sabato 19 settembre 2015
Tentacoli di casa: routine
Molti di noi, quando erano piccoli, avevano un amico speciale, un giocattolo magico capace di regalarci il coraggio necessario a fare qualsiasi cosa, purché fosse con noi. Un pupazzetto di pezza, un camioncino, una copertina di stoffa alla Linus in cui rifugiarsi per combattere la paura. Era come se conservassimo dentro questi oggetti tutto il bene del mondo e ci sentivamo sicuri ad averli accanto a noi.
Molti di noi conservano ancora quei magici Daimon da qualche parte. Molti di noi ne creano addirittura di nuovi: un libro che ha segnato un momento della nostra vita, un portachiavi morbido regalatoci alle medie, un quadernetto/scrigno in cui nascondere i nostri pensieri, l'Ipod con tutte le colonne sonore delle nostre emozioni, una sciarpa, un vecchio maglione sformato da indossare nei momenti di bisogno, una collana comprata per caso in un viaggio lontano. Sono tutti fratelli di quel pupazzetto che ormai siamo troppo grandi per portarci dietro nel nostro girovagare nel mondo. Potremmo dire che sono una versione in positivo degli Horcrux di Harry Potter. Solo che noi non abbiamo assassinato la nonna per crearli. In mezzo a tutte queste persone che si muovono in compagnia del loro protettore magico in miniatura, ci siamo noi, l'esercito degli ansiosi sociali, che di un portachiavi morbido, di una collana o di un quaderno non se ne fanno niente. O meglio, non bastano. L'ansioso sociale medio, come avrete capito, vive terrorizzato anche dai cestini della spazzatura. E' un fascio di nervi ambulante con gli occhi perennemente strabuzzanti come un gatto davanti ad una vasca da bagno piena. Praticamente, siamo dei lemuri in borghese. Tutto è minaccioso, pericoloso, da evitare. Ogni passo va calcolato meticolosamente, perché camminiamo sempre su un filo sospeso e senza neanche la cordicella di sicurezza sulla schiena, e questo non perché vogliamo fare gli impavidi. Semplicemente, nel circo dove lavoriamo noi vige la regola del massimo risparmio. Quindi, lemuri in borghese che camminano su fili sospesi, o ancora meglio, scalatori senza una gamba e con problemi di asma a cui dei bulli hanno rubato l'unico inalatore lasciandolo sulla cima del Kilimangiaro. Capite bene da questa metafora che noi non abbiamo nessun interesse a scalare quella montagna, né ci interessa fare cose che la nostra natura da primati ha snobbato per una vita, ma siamo costretti a farlo. E, come conseguenza, sentiamo il bisogno di corazzarci a dovere per evitare attacchi a sorpresa di aquile reali, stambecchi a cui abbiamo violato il territorio e marmotte a cui abbiamo pestato involontariamente la coda mentre confezionavano la cioccolata.
Ma siccome indossare un armatura medioevale ci renderebbe un pelino appariscenti e andare in giro ricoperti di cuscini sarebbe piuttosto scomodo, ci tocca trovare alternative più "socialmente accettabili" per affrontare la nostra scalata quotidiana senza essere fatti a striscioline buone solo per un riso alla cantonese dal vento glaciale delle alte quote. E' così che ci ritroviamo a costruire infinite routine da rispettare alla lettera, che si stratificano negli anni aumentando le nostre difese immunitarie contro l'allergia alle persone, amuleti personali contro gli attacchi del pipistrello. Invece di avere quintali di ciondoli simboleggianti le religioni del mondo, noi abbiamo i talismani del coraggio, totem collezionabili come i fantasmini degli ovetti kinder, versioni delle zampe di coniglio in salsa ansia sociale rappresentate da rigide abitudini da non infrangere. Il che, attenzione, non ci rende dei soggetti affetti da disturbo ossessivo-compulsivo. Noi non crediamo che uscire dal percorso prestabilito produca conseguenze terribili, o che un vaso di fiori caduto da un balcone ci manderà al Creatore se non seguiamo la traiettoria scavata dai nostri piedi in anni di routine. Semplicemente, quelle routine sono la nostra corazza contro il mondo, spazi in cui, lentamente, proiettiamo un pochino di casa, come dei bracci di piovra invisibili che si allungano nelle strade che percorriamo ogni giorno o piccole nuvolette di nebbia che si condensano in punti precisi dello spazio, con un grande cartellone sorridente che annuncia "Casa (quasi)". Sono proprio questo: estensioni di casa, protuberanze di camere, parti di arredamento galleggianti, mensole di cucina che svolazzano allegramente, scrivanie che galoppano al nostro fianco in pieno stile Spirit Cavallo Selvaggio. Pezzetti di casa volate insomma, un po' Alice nel Paese delle Meraviglie, un po' Castello errante di Howl dopo un'esplosione. In quei tentacoli invisibili sono irretiti, come su un nastro trasportarore da aeroporto, le nostre lampade, i piatti della cucina e sì, anche i nostri sanitari (perché, diciamocelo, non esiste cosa più intima al mondo della propria tazza del gabinetto). Le routine fanno le veci della "casa base" usata dai bambini quando giocano a rincorrersi. In quello spazio, non ci possono prendere, siamo parzialmente al sicuro. Quella è casa-base. Non proprio casa, ma comunque abbastanza familiari da permetterci di riprendere fiato e abbassare un pochino la guardia. Siamo un po' come dei treni che seguono dei binari immaginari tracciati in un campo pieno di mine.
