ti prepara veramente alle carrettate di sassi che ti piomberanno addosso durante le sedute. 


C'è un motivo per cui le persone si rifiutano di andare in terapia e non è solo per il timore di essere pazze. Una parte di noi, molto profonda, molto inconscia e molto saggia sa già che ci sarà da sudare decisamente più delle note sette camicie. Il trattamento terapeutico è paragonabile al viaggio di Ulisse per i mari del mediterraneo e sappiamo tutti che il nostro coraggioso eroe è partito carico di navi, cibarie e uomini ed è tornato solo, magro come uno stuzzicadenti e vestito all'ultima moda clochard. Io sono in terapia ormai da sei anni e ho visto rotolarmi addosso di tutto: balle di fieno, sacchetti di ghiaia, mucche da cento chili, cemento a presa rapida e a volte l'intera cordigliera delle Ande venuta in trasferta appositamente per me. Il risultato non è mai piacevole. Quando esco da sedute particolarmente pesanti, di solito sono una specie di fontana umana che ha sfruttato ogni poro del proprio corpo per espellere le lacrime: naso, occhi, ascelle (perché, sì, diciamocela questa sconvolgente verità: si può anche sudare freddo in questi casi), ogni pertugio è buono per spurgare dolore e il mio corpo sembra non avere interesse a mantenere quel minimo di dignità che mi serve per arrivare alla macchina o a casa. Preferisce esprimersi in tempo reale, lasciando a me il compito di camuffare il più possibile nasi gocciolanti, occhi arrossati, sguardo sconvolto e guance infiammate. Come sapere se ci si trova vicino allo studio di uno psicologo? Basta osservare le persone che bazzicano la zona. Se ne troverete parecchi che sembrano aver appena visto Hachico, allora avrete fatto bingo! Ma una volta usciti dalla propria infernale sessione di rimestamento emotivo, cosa succede? Come risollevarsi dopo la doppia pizza che ci ha cambiato i connotati del viso? Io, che ormai sono un'esperta, ho sviluppato un mio rituale personale, che mi aiuta molto in questi casi. Quando sono proprio uno straccio, neanche buono per pulire i pavimenti di un bagno pubblico, l'unica cosa da fare è assecondare il mio corpo. Lui si sta imbruttendo? Ed io mi imbruttirò di più. Mi concedo un attimo di autocontrollo fino all'arrivo all'auto, giusto per non spaventare i passanti e inizio il mio processo di abbruttimento. 

Prima tappa: IL SUPERMERCATO

Le teorie cinematografiche che sostengono che per recuperare da una brutta delusione o da un grande dolore emotivo si debba mangiare come se ci si volesse poi iscrivere ad una gara di sumo, sono maledettamente vere. Quando si soffre per qualunque motivo e soprattutto quando la sofferenza è terapeutica, un modo molto utile che ho trovato per riempire quel vuoto interiore che pesa come il facocero della pubblicità del digestivo è quello di MANGIARE! Ma attenzione. Non si deve mangiare qualsiasi cosa e soprattutto, non si deve mangiare sano. Lasciate perdere finocchi, zucchine o mele succose. Quando si scaccia il facocero cavo, si deve mangiare il cibo più spazzatura che si riesce a trovare, quello che il tuo corpo riconosce come rifiuto non appena lo metti in bocca, mandandolo poi diretto alla corsia di evacuazione, senza neanche analizzarlo più di tanto. Può essere qualsiasi cosa: biscotti confezionati, vaschette di gelato, cioccolato di infima qualità, tramezzini pieni di maionese industriale e improbabili gamberetti, panini del McDonald's al doppio ketchup o qualsivoglia altra sostanza che farebbe storcere il naso ad un dietologo e anche alla tua amica salutista. Il mio personalissimo junk food da sfondamento, capace di rabbonire anche i più ostili facoceri d'assalto è una versione meno commerciale del Saikebon, gli spaghetti di riso in brodo che vendono in confezioni monoporzione e pronti in cinque minuti. Non prendo quello ufficiale semplicemente perché mi fa stare male, e io voglio sfondarmi di cibo, non avere nausea per tre giorni. L'idea è stare meglio, non peggio. Comunque, a parte le mie intolleranze alimentari, gli spaghetti di riso riescono a calmarmi come se avessi preso quattro pasticche di antidepressivi o un paio di bicchieri di vodka. Fanno il miracolo. Il calore del brodino abbraccia corpo e anima come una coccola di pile mentre gli spaghetti danno la sensazione di star masticando qualcosa di più del cucchiaio, in un ponte culturale tra la nostra cucina pastereccia e il lontano oriente, patria dello zen, dello ying e dello yang. In quegli spaghetti in brodo c'è concentrato tutto il benessere piumoso dello spirito e tutta la consistenza della cucina italiana, conferendoti una panza piena e una mente alleggerita dal potere della meditazione alimentare.

Seconda tappa: LA SCALETTA CINEMATOGRAFICA

La mia seconda tappa mi vede sdraiata sul letto, impigiamata, con una copertina avvolgente che stende un velo compassionevole sulle mie stanche membra e affondata nei cuscini, con i miei spaghetti di riso pronti per essere mangiati - rigorosamente con le bacchette - e il computer davanti. A questo punto le scelte sono varie, dato che possiamo optare per una indigestione di telefilm, una scofanata di video di youtube oppure per una più classica abbuffata di film. Ma anche qui il minimo comune denominatore è sempre lo stesso: l'abbruttimento. La seconda tappa prevede che all'abbruttimento fisico si accompagni un abbruttimento psico-emotivo, l'autoinduzione ad una condizione di torpore mentale, come se ci si fosse fumati due o tre canne tutte d'un fiato, senza gli effetti collaterali (e legali) dell'uso della nostra amica dal nome biblico. Per ottenere questo risultato si deve fare ricorso a tutti quei film che sono universalmente riconosciuti come film stupidi, brutti e infrequentabili ma che segretamente tutti abbiamo visto e che ancor più segretamente, tutti amiamo. Questa settimana, ad esempio, ero particolarmente depressa, mi sentivo un po' come se mi avessero schiacciata sotto un tir che trasportava polli con un quoziente intellettivo più alto del mio, quindi l'unico degno accompagnamento per i miei spaghetti di riso ricostituenti non poteva essere che lui: MEAN GIRLS. E non solo il primo film, quello con Lindsay Lohan, che è ancora vagamente guardabile, ma anche quello ancora più trash che nessuno ha visto e che scopiazza malamente il primo. Diciamocelo, Mean girls non è di sicuro una perla della cinematografia ed è anche vagamente sessista, con questi personaggi femminili meschini, stupidi e stereotipati, ma è il film ideale se ci si vuole imbruttire. L'obiettivo è spegnere il cervello e Mean girls riesce perfettamente nell'intento. Intrattiene, non fa riflettere e se ti perdi delle battute perché stai sorseggiando rumorosamente i tuoi spaghetti di riso seguendo pienamente il bon ton giapponese, riesci comunque ad arrivare alla fine del film comprendendone il senso. Guardare Mean Girls è come dormire stando svegli. Ma la funzione terapeutica di un film come questo, e per cui gli saremo sempre grati, non è solo quello di spegnere il cervello dolorante, ma anche di acutizzare i miei sensi di ragno: quando l'encefalogramma è piatto, i sensi la fanno da padrone ed è così che riesco ad uscire dal mio pozzo di depressione. Mi concentro sul gusto degli spaghetti in bocca, sul calore della copertina, sulla morbidezza dei cuscini, Insomma, riesco a percepire la coccola che ho faticosamente costruito e a trovarne giovamento. Lascio che la mia faccia vada alla deriva assumendo le espressioni più disperate e luttuose che potrà mai sperimentare e mi godo il mio momento di rinascita, che si concluderà poi con una lunga dormita notturna. Come Lazzaro, dopo il mio momento di imbruttimento, mi rialzerò più forte di prima, riaccenderò il cervello e sarò pronta ad iniziare una nuova battaglia. Con qualche etto in più di spaghettosa serenità nella pancia.
Duille



domenica 15 marzo 2015

Procrastinare l'improcrastinabile

Procrastinare. Una delle tante parole dell'ansia sociale. Procrastinare all'infinito, dividere il tempo in ore, e le ore in minuti, e i minuti in secondi, e i secondi in millisecondi, e quando anche l'unità di tempo più piccola del mondo è stata conquistata, inventarsi nuove unità per continuare a scomporre all'infinito il tempo che ci divide dalla cosa che dobbiamo forzatamente fare, da adesso ribattezzata come "il Terribile Evento", paragonabile solo alla traversata degli Hobbit attraverso Mordor fino al Monte Fato. 
 Avere sempre ancora un attimo per riflettere, ancora un momento prima del grande trauma è rassicurante e allontana il Terribile Evento di un passo, anche se piccolissimo. Certo, detto così potremmo sembrare completamente pazzi, ma vi svelerò il segreto di Fatima: NOI SIAMO PAZZI! Non nel senso convenzionale del termine forse, certo non da internamento e allucinazioni, ma sfido qualsiasi ansioso sociale a dichiarare di non essersi dato del pazzoide almeno una volta durante la sua vita. Io di sicuro perderei e non solo perché l'ho appena scritto qui, nero su bianco. Una volta messi tutti i puntini sulle i e svelato le carte in tavola, possiamo procedere nella trattazione del nostro tema: procrastinare. Non è un caso che io abbia deciso di sottolineare la nostra sottile follia sotterranea, perché solo tenendo conto di questa realtà potrete capire quanto segue: il nostro procrastinare non ci fa sentire bene, ma ci porta solo a bollire allegramente nel nostro brodo come una zucchina che sta tirando le cuoia a rallentatore, friggiamo come uno stomaco colto da un attacco di ulcera in slow motion, siamo più elettrici di un cavo di alta tensione e più disfattisti di un oracolo di Delfi. Continuiamo a dividere le ore compulsivamente per darci più tempo, ma quel tempo lo impieghiamo preoccupandoci del Terribile Evento da cui stiamo scappando tritando finemente le lancette dell'orologio come i migliori cuochi di Masterchef. Il risultato è un'agonia che si amplifica all'infinito man mano che dilatiamo i secondi in nuovi minuscoli organuli temporali. Forse la nostra speranza è che, continuando a dividere l'indivisibile, ad un certo punto l'orologio si fermerà e noi vivremo in un attimo eterno in cui essere finalmente sereni. Peccato che di solito questo non avviene e, se mai avviene, il vero motivo è che si sono scaricate le batterie al nostro amico ticchettante. Procrastinando tentiamo di spostare un po' più in là l'inevitabile momento della crisi,  il panico da Capitan Uncino, l'attimo in cui ci ritroveremo ad affogare nelle nostre lacrime come Alice nella saletta della maniglia, mentre siamo scossi dai singhiozzi più indecorosi e potenti mai concepiti da polmone umano, eccettuato forse quello dei nuotatori, senza contare la deforestazione di cui siamo artefici indiretti a causa del nostro gigantesco consumo di fazzoletti (perché sì, rischiamo di soffocare anche nelle nostre produzioni di tristezza nasali). 
La nostra procrastinazione di solito segue dei ritmi molto precisi: quando mancano ancora settimane o giorni al terribile evento, tendiamo ad utilizzare efficacemente la nostra formula magica, il nostro personalissimo bibidi bobidi bu, la nostra abra cadabra che tutto può, e che può assumere svariate forme. La mia preferita è "ci penso dopo" o, in variazione "lo faccio dopo". Sapere che ho del tempo da dedicare ad altro rispetto al Terribile Evento mi tranquillizza e mi da' anche un certo buonumore, come quei ragazzi che si concedono una visitina di cinque minuti su facebook durante una pausa dallo studio. Inutile dirvi che, in questa prima fase, il risultato di questa formuletta è identica a quella di facebook: il Terribile Evento viene del tutto risucchiato, come il pomeriggio degli studenti che si lasciano tentare dalla faccia librosa. La spinosa questione che tentiamo di evitare sparisce come per magia e di colpo ci si dimentica di lei e di tutte le angosce ad essa legate. La magia funziona alla perfezione e per un po' abbiamo l'illusione di essere le novelle Cenerentola al ballo con il principe azzurro, serene e felici, almeno fino allo scoccare della mezzanotte. In effetti, la magia non fa sparire proprio un bel niente, ma nasconde solo il problema sotto il tappeto. Viene fuori che il kit della perfetta fatina l'abbiamo comprato al discount e che finora non abbiamo fatto altro che ballare con la scopa dentro la nostra cameretta infestata dai topi. Ma in quel momento l'illusione funziona alla perfezione, in una sorta di effetto placebo percettivo che ci da' un senso di sicurezza completamente fasullo. Man mano che il tempo passa la nostra formula magica si approssima alla scadenza e, iniziando a perdere splendore, rivela tutta la sua finzione. Continuiamo a ripeterla nella speranza che dia ancora qualche sprazzo di magia, come quando si spreme l'unico tubetto di dentifricio che ha esalato l'ultimo respiro ormai da tempo. Purtroppo l'incantesimo si è spezzato e riusciamo a vedere il Terribile Evento salutarci con la manina da sotto il tappeto, da dietro la tenda o dall'interno dell'armadio in cui si è nascosto. Il panico ci coglie e l'unica cosa che riusciamo a fare è raggomitolarci in un angolo con la testa tra le mani ripetendo ossessivamente "lo faccio dopo, lo faccio dopo, lo faccio dopo!". Ovviamente la cosa più logica da fare sarebbe prendere in mano la situazione ed affrontare il Terribile Evento, ma noi ansiosi sociali non crediamo al detto "Via il dente, via il dolore", o forse è la nostra tendenza ad autosabotarci che ci porta a non credere nella praticità. Ma questa è un'altra storia. La verità è che non si può impedire l'arrivo del Terribile Evento e spesso, questi altro non è che un evento qualsiasi che semplicemente stiamo demonizzando.Crogiolarci nella paura non porterà altro che più paura e con sé tutto il serraglio di animali che affollano le stanze dell'ansia sociale. Quindi rompiamo questa spirale di terrore, sfoderiamo la nostra spada giocattolo e il nostro scudo di plastica e affrontiamo il nostro drago di cartapesta, con passo sicuro e sguardo fiero, perché, anche se non ci crediamo fino in fondo, abbiamo tutte le carte in regola per uscire vittoriosi da questa sfida. Fiato alle trombe, dunque, e sellate i cavalli, si parte alla volta dell'antro del drago! 
Magari tra cinque minuti eh? 
Duille 