Ma facciamo un esempio, il mio, per la precisione: Io avevo un percorso molto preciso che mi permetteva di eseguire le attività quotidiane senza che mi cadessero i capelli ad ogni rumore forte: seguivo i binari invisibili dalla casa al pullman, passavo davanti allo stesso parco giochi tutti i giorni, prendevo sempre la stessa scorciatoia, attraversavo la strada sempre nello stesso punto e aspettavo alla fermata sempre ad una certa distanza dalla pensilina (non chiedetemi perché, sarebbe troppo lunga da spiegare). Entravo nell'autobus con il biglietto già in mano, obliteravo e mi sedevo nella quarta fila di sinistra, dal lato del finestrino, controllando sempre prima quanta gente ci fosse, per calcolare le probabilità che qualcuno si potesse sedere vicino a me. Quindi attaccavo il mio sgangherato mp3 e mi alienavo per i quaranta minuti che mi dividevano dall'arrivo. Giuro, per quaranta minuti io non guardavo nient'altro che il paesaggio fuori, ignorando completamente tutto quello che accadeva nell'autobus. Guardavo sfilare i paesi, facevo l'aggiornamento dei cambiamenti dettati da stagioni e intervento umano, salutavo le nutrie che mangiucchiavano nei campi. Avrei potuto ripetere il percorso del pullman ad occhi chiusi, con tanto di dettagli delle case o di coltura del periodo, ma non avrei saputo nemmeno indicare il genere della persona dietro di me. Pregate di non incontrare qualcuno come me se siete oggetto di un crimine. Non saprei identificare neanche un individuo vestito da clown tra dieci esattori delle tasse. Arrivata alla fermata, scendevo e mi settavo sui nuovi binari che mi avrebbero portato all'università: passavo davanti ad una pizzeria, un bar, quindi una via pedonale trafficata di studenti. Mi piaceva cercare le regolarità nella regolarità: il pendolare che comprava sempre la stessa mela dal fruttivendolo situato alla sinistra della strada, la ragazza nel cappotto giallo che risaliva la corrente come un salmone luccicante, portando a spasso il cane. Fantasticavo, mentre i binari mi portavano alla lezione del mattino. Avevo un posto preferito per ogni aula, sempre a metà stanza, in una posizione laterale, circa due o tre sedili oltre quello che dava al corridoio. Mangiavo sempre negli stessi posti, nelle stesse panchine o negli stessi scalini e andavo sempre negli stessi locali se ero in compagnia.
Al ritorno, non mi fermavo a guardare le vetrine, non entravo nei negozi, perché non erano luoghi approvati dalla piovra e poi riprendevo l'autobus (sempre a certi orari) e mi sedevo nello stesso posto, quarta fila, lato finestrino e tornavo a casa, seguendo al contrario la stessa identica strada. Lo so, adesso vi sembrerà che forse dovrei rivedere la mia idea di non essere una ossessiva compulsiva, ma vi assicuro che non sto negando l'evidenza, anche perché, dopo quello che ho raccontato, ho mandato alle ortiche anche quell'ultima briciola di dignità che conservavo per i tempi difficili, quindi che senso avrebbe negare? Io avevo (e spesso ho ancora) bisogno di questi percorsi perché la paura era tanta, troppa. Noi ansiosi sociali viviamo costruendo continuamente corazze, all'infinito. E' la corazza che tiene a bada il pipistrello, facendolo volare più lontano. Finché siamo nel flusso invisibile del tentacolo, siamo un po' più al sicuro e riusciamo addirittura a concederci il lusso di una tintarella, noi, eterni lenzuoli sbiancati dalla paura, scambiati anche dai vampiri per gli avanzi di qualche spuntino altrui. Inutile tentare di mettere un piedino fuori dal percorso del tentacolo, perché il pipistrello non aspetta altro che svolazzarci vicino per mostrarci la valle di desolazione che è il nostro mondo. Mordor al confronto è un campo di fragoline di bosco popolato di orchetti con treccine bionde che saltellano felici con i loro cestini di vimini. Uno spettacolo forse di dubbio gusto estetico, ma di certo non pericoloso. Noi siamo come dei castori che costruiscono dighe. Costruiamo, costruiamo, per arginare il fiume che immancabilmente ci inonderà e, ricordo, noi non sappiamo nuotare e veniamo da un contesto psichico in cui il risparmio la fa da padrone! Siamo solo noi e il fiume. Quindi costruiamo in continuazione argini per continuare a muoverci, per fare quello che ci viene chiesto con insistenza di fare: essere normali. Creiamo protocolli neanche stessimo maneggiando particelle atomiche al Cern, ci mimetizziamo come insetti stecco tra il fogliame, ci improvvisiamo lampioni sperando che nessun cane ci faccia la pipì addosso. Le routine sono il nostro pupazzo di pezza, l'ennesima torre di guardia da cui controllare gli spostamenti del pipistrello e, dove necessario, assestargli un bel colpo di fionda. Quando si ha molta paura, si possono fare due cose: evitare la situazione oppure farsi abiti con carta bullonata in modo da attutire i colpi. La routine è la nostra carta bullonata. Non è tanto follia, quanto istinto di sopravvivenza. Forse allora più che lemuri in borghese, siamo Rambo in carta da pacchi.
Duille
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domenica 13 settembre 2015
Vivere creativamente
Creare è una parola simile ad un incantesimo: è un azione declinata all'infinito, senza confini o spaziatura, senza limiti e senza tempo. Significa far nascere, dare luce, generare, regalare al mondo qualcosa che prima non esisteva e inserirlo nel movimento della rotazione terrestre, come un germoglio piantato in una crepa del marciapiede, disponibile a tutti pur non appartenendo più a nessuno se non a se stesso.
E' un po' come aver operato una mitosi, come se dalla nostra testa o dalle nostre mani fosse uscita una piccola bolla di sapone denso e dai colori brillanti che ha iniziato a galleggiare nell'aria, indipendente da noi eppure piena dei nostri riflessi. La creazione è quindi un po' un ossimoro: è qualcosa di totalmente nostro, una proiezione di ciò che siamo al di fuori di noi, familiare come solo ciò che ci appartiene profondamente può essere eppure, nel momento stesso in cui nasce, ormai diventata altro, come un riflesso d'acqua in una pozzanghera. E' il nostro riflesso quello che vediamo, sono i nostri occhi quelli che ci guardano dalla loro casa acquosa, i nostri capelli quelli che ondeggiano ad un passo da terra, eppure non siamo totalmente noi, perché quel riflesso è fatto d'acqua e luce, quel viso che ci osserva capovolto è distorto dai cerchi prodotti da una goccia caduta da un ramo, da una carezza di vento o magari da una libellula appoggiatasi sulla punta del nostro naso riflesso. Siamo noi mischiati con il mondo come tempere su una tavolozza di legno. Ho sempre pensato che ci fosse qualcosa di misterioso nel modo in cui creiamo, come se avessimo anche noi una bacchetta magica incastonata nella punta delle dita, nel fondo della gola o in qualche angolo della mente. Un piccolo seme che cresce fino a velarci gli occhi con il reticolo delle sue foglie, impossibile da ignorare, anche quando sembra solo un'erbaccia senza valore. Diciamocelo, ci meravigliamo un po' anche noi quando creiamo qualcosa di nuovo e bello. Ci sorprendiamo di noi stessi, ci stupiamo di essere riusciti in questa incredibile magia, ci chiediamo quasi se siamo stati proprio noi a compiere questo piccolo miracolo.