sabato 7 marzo 2015

Sognando un sogno di carta: la Schiuma dei Giorni

I libri sono come le persone: ne esistono di vari tipi, ciascuno con la sua storia, raccontata con una particolare ed unica cadenza nella voce, che ne rivela le origini, ciascuna con un vocabolario che ne esalta le sue sfumature di personalità, ciascuna sagomata di un taglio speciale con cui guarda il mondo. I libri, proprio come le persone, hanno velocità diverse: alcuni sono veloci, immediati, adrenalinici. Sono libri che non si fermano mai, sempre di corsa, che si leggono con il cuore in gola. 
Altri sono frecce al rallentatore, che di pagina in pagina fanno breccia nella valvola cardiaca per poi farvi crescere un giardino di sillabe che non ci lascerà mai più. E poi c'è una particolare categoria di libri che, come alcune persone, non si inquadrano bene fin dall'inizio. Libri che bisogna guardare a fondo, di cui bisogna ascoltare anche gli spazi bianchi tra le parole, libri il cui messaggio si trova dietro al testo, in un linguaggio segreto che può essere carpito con lo stomaco e non con gli occhi. Uno di questi libri diesel è sicuramente La schiuma dei giorni, di Boris Vian. Quando lo lessi, ormai un anno e mezzo fa, rimasi molto perplessa dallo stile, da alcune scelte narrative e soprattutto dal particolarissimo ed enigmatico modo in cui l'autore ha scelto di trattare le emozioni. Ero confusa, devo ammetterlo. Proprio come quando si emerge da un sogno, mi sono ritrovata a grattarmi la testa chiedendomi "Cosa cavolo ho appena letto?" Perché qualcosa non quadrava decisamente. La storia, ad alto impatto onirico, è piuttosto semplice, dopotutto. Colin, giovane ereditiere, incontra Chloè, incarnazione di una canzone di Duke Ellington. I due si innamorano e, in un tempo sorprendentemente breve, si sposano. Durante la luna di miele si scopre che una ninfea ha iniziato a crescere nei polmoni della giovane sposa, mettendone a rischio la vita. L'unico modo per ridurre lo sviluppo della ninfea è quello di circondare la malata di fiori freschi, ma per farlo, Colin si ridurrà sul lastrico. Come vedete, la storia è piuttosto scontata, senza troppi fronzoli e tratta un tema importante come il cancro con la delicatezza della simbologia onirica, rendendo questa grave malattia quasi poetica. E di fronte a tanta sensibilità, tanta dolcezza, la domanda che mi sono posta per tutta la lettura è stata: e dove sono le emozioni? I personaggi sembrano quasi abbozzati, di una semplicità estrema, apparentemente superficiali, non è dato loro neanche un piccolissimo spazio introspettivo. Sono personaggi tutti concentrati sull'azione, in un libro che però dovrebbe essere intriso di emozioni come se fosse stato pucciato nel miele. Diciamocelo, La schiuma dei giorni è un libro che a prima lettura frustra parecchio, perché è qualcosa di totalmente nuovo, completamente diverso da tutto ciò che possiamo aver letto prima. E' un sogno che è stato trascritto sulla carta, un gioco che l'autore fa con il lettore, invitandolo a risolvere il rebus elaborato per noi, lasciandoci in questa isola misteriosa rigurgitante di indizi ma di cui non abbiamo neanche un francobollo di mappa. 
Ed è qui che capiamo che La schiuma dei giorni è un libro diesel, un libro ad effetto ritardato. Per usare una metafora etilica, non è un bicchiere di vodka che ti va subito alla testa, ma un cocktail molto fruttato, che all'inizio sembra non avere alcun effetto ma che, alla fine, ti fa ritrovare a ballare sui tavoli con il reggiseno sulla testa. 
E' un romanzo indefinibile e, ad un'analisi più attenta, addirittura volutamente fuorviante. Inizialmente sembra uno di quei romanzi veloci, tutto azione, in cui tutto sembra casuale e sopra le righe, in cui il gusto per lo strano e lo scioccante sembra prevalere sulla vicenda in sé. La taxi-nuvola utilizzata dai due personaggi per nascondersi dagli sguardi indiscreti, il pianoforte che trasforma le melodie musicali in cocktails dai sapori più variegati, le anguille che nuotano lungo le tubature e che vengono pescate direttamente dai rubinetti, le morti surreali ed irrazionali che costellano l'intero romanzo e che vengono vissute con lo stesso pathos di quando cade una baguette sul pavimento sporco. Queste stranezze sono tutte invenzioni geniali dell'autore a cui però sembra essere data un'importanza eccessiva, i dettagli risaltano sproporzionatamente oscurando completamente la trama. Tutto scivola come un guanto di velluto, senza toccare apparentemente nessuno, eppure qualcosa non torna. Qualcosa non torna nell'apparente caos che circonda i personaggi, nell'incomprensibile asetticità delle loro esperienze, nella folle velocità con cui la storia si sviluppa, nella quasi molesta noncuranza con cui vivono la vita. Ed in effetti qualcosa non torna davvero, perché, come ho detto prima, La schiuma dei giorni è qualcosa di unico e per leggerla bisogna buttare dalla finestra qualsiasi canone di riferimento ci si sia costruito durante gli anni. E' un libro che, proprio come la ninfea che affligge la povera Chloè, sboccia in ritardo ma che, una volta compreso, rivela tutta la sua meravigliosa, poetica, struggente drammaticità. I personaggi non provano emozioni perché è il mondo che le prova per loro. Quel pazzo mondo pieno di stranezze si plasma aderendo al sentire dei personaggi, sostituendo ai sentimenti le immagini dei sentimenti: i cieli cambiano colore, le stanze si rimpiccioliscono, i corpi invecchiano precocemente man mano che il dramma si inscena, consumando letteralmente tutto ciò che fisicamente circonda quei cuori pulsanti. Lo stesso tempo assume le forme e i colori della vita, così che, laddove crediamo di leggere una vicenda descritta troppo oggettivamente, ci ritroviamo di colpo ad essere circondati da una straziante soggettiva del dolore, in cui tutto cambia con il cambiare di noi stessi. Mentre Chloè vive la sua malattia, il tempo rallenta fino a fermarsi in un immobile presente, i colori si slavano fino a diventare di un grigio funereo, che non lascia scampo e da cui non si può più fuggire. Il peso del dolore schiaccia Colin e schiaccia il lettore, che non vede più nulla, se non l'ombra della morte anche negli oggetti di uso quotidiano. 
 La maglia di colori così meravigliosamente intessuta all'inizio del romanzo, si apre sgretolandosi in una statica caduta nell'oblio. Capiamo che ogni riga è metafora, occultata da una verità descrittiva apparentemente priva di scopo, ogni parola è simbolo che diventa realtà, in una solidificazione degli umori che concretizza anche il pensiero, delegando le emozioni al mondo, facendo sì che il dolore impregni ogni rivolo d'acqua, ogni finestra sporca, ogni parete scrostata. La morte diventa la protagonista di questo volume, insieme alla feroce critica alla nostra società consumatrice e egoista, in cui la solitudine la fa da padrone. Il messaggio è affisso ovunque, è così palese da risultare invisibile, ma non impercepibile. Le nostre pance lo sentono anche quando i nostri occhi non lo vogliono vedere. Daniel Pennac, che ha scritto la prefazione del libro, ci ha visto un elogio dell'amore che tutto può. Io ci ho visto una fedele descrizione della disperazione, che annienta fino a non lasciare più nulla, se non se stessa. La Schiuma dei Giorni mostra, sfiorandola, l'orrore della vita nelle sue diverse declinazioni: l'ossessione di Chick per il suo autore preferito che porterà distruzione nel suo rapporto con la fidanzata, la solitudine e la disperazione che portano ad atti estremi, la morte che scorre sotto gli occhi senza toccare davvero più nessuno, la malattia che infetta tutto, anche chi ci sta vicino. Una fedele testimonianza del mondo moderno, filtrata dal simbolismo onirico, come a voler proteggere dalla sconvolgente verità. E' un libro che consiglio, ma con moderazione perché è un libro che richiede compromessi, che si deve lasciar decantare nell'inconscio fino a quando le sue note fruttate non si paleseranno. Per leggere La schiuma dei giorni si deve accettare la frustrazione di non capire, il fastidio dell'irrazionale, lo scardinamento degli schemi, e si deve sopportare lo straziante dolore dell'epifania, della comprensione che porta via ogni traccia di magia, lasciandoci intravedere l'orrore dietro quel velo sognante che ci ha protetti fino ad ora, consci che quello che vediamo è quello che siamo davvero. Per amare la Schiuma dei giorni si deve sospendere la realtà, abbracciare l'assurdo, entrare nel sogno. Ma soprattutto, per comprendere la Schiuma dei giorni si deve aspettare. Aspettare che il vero significato arrivi al cuore perché, come tutti i sogni, il messaggio non è per la mente, ma per l'anima. 