Quella piccola bolla perfetta è proprio mia? Quei colori riflessi dai raggi di sole che cambiano secondo cromature melodiche sono proprio usciti dai miei occhi? E si compie allora una seconda magia, quella della meraviglia. Ci siamo guardati creare e ci ritroviamo a sorridere increduli di quello che abbiamo fatto, della vita che abbiamo trasferito in quella bolla di sapone galleggiante davanti a noi, ad un metro da terra, leggera come l'aria, anche quando è piena di dolore. Perché anche questa è la magia del creare, in fondo: rendere bello anche l'orribile, estetizzare anche il dolore più aguzzo e le lacrime più salate, estetizzare fino ad anestetizzare, fino a ricoprire quell'emozione bruciante di balsamica ambra, fino a rendere il male un monile dai colori tenui da indossare senza timore di essere feriti. Creiamo ambra quindi, ambra leggera come una bolla di sapone, sfere di resina che volano sopra di noi, lasciandoci sollevati, ad un metro da terra insieme a lei. Lei, frutto della nostra mente, che ci insegna come si vola, pur rimanendo perfettamente incollati a terra. E' magia questa. Qualsiasi sia la forma che questa bolla di sapone assumerà, sarà pur sempre magica e tutti saremo in grado di crearla. Spesso sento dire da molte persone di non essere capaci di creare arte, di non avere la manualità, il talento o l'idea giusta, ma non è così. Tutti creiamo arte ogni giorno, anche quando sembra che non lasciamo dietro noi niente di tangibile. Non dobbiamo essere tutti Picasso, Mozart, Michelangelo, Sepulveda o Sorrentino per creare arte. Non dobbiamo per forza essere dei graphic designers, dei videomaker dalle incredibili doti o dei programmatori di videogiochi dall'ultraterreno talento per fare magie. E non lo dico solo io! Un importante psicologo del Novecento dal nome morbido come quello di un orsetto di pezza, Donald Winnicott, sosteneva che creare significasse prima di tutto vivere creativamente, una cosa che tutti possiamo fare ogni giorno. Vivere creativamente significa non smettere mai di sognare e di fantasticare, significa continuare a guardare il mondo con i propri occhi e non con quelli della realtà, significa lasciare che le cose intorno a noi ci stuzzichino il palato come farebbe un bel piatto di spaghetti al sugo con le polpette. Io credo che dentro ognuno di noi esista un modo unico di osservare, inimitabile, speciale e spettacolare ed è quello sguardo particolare che ci rende capaci di vivere creativamente, facendo sì che ogni passo poggiato sull'asfalto faccia sbocciare fiori dalla nostra suola, o che un ramo proteso verso di noi diventi una mano decisa ad accarezzarci.
Vivere creativamente significa pensare che dentro una pozzanghera d'acqua ci sia un mondo alla rovescia in cui tutto si muove al contrario o che le persone si muovano secondo i ritmi della musica che stiamo ascoltando mentre viaggiamo in autobus. Significa credere che nel riflesso di sole lanciato da una finestra si celi una fatina luminosa intenta ad indicarci la strada o che una lanterna cinese lanciata in aria in una notte d'agosto possa solleticare i piedi ad una stella. Vivere creativamente significa continuare ad immaginare, divertirsi ad interpretare la realtà, plasmarla come se fossimo degli scultori dell'irreale, ma anche vedere le piccole bellezze che già esistono. Vivere creativamente significa fare attenzione, essere recettivi, fare arte con i sensi, perché non si deve conoscere la musica per essere musicisti. Si può suonare la risacca marina o dirigere il tubare dei piccioni in una piazza. Si può soffiare il vento tra gli alberi e pizzicare il brusio della folla in città. Si può addirittura suonare il silenzio di una biblioteca, fino a farlo vibrare di sottili fili nylon, quasi tangibili, ma solo ai più attenti. La manualità non ha niente a che vedere con la creatività, né con l'ispirazione. Si può creare senza sapere nemmeno impugnare un pennello, senza avere la minima idea di come fare una pallina con una manciata di plastilina, senza conoscere un singolo passo di danza, senza sapere nulla di programmazione o film making. Creare non ha nulla a che fare con la tecnica. Creare significa dare forma a bolle di sapone. Una cosa che sappiamo fare fin da bambini.
Duille
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domenica 6 settembre 2015
Anche i girini possono battere le serpi
A molte persone piacciono i film horror per lo stato di tensione che producono e i brividini lungo la schiena che fanno battere i denti e la colonna vertebrale. E' divertente tenere la faccia nascosta sotto le coperte da cui, ogni tanto, far affacciare un occhio coraggioso per valutare la situazione, occhio che di solito si rivela poi non tanto coraggioso quando si ritira precipitosamente nell'orbita chiusa di fronte al primo rumore sospetto della pellicola.