Duille

 
"La', dove i fiumi si gettano nel mare, si forma una barriera difficile da superare, e grandi vortici schiumanti in cui ballano i relitti. Di fuori la notte, là dentro la luce della lampada, e in mezzo i ricordi rifluivano dall'oscurità, si urtavano nel chiarore e mostravano le loro pance bianche e le loro schiene argentate, galleggiando qualche volta in superficie, altre volte affondando di nuovo." 

sabato 28 febbraio 2015

Sai rivelare un segreto?

I segreti sono piccole verità di noi stessi che, per svariati motivi, preferiamo non rendere pubblici, di solito perché sono imbarazzanti, dolorosi o incredibilmente intimi. Esistono diversi livelli di segretezza e la scelta di aprire o meno il portellone di uno di quei livelli significa indicare molto chiaramente i confini d'intimità di una relazione.
I segreti definiscono limiti molto precisi, come se fossero dei recinti di legno intorno al proprio appezzamento di terreno. Non basterà tutto l'olio Cuore del mondo per superarli, se non vorremo. I segreti sono come dogane che permettono il passaggio solo ai portatori del giusto passaporto, sono le scalette delle casette sugli alberi che vengono calate solo alle persone che conoscono la parola d'ordine. Rivelare un segreto, in effetti, non è cosa da poco, richiede un bel po' di coraggio da entrambe le parti. Chi si svela, compie un atto di fede, si fida e si affida, si butta nel canyon sperando che la corda da bungee-jumping tenga. Chi riceve il segreto, è messo alla prova, deve essere sufficientemente elastico da permettere all'altro di ritornare sul ponte da cui si è buttato e abbastanza solido da non farlo cadere. In una parola, deve essere comprensivo e non giudicante. Quando si rivela un segreto, si chiede il possibile impossibile: essere all'altezza delle aspettative, essere delicato come la mano di un restauratore su un quadro usurato dal tempo. Se il test verrà passato, si accederà ad un mondo nuovo e complesso, genuino ma più ingarbugliato di un gomitolo di lana dopo il passaggio di un gatto particolarmente in vena di giochi. E se il segreto verrà tenuto, si otterrà un prezioso biglietto da visita, una targhetta ad honorem placata oro e con le scritte in rilievo che troneggerà brillante sul nostro petto orgoglioso. Quel riconoscimento definisce la nuova identità del suo portatore, sancendone l'integrità, la correttezza e la riservatezza, come il miglior conto bancario svizzero. Praticamente, si diventa casseforti a prova di gossip che tutti vorrebbero in casa. Ma non per tutti va allo stesso modo. Noi ansiosi sociali, ad esempio, siamo un caso un po' particolare di distorsione di questo dare e avere, di questo scambio di confidenze e di mutua fiducia. Pur avendo collezionato migliaia di targhette lucenti, pur avendo custodito così tanti segreti da poter essere tranquillamente la nuova Gringott emozionale, non siamo altrettanto generosi nell'elargire a nostra volta tali coccarde. 
E non perché abbiamo avuto la sfortuna di incontrare solo rane dalla bocca larga, ma semplicemente perché non arriviamo mai a testare gli altri. Per quel che ne sappiamo, le persone che ci circondano potrebbero, una volta sentito il nostro segreto, cucirsi la bocca a doppio filo imitando l'espressione del sedere di una gallina, ma noi siamo quella categoria di persone che dicono di non credere ai fantasmi ma che, per sicurezza, non si avvicineranno mai ad una tavoletta Oujia. Quindi siamo i re del silenzio, i maestri del V emendamento e bunker nascosti nei fondali marini, il che ci rende perfetti custodi dei segreti altrui e pessimi confessori dei nostri segreti. Perché in fondo, esiste solo un vero segreto che vorremmo confessare, l'unico per cui valga davvero la pena di testare le persone, ma talmente grosso da poter radere al suolo una nazione peggio di una bomba di insetticida in un campo infestato di cavallette. Rompere il nostro segreto significa parlare di ciò che ci tormenta maggiormente: dell'ansia sociale e del serraglio di animali che lo accompagna, del procione incazzato sulla spalla e del rimugiserpe che sussurra continuamente all'orecchio, delle varie versioni di noi stessi che sembrano non azzeccare nulla l'uno con l'altro e che ci rendono molto empatici nei confronti dei disturbi da personalità multipla. Ce ne vergogniamo mortalmente, e ci sembra difficile che qualcuno possa capire qualcosa che noi stessi facciamo fatica a capire e accettare. Ci risulta impossibile pensare che qualcuno possa non riderci in faccia, guardarci come dei pazzi o minimizzare il problema di fronte ai racconti dei nostri pianti nell'armadio prima di un'uscita, o sui nostri calcoli del numero di persone che, secondo noi, sono accettabili per rendere un negozio frequentabile. Perché aprire un vaso di Pandora che sarebbe meglio per tutti se rimanesse ben sigillato con silicone, un doppio lucchetto e un kilometro di cellophane come copertina della buona notte? Mi piace pensare che questo sia il segreto del folle, quella verità che non si rivela perché nessuno capirebbe, anche se in fondo, folli non lo siamo affatto. Ma tant'è, non siamo noi a fare le regole del gioco, è quel mondo superficiale e prestazionale in cui ci muoviamo. Quindi non importa quanto sia doloroso tenerlo dentro, quel segreto resterà custodito negli anfratti delle nostre valvole cardiache, nella fodera della retina, o nel fondo della punta della lingua. Per gli ansiosi sociali rompere il silenzio è doloroso come frantumare a mani nude una teca di vetro, o rompere una lastra di ghiaccio.
Ci espone, fa sanguinare le mani, riempie di tagli e brucia la pelle. Ci spaventa come poche cose al mondo, perché rivelare il segreto vuol dire affidarsi ad un altro che potrebbe non capire o non voler capire. O peggio. Potrebbe capire e non volerci, buttarci via perché siamo difettosi, come un vecchio giocattolo a cui si sono rotti gli ingranaggi. E come potremmo sopravvivere sapendo di essere solo una mela bacata che nessuno vorrà mai assaggiare? Allora manteniamo il silenzio, ci stringiamo nel nostro muto cappotto infeltrito cercando di ripararci dal gelo, quando il gelo viene proprio dall'interno di quel cappotto, fatto di ritagli di notti invernali. Tenere il segreto ci rende sicuri in un mondo di incertezze e superficialità, ma ci sgretola lentamente sotto la forza del vento del Nord. Preservare il segreto circoscrive l'oceano di paura che annacqua gli occhi, distorcendo le immagini e creando mostri irreali, ma erode le nostre rocce rendendoci scomposta arena senza identità. 