I film dell'horror ci hanno abituato a prendere confidenza con la paura di un certo tipo, quella di creature dai visi sfregiati, di uomini indossanti maschere comprate di corsa al discount sotto casa, di bambini troppo pallidi e apparentemente ignari della rivoluzionaria invenzione degli elastici per capelli, di presenze invisibili con il pallino dell'arredamento. Si tratta sempre di entità misteriose, sconosciute, a volte addirittura invisibili. Di fatto sembra che questi film siano stati scritti da mamme apprensive che ricordano di non dare mai confidenza agli sconosciuti, soprattutto se hanno un coltello grande quanto un vaso Ming nelle mani. Nessuno ha mai pensato però di aggiungere a questa carrellata di simpatici personaggi dal dubbio gusto per l'abbigliamento il re dei cattivi, peggio di Sauron in persona: il Rimugiserpe. Creaturina deliziosa, il Rimugiserpe, davvero. Un perfetto villain alla Batman, che racchiude l'eleganza di Pinguino, l'arguzia dello Spaventapasseri, l'ironia dell'enigmista e la genuina cattiveria del Joker. La quintessenza del male inguantata in un abito da Lord inglese. Anche Samara tornerebbe nel suo pozzo umido a farsi venire i reumatismi pur di non dove fare una conversazione con il Rimugiserpe. Ma chi è il Rimugiserpe? E' quella vocina nella testa che vi scoraggia sempre quando avete in mente un progetto, che vi fa sentire piccoli come una biglia rotta in un oceano di sabbia, che vi ripete sempre di non farvi grandi speranze, perché non avete niente di speciale da dare al mondo. In una parola: è quel malefico ronzio di sottofondo che è il Rimuginio. Tutti rimuginiamo, anche se noi ansiosi sociali siamo dei campioni. Che volete farci, c'è chi sceglie di diventare un genio degli scacchi e chi si impegna in una sistematica autodistruzione rimuginante. Noi ansiosi sociali rimuginiamo quando andiamo a fare la spesa, quando ci alziamo dal letto, prima di addormentarci, quando camminiamo per strada, addirittura mentre parliamo con qualcuno.
Ve l'ho detto, siamo dei campioni. Cintura nera di rimuginio, pesi massimi dell'insicurezza, maledettamente bravi a metterci tronchi d'albero tra le ruote. I nostri sono Rimugiserpe di prima qualità, forgiati dal fuoco di mille battaglie. Il problema del Rimugiserpe, del nostro come del vostro, è però uno solo: non riflette nessuno dei modelli del film dell'orrore. Non è brutto, non è deturpato, né palesemente malefico e anche il suo gusto per il vestire non è evidentemente orrido. Non è uno che aggredisce con mazze da hockey, con coltelli rubati a Sandokan o con fantasiose mani uncinate che hanno rubato il copyright a Wolverine. Il superpotere del Rimugiserpe è l'ambiguità, la sua strisciante cattiveria, la sua serpentesca lingua biforcuta. All'apparenza è la classica figura del mentore, saggio vecchio aristocratico inglese pronto ad elargire consigli mentre sorseggia pensieroso un bicchiere di buon cognac invecchiato. Si presenta proprio quando se ne ha bisogno, come Batman con il batsegnale, come la fata turchina al pianto disperato di Cenerentola, come il prode John Keating all'urlo "O capitano, mio capitano". Suvvia, chi non vorrebbe un John Keating pronto a tenderci la mano nel momento in cui se ne ha più bisogno? O un barbuto John Mcguire deciso ad aggiustarci a tutti i costi? Insomma, chi non vorrebbe un Robin Williams che, paternamente, guidi nel buio aiutando a schivare sassi, buche e qualche cacca di cane? Il Rimugiserpe è tutto questo: una figura che ispira fiducia, che sembra conoscerci meglio di noi stessi, che sa trovare la parola giusta per catturare la nostra simpatia, che non ci biasima ma ci comprende profondamente, genuinamente interessato alla nostra felicità. Qualcuno a cui regaleremmo volentieri un rene, se ce lo chiedesse. Ci fa sentire al sicuro, con quel suo fare da intellettuale vecchia scuola e lo sguardo comprensivo da mamma oca, al punto che alla fine, non possiamo fare a meno di affidarci a lui, ai suoi modi eleganti, al suo sguardo che ricorda tanto il nostro professore preferito e finiamo col pendere dalle sue labbra come un babbuino alla ruota pneumatica dello zoo. In fondo, cosa abbiamo da perdere?