Preferiamo gestirci da soli le nostre crisi, occuparci in solitaria dei nostri buchi nell'acqua, non dare spiegazioni che nessuno capirebbe e affrontare la vita con il nostro passo zoppo, in compagnia del nostro pipistrello notturno che svolazza sulla testa. Ovvio, questo ci preclude ogni possibilità di sgravarci di questo peso, di vederci attraverso gli occhi degli altri, magari di trovare quella persona che, invece di correre come il resto del mondo, decida di zoppicare insieme a noi, magari allungandoci anche una mano per farci da stampella. E di certo non saremo in grado di trovare persone come noi, se non da pochi indizi invisibili agli altri, ma chiarissimi per noi. Perchè tra di noi ci riconosciamo, siamo come cani che hanno la stessa puzza o, per essere più eleganti, come danzatori che ballano la stessa musica. Ma rivelarci sarebbe impossibile comunque, perché dopo tanto tempo che si tiene questo segreto, ci si dimentica come si fa a rivelarlo. Da dove si inizia? devo aprire prima la bocca o il cuore? Come? Devo abbassare le difese? Ma scherzi? Lì fuori è tipo Jurassic Park, Jumanji in versione splatter, e io dovrei portarmi dietro solo un fazzolettino bianco come segno di resa? I velociraptor lo useranno per asciugarsi le fauci dopo aver banchettato con me! Questo il tenore dei pensieri che ci affollano la mente. E mentre la consueta riunione condominiale di creature dentro di noi si fa come al solito per le lunghe, il momento è passato, e alla fine siamo solo stanchi e frustrati. Probabilmente esiste una soluzione a questo gravoso problema, ma a questo punto del mio percorso, so solo che continuare a provarci, sbattere la testa contro il muro di silenzio tentando di sfondarlo è l'unica cosa da fare. Io ho scelto una persona di cui mi fido per allenarmi, anche se è difficile. Ad ogni crisi, grande o piccola che sia, verrà la tentazione di insabbiare tutto sotto litri di bugie, dette con il solo scopo di non esporsi alla vergogna pubblica, di non tirare la corda più di quanto non si faccia già. Ma quell'atto di fede, quel salto nel canyon è la cosa migliore che ci potrà capitare. Fidatevi, quella corda terrà, anche se non ci credo mai neanche io. Ma d'altronde, io ho l'ansia sociale. 


Duille


sabato 21 febbraio 2015

Eroi a doppio battito: la teoria del tutto

Quando pensiamo agli eroi, ci sentiamo ispirati come se i nostri polmoni respirassero sinfonie aperte al vento. Sono creature quasi mitiche, che ricorrono nella storia come punti di luce nell'oscurità dei tempi, per dare forza e speranza ai popoli del futuro. Ma cosa sono gli eroi, in fondo? Sono una scintilla di coraggio, che infiamma le nuvole di calore e dà la forza per grandi atti. Tutti gli eroi non sono altro che una grande metafora: sono l'incarnazione del coraggio di lottare per ciò a cui si crede. Ed è a questo che il resto del mondo si ispira. Ma nonostante tutti gli eroi siano un simbolo del coraggio, non tutti gli eroi sono uguali. Esistono almeno due tipologie di eroi: gli eroi che, lottando per sé, lottano anche per gli altri, e gli eroi che lottano per se stessi. 
I primi sono i condottieri, le torce che guidano le masse verso un futuro di speranza e di maggior benessere. I guerrieri che si ergono nel buio di una notte senza stelle con la loro fiaccola accesa, nascondendo la paura ed indicando sicuri l'alba che verrà. Questi eroi sono irraggiungibili, mitici esempi di determinazione a cui possiamo solo dedicare tutta la nostra ammirazione e gratitudine mentre guardiamo la loro firma decisa sul lungo papiro della Storia. I secondi invece sono i custodi della speranza, sono tutte quelle vite semplici che non troveranno mai posto in quel lungo papiro, ma capaci di ispirarci forse più degli eroi guerrieri. Sono coloro che sono stati colpiti dalla vita, ma che si alzano ogni mattina cercando il proprio sorriso nello specchio e vi restano finché non lo trovano. Sono gli eroi testardi che, instancabili, cercano ogni giorno un motivo di gioia, dimenticando il macigno che portano nel cuore e spesso nel corpo. E' di questo secondo tipo di eroi che voglio parlare, gli eroi della speranza, perché sono loro che sono maggiormente in grado di ispirarmi e spingermi a tentare di essere a mia volta quella stella di luce fatta di polvere di risate. Perché questo sono gli eroi della speranza: polvere di risa tenute insieme da una lacrima. Per trovare un esempio di questo secondo tipo di eroe, basta guardarvi intorno. Ognuno di noi è un po' un eroe della speranza, anche se spesso non ci sono segni che ci annuncino, non ci sono simboli sulle mani o lettere sulle giacche che ne indichino la presenza. Bisogna fare attenzione per vedere questi eroi, perché la loro energia si cela nei dettagli: in un attimo di tristezza nello sguardo, in un sorriso perso nell'aria, nella gioia con cui si godono una pioggia invernale, nella determinazione con cui muovono una mano, nella fierezza con cui si mostrano agli altri coperti di cicatrici. Li potreste trovare seduti ad occhi chiusi su una panchina, lasciando che il sole baci loro le guance asciutte delle lacrime che furono, oppure curiosi di fronte alle minuzie della vita. Sono eroi invisibili agli occhi del mondo, ma che talvolta si mostrano in tutta la loro magnificenza. Magari raccontati da qualche regista che ne ha visto la luce e che è pronto a rischiare di bruciare la pellicola per mostrarla. Forse è successo proprio questo al regista di La teoria del tutto, pellicola che racconta la storia del fisico Stephen Hawking, uno dei grandi eroi della speranza moderni. 


Un film che racconta l'uomo dietro il genio, il dolore posto a servizio della creatività. la speranza coltivata come un fiore raro nel deserto più secco, la fantasia lasciata libera di volare oltre le possibilità del corpo. E l'amore, espresso solo attraverso gli occhi screziati di fugace malinconia. Hawking è un eroe per se stesso, che combatte ogni giorno con una malattia che ne rende difficile ogni gesto, che lo paralizza nel corpo e che lo costringe ad una scelta difficile: vivere o morire? Vivere pienamente, trovando la gioia in ciò che ancora resta, pur sapendo di dover lottare per sempre contro il dolore e la disperazione, o lasciarsi morire, richiudersi in se stesso in una spirale mortifera che fa appassire tutto, lasciando gusci vuoti e senza vitalità? Hawking fa la scelta più coraggiosa. Sceglie di vivere. Ma di vivere davvero. Sopravvivere è un altro nome per indicare la morte, sopravvivere significa spegnere la luce che abbiamo dentro e accumulare i giorni come granelli di sabbia in una clessidra. Hawking sceglie di guardarsi intorno e trovare la gioia in ciò che gli è rimasto dopo il bombardamento. E riesce a fare questa scelta perché qualcuno, in quel momento cruciale, ne ha preso il viso tra le mani e gli ha mostrato a forza il proprio sguardo innamorato. Ed è in questo momento che capiamo la vera forza degli eroi della speranza: l'amore. L'amore per se stessi, certo, ma soprattutto l'amore che riceve dagli altri e che diventa la vera benzina della loro esistenza. Hawking ebbe la fortuna di incontrare l'amore più grande dell'intero universo, l'amore di una donna, che gli è stata accanto e che gli ha dato la forza per far emergere il suo genio. E' questa donna forte e coraggiosa che lo aiuta a rialzarsi dopo la caduta, che lo accompagna nel lungo cammino verso l'incerto futuro. 
Hawking ha due cuori che battono nel suo petto, il proprio e quello della moglie. Ha due cuori per amare, sperare e lottare. E un doppio motivo per vivere. Vivere per sé, ma soprattutto per lei, quella donatrice di cuore che ha deciso di stargli vicino nonostante tutto. Gli eroi della speranza sono tali perché sanno accogliere i regali che arrivano, soprattutto quelli di eroi come lui. Questi ultimi sono eroi del dono, persone comuni di solito, che possono apparire fragili e deboli, ma che si rivelano in tutta la loro sconvolgente meraviglia, pur rimanendo all'ombra anche di questi eroi del quotidiano. Sono eroi silenziosi, che non avranno mai lodi o gloria, ma che saranno guide spirituali nei momenti difficili e sorrisi intensi nei momenti di luce. Gli eroi della speranza nasconderanno la paura per dare forza a coloro che danno loro forza, in un circolo benefico che sincronizza i battiti. Due cuori uniti in un unico corpo, un cuore che batte più forte quando l'altro si accascia stanco, due cuori che cantano insieme di fronte ai piccoli traguardi e ai minuscoli movimenti dell'esistenza, due cuori che si concedono di piangere nello stesso momento, accarezzandosi consolatori. Gli eroi della speranza sono tali perché non sono monoliti solitari, convinti di farcela da soli, ma esseri che si sentono profondamente umani e per questo capaci di attingere a qualsiasi fonte di energia, di affidarsi agli altri per continuare a percorrere la strada che hanno scelto nonostante i nuovi limiti, fino a diventare ciò che desiderano essere: felici. Non quelle felicità impossibili ed eterne, ma quelle piccole perle di felicità che vengono custodite gelosamente e che li porta a lottare sempre più forte per accumularne altre. Hawking l'ha trovata nel suo lavoro, nei suoi amici, nella sua fortissima moglie, nei tre figli, e nei giorni che strappava alla morte, giorni che diventavano degli oggi vissuti intensamente, senza preoccuparsi troppo del domani. Gli eroi della speranza come Hawking ci ispirano più degli altri, perché sono eroi che potremmo diventare. Raccontandoci la loro storia, vivendo ogni giorno intensamente, ci passano simbolicamente il testimone, dandoci fiducia, dicendoci che anche noi possiamo essere eroi di noi stessi. Possiamo essere eroi della speranza e, conseguentemente, eroi del dono. Ci insegnano a piangere per ciò che non funziona, ma anche ad alzarci e gridare forte di un urlo di entusiasmo così grande da riecheggiare tra le montagne della nostra vita, perché come ha detto bene il buon Hawking, finché c'è vita c'è speranza. La speranza, la capacità di accettare il cuore donatoci da amori vicini e la testardaggine nel trovare intorno a noi le cose per cui vale la pena vivere sono la vera chiave per vivere intensamente, gonfiando le vele del nostro cuore fino a renderlo così grande da poterlo donare a qualcuno. Fino a renderci eroi del dono, in uno scambio di cuori che ci lega in un unico organismo battente. Quella di Stephen Hawking è la storia di un amore, di una speranza incrollabile, della rinuncia alla sconfitta. Una piccola grande storia, che è anche la storia di ciascuno di noi. 


Duille

sabato 14 febbraio 2015

Un regalo lungo un anno

Un anno fa ho deciso di farmi un regalo. Era uno di quei giorni in cui sentivo tutto il peso della mia vita sulle spalle, uno di quei giorni in cui il mondo ti ricorda la tua solitudine, la staticità in cui ti sei arenata, un giorno in cui ti accorgi delle pareti grigie in cui sei inscatolata da sempre. 

Insomma, era San Valentino. 

Una delle feste più settoriali, discriminatorie ed elitarie mai concepite. E' una festa con la puzza sotto al naso peggio di un critico d'arte e che in più non ha neanche la decenza di essere discreta. No, la signorina se la tira mostrandoti tutta la sua opulenza, il suo benessere, la pioggia di cuoricini che gronda dalle vetrine dei negozi, dai tavoli dei ristoranti, dagli scaffali dei maledetti supermercati, ricordandoti una cosa sola: tu non potrai mai toccare quel benessere, almeno non quest'anno.  Ed in più, dopo averti ricordato la tua solitudine che si trascina di anno in anno, finge anche un sentimento di spocchiosa compassione, mentre ti chiude la porta in faccia lasciandoti sola con le tue vaschette di gelato e i fiori ormai appassiti dal dispiacere. "Ritenta l'anno prossimo, vedrai che andrà meglio", ti dice con l'occhietto triste, le labbra sporgenti e le manine raccolte in preghiera. San Valentino non è la festa degli innamorati, è la festa dell'esibizionismo a discapito di chi non può esibire nulla, una giornata che fa sentire i single come un fazzolettino usato dimenticato sotto il cuscino. Di solito io tento di scansare questa "festa" con tutta l'eleganza che ho a disposizione, ovvero rispolverando vecchi discorsi razionali sulla sua natura commerciale e rinchiudendomi in casa a rileggere Jane Austen come ogni single depressa che si rispetti, vestita con il pigiamone di pile, i calzettoni che abbracciano i pantaloni e i capelli a cipolla come vuole il manuale della giovane depressa che affoga i dispiaceri nel cibo. L'anno scorso però ero stufa di imbruttirmi per colpa di questa festa importata dall'America. Ed è stato allora, in un moto di stizza da soldato caduto ma non ancora sconfitto, che ho deciso di farmi questo grande, meraviglioso regalo. In barba ai dubbi che covavo da mesi, ho preso in mano mouse e tastiera e ho scritto il mio primo, brevissimo post. E' così che è iniziata la mia avventura qui su blogger, senza nessuna idea particolare, senza nessuna pretesa o desiderio di successo. Sapevo già allora che il blog era ormai una forma d'arte sorpassata e inutile, paragonabile all'invio di un messaggio via piccione. Ma come ci insegna bene J.K.Rowling, anche le cose più sorpassate possono tornare di moda se adeguatamente sfruttate e se lei è riuscita a far diventare popolare la penna e il calamaio, perché non tentare comunque di dare nuova vita ad uno stile di blog che ormai è da istituto geriatrico? Sappiamo tutti che gli unici blog che oggigiorno attirano ancora sono quelli in cui si spadella o si viaggia, oppure quelli che supportano i canali youtube e che vivono quindi di luce riflessa. I blog personali sono ormai un lontano ricordo dei tempi andati, come le lettere scritte a mano, cose da nostalgici che preferiscono ancora il calore a volte ustionante del camino alla più stabile stufetta elettrica. 
Ma io sono sempre stata un'inossidabile nostalgica con la passione per la scrittura e, senza particolari doti culinarie o soldi per viaggiare, con una timidezza da lucertola braccata e assolutamente goffa davanti ad una telecamera, quale altro strumento avrei potuto usare per mostrare il mio lato vintage se non un blog personale? In più avevo voglia di condividere i miei voli di fantasia, il mio modo di vedere la vita, le mie passioni per la letteratura e per i telefilm e soprattutto volevo fuggire per un attimo dalla mia gabbia ansiosa, volevo uno spazio in cui essere finalmente me stessa e parlare liberamente. Così mi sono buttata nel vuoto, nonostante tutte le carte fossero a mio sfavore, nonostante la Luna Nera che incombeva sul mio piano astrale: blog antidiluviani che non legge più nessuno, un'epoca che ha l'attenzione massima di 3 minuti, una personalissima incapacità a rimanere costante e soprattutto, lo scarsissimo dono della sintesi. Io sono sempre stata una persona da flusso di coscienza: un pensiero tira l'altro come gli m&m's durante un attacco di acquolina. E in quest'anno in effetti anche quei timidi tentativi di sintesi sono stati definitivamente abbandonati a favore dell'inconenibilità del flusso di coscienza. Ma molti dei pronostici che mi ero fatta quel lontano 14 febbraio del 2014 sono stati felicemente disattesi. La costanza è stata mantenuta, tanto che oggi festeggio anche il mio cinquantesimo post e con la costanza e un po' di pubblicità sono arrivati anche alcuni lettori che hanno trovato qualcosa di buono in quello che scrivevo e che mi hanno supportata con una genuinità disarmante. Col passare dei mesi sono arrivate nuove rubriche, nuovi modi di scrivere e una definizione più puntuale ed equilibrata del mio stile, che è cresciuto grazie anche ai vostri commenti. Il blog mi ha fatto crescere, mi ha resa orgogliosa di ciò che amo di più, mi ha dato fiducia in ciò che faccio e nelle persone a cui mi rivolgo e mi ha dato delle lezioni di vita degne del miglior sensei. La più importante di tutte è stata che non posso lasciare fuori dalla porta la mia ansia sociale. Essa fa parte di ciò che sono e influenza i miei pensieri e il mio umorismo. Ho capito che in questo blog c'è spazio anche per quella parte dispotica e giudicante di me. Qui però è la mia parte sana che tiene le redini e sono capace, come non riesco nella vita, a piegare quel serraglio di giudizi e paure fino a darle una forma che respiri e non soffochi. 


Ogni volta che adesso parlo di ansia sociale, non faccio altro che stenderla al sole, come una vecchia coperta logora. La guardo, la tocco, ne racconto la storia e poi la riprendo con me, avendone un po' meno timore, perché ora la conosco un po' meglio e perché non fa paura a chi la racconto. Non sono aliena in un mondo di perfezione, ma solo profondamente complicata. E quando ho particolarmente paura, non devo fare altro che disegnare due grossi baffi a manubrio su quella coperta polverosa e riderci su insieme ai miei lettori. Speravo e spero ancora che quello che scrivo possa aiutare persone come me e persone diverse da me a capirsi e capire, a vedere come cose apparentemente semplici possano essere mostruosamente faticose, a ritrovare una familiarità del tutto personale in difficoltà così particolari, a comprendere come sia difficile per noi fare quel gesto di volontà fondamentale quando siamo impegnate in una quotidiana lotta con noi stessi. E magari aiutare le persone a trovare un modo di tendere una mano cosciente ed efficace verso chi soffre del mio medesimo disagio. Ma soprattutto, spero che con questo blog io possa dare a persone come me quel pennarello nero a punta grossa necessario per disegnare i baffi alla propria ansia sociale, Un anno fa ho fatto una scelta importante, un regalo che si è scrollato di dosso le paure e si è concesso un battito di ali. Da allora non sto facendo altro che continuare a volare. Ed è tutto merito nostro.
Duille

 
sabato 7 febbraio 2015

Principianti emotivi

Ci sono tante parole che spaventano un ansioso sociale. Alcune sono parole che spaventano tutto il mondo in ugual misura: dolore, morte, perdita, solitudine, abbandono. Altre sono paure che tutti sentono, ma che rimangono segreti nascosti sotto le pieghe delle occhiaie o negli angoli delle labbra. Infine, ci sono le paure marchiate dalla nostra lettera scarlatta, terrori che nessuno capisce e che ci rendono fragili: telefonare, comprare, domandare, amare, fidarsi, muoversi, dire. E' difficile capire in quale scatola mettere ogni parola, cosa appartenga solo a noi e cosa ci renda parte dell'umanità. 
Siamo circondati da bolle di silenzio: il nostro silenzio, che ci protegge da quello sguardo giudicante che ci manderebbe in frantumi, e il silenzio degli altri, che avvolge nella vergogna e nel pudore le paure che la società non vuole riconoscere. Ma noi siamo principianti emotivi, ancora impegnati a comprendere le regole del gioco, soprattutto cosa si può dire e cosa no. Sentiamo tutto come se fosse la prima volta, dando ad ogni emozione tutta l'importanza di una cometa avvistata nel cielo notturno. Ogni meteorite cade forte sulla nostra terra e fa anche parecchio rumore. Forse fa più rumore che quello degli altri, o forse siamo noi che, non conoscendoli completamente, li facciamo risuonare all'infinito cercando di carpirne i segreti, cercando di capire dove collocarlo e come chiamarlo. Spesso guardiamo fuori per vedere se anche gli altri conoscono queste meteore, oppure se sono realtà tutte nostre. In fondo, siamo amplificatori di emozioni, casse da cui rimbombano forte le paure che il mondo tiene silenti. Questo essere ancora principianti ci spinge più spesso di quanto vogliamo a mostrarci e nel farlo smascheriamo anche coloro che le regole del gioco, ormai, le conoscono a memoria. Involontariamente, le nostre fragilità, così attentamente nascoste sotto strati di controllo, emergono da quella coltre di fango molle che continuiamo a modellare e che ci sfugge sempre di mano, e si mostrano al mondo nella loro nudità. Per noi è una sconfitta, un inutile pericolo che non riusciamo ad evitare e che ci lascia pietrificati come un bambino colto in fallo con le mani nel barattolo delle caramelle. Ma paradossalmente, più spesso di quanto non pensiamo, questa evidente fragilità nei nostri occhi e nei nostri movimenti diventa un colpo d'aria che scuote i panni ordinatamente stesi al sole di chi ci sta di fronte, mostrando che anch'essi, così bianchi e puliti, nascondono macchie stranamente familiari, scuciture agli angoli delle gonne e cicatrici di filo a richiudere le lenzuola immacolate. In alcuni casi, siamo noi, delicati come carta velina sotto una grandine, a fare involontariamente il primo coraggioso passo verso l'altro, mostrandoci semplicemente imperfetti, noi che ci sentiamo drammaticamente sbagliati e abnormi in un mondo di perfezione. 

Non siamo eroi che sfidano il pericolo, ma solo incauti viaggiatori a cui sfugge di mano la valigia piena della propria storia, aprendosi in un tripudio di biancheria e fazzoletti di carta usati. Eppure, con questo gesto maldestro, permettiamo all'altro di sentirsi libero di essere a sua volta meravigliosamente imperfetto, splendidamente tagliato. Noi, così profondamente convinti di essere un cesto pieno di gomitoli di lana aggrovigliati, diventiamo in un momento creature capaci di squarciare il velo della consuetudine che definisce i confini del giusto e dello sbagliato, del normale e dell'anormale, della sanità e della pazzia. Semplicemente, il nostro essere principianti emotivi ci rende incauti esploratori fanciulli, che ancora non sanno come muoversi nel mondo e che, nella loro esplorazione maldestra, finiscono coll'aprire anche porte che devono rimanere chiuse, segrete, e che confinano gli individui in maschere di solitudine, in danze di apparenza, in contatti sospesi che non arrivano mai alla pelle. E spesso, nel farlo, nell'inciampare sempre nostro malgrado nel vuoto, finiamo col rompere quella bolla di silenzio e  diventiamo quella rete di sicurezza che permette ad altri di dire una semplice, potentissima parola: Anch'io. Anch'io sento ciò che senti tu, anch'io soffro, anch'io ho paura, così tanta che devo tenerla chiusa in una scatoletta sotto il letto, nascosta da tutti come un calzino sporco, protetta da tutti perché nessuno capirebbe.
La libertà di quelle parole, di quel semplice "anch'io" sussurrato sottovoce, come un gesto di ribellione dall'ordine preformato, ci mette davvero in contatto, ci lega in un abbraccio fatto di mutua comprensione, seppur nella nostra diversità. Noi ansiosi sociali di fatto siamo casse di risonanza, diapason che invadono l'aria con la loro nota in cerca di uno strumento che la riconosca e la suoni. Apriamo spazi di parola nonostante vorremmo chiuderci in noi stessi, liberiamo emozioni e paure dalle gabbiette appese nella mente delle persone semplicemente mostrando lo stormo di volatili che vola selvaggio dentro di noi e che le gabbie, non le ha mai conosciute. Ma ciò che mi sorprende ogni volta è che, nel mostrare casualmente le nostre paure, bloccandoci in un respiro trattenuto dopo aver lanciato per sbaglio la nostra nota, si finisce sempre per trovare un altro diapason che riconosca quel suono e ce lo restituisca, in un gesto di somiglianza che lascia stupiti e commossi. L'emozione più bella esistente è sentirsi simili, è far volare le proprie paure insieme, in una danza nel cielo che non sa più di solitudine e che le rende un po' meno terrificanti, perché non le si affronta più da soli. Per noi, significa sentirci un po' meno alieni, un po' meno folli, significa riporre quelle ignote paure nella scatola giusta, svuotando quella marchiata dalla nostra stigmate. Per loro significa dare dignità a qualcosa che non ha mai trovato spazio di espressione, sentirsi liberi per una volta di essere ciò che si è, di scrollarsi di dosso quella cappa di convenzioni che definiscono cosa si possa o non si possa sentire. A volte inciampando, si cade in un abbraccio.

Duille 

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Eccomi! Sono una scrittrice in erba, divoratrice di libri, sognatrice professionista e ansiosa sociale multicorazzata. Ho la fissa dei ricordi, la testa fin troppo tra le nuvole, interessi disordinati, un amore impossibile per gli alberi e una passione al limite del ridicolo per le serie tv. Ah, e le presentazioni non sono proprio il mio forte. Si vede?

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