Lui sembra avere tutte le risposte che ci mancano e noi siamo pieni di domande che continuano a cadere nel vuoto come la tabellina del nove. Finalmente qualcuno sembra pronto a raccoglierle, queste domande, e questo qualcuno è il Rimugiserpe. Ma, come ci insegna Cluedo, l'assassino è sempre il maggiordomo ed il Rimugiserpe non fa eccezione. Dietro a quell'attitudine da nobiluomo ottocentesco, si cela in realtà un lupo travestito da agnello,un Grima Vermilinguo in abiti britannici e occhialetti di corno. Credendo di chiamare Batman, in realtà stiamo nominando per tre volte Beetlejuice. Con la scusa di aiutarci, il Rimugiserpe si attorciglia intorno al nostro collo come una sciarpa e ci sussurra parole velenose all'orecchio camuffandole da nuvolette di zucchero filato. In effetti sta tutta qui l'eccezionale cattiveria del Rimugiserpe: l'arte dell'oratoria. Il maledetto non userà parole come "stupido", "inetto", "povero scemo" (a quello ci pensa già il procione), ma argomenterà, con proprietà di linguaggio, esempi e dimostrazioni, la tesi secondo cui, in effetti, degli inetti incapaci di qualsivoglia cosa lo siamo davvero. Con modi gentili ci darà l'impressione di toglierci i famosi prosciutti dagli occhi mostrandoci la realtà della nostra non poi così brillante situazione, rivelandoci che quello che noi consideravamo talento era in realtà semplice apprendimento scolastico, che la nostra evidente bellezza in realtà è solo un cumulo di bei dettagli che nell'insieme producono un quadro di Picasso, che la nostra socievolezza è però priva di contenuto. Argomenta, il disgraziato, e lo fa maledettamente bene, lasciando a noi l'ingrato compito di mettere la lapide alla nostra tomba identitaria: "qui giace il Nulla. Ha vissuto nel nulla ed è morto nel nulla. Prego, non lasciate fiori, che sono allergico". La gentilezza del Rimugiserpe è in realtà accondiscendenza, la tenerezza che ci mostra è spietata pietà, la comprensione, altezzosità velata. Ci intorta per bene, il nostro serpentesco amico, facendoci ingoiare palline di piombo ricoperte di codette di zucchero. E' più simile alla madre del Sesto senso che avvelenava la figliastra mettendole il veleno nella minestra, che non ad un terribile Scream dalla faccia alla Munch.
Il Rimugiserpe ci avvelena quindi, usando le parole come un nettare catramoso, ci dissuade dal prendere decisioni avventate, dal rischiare troppo, ma a volte anche dal giocare sul sicuro, con la scusa di non farci fare una inevitabile brutta figura, di non abbattere il nostro ego o semplicemente per evitarci inutili sofferenze coprendoci di ridicolo. Così facendo ci riduce all'immobilismo, smontandoci pezzo per pezzo come un vecchio puzzle impressionista. Alla fine ci rende così insicuri da lasciarci sparpagliati sul tavolo, intenti a raccoglierci senza neanche uno straccio di libretto d'istruzioni dell'IKEA, totalmente dipendenti dalla sua parola, sempre più convinti che lui la sappia davvero più lunga di noi. E mentre noi cerchiamo di capire quando diavolo siamo diventati questa massa di pezzetti bianchi impossibili da combinare tra loro, il Rimugiserpe succhia allegramente con una cannuccia la nostra autostima, ormai ridotta ad un pesce rosso nella sua boccia. Capirete bene che ribellarsi al Rimugiserpe è difficilissimo: come riconoscere il conte Dracula nell'aspetto rassicurante del Rimugiserpe, che sembra uscito da un libro di Harry Potter? Una volta presi nella sua rete, diventerà molto ostico liberarsi dalla sua morsa da boa constrictor, perché anche quando metteremo in dubbio la sua parola, inevitabilmente finiremo con il crederci persone incapaci di accettare le critiche e ci manderemo all'angolo dietro alla lavagna con il cappello d'asino. Combattere contro questo intellettuale laureato a Cambridge è durissima e dovremo raccattare anche l'ultima squama di autostima rimasta al nostro pesce per sfidare a singolar tenzone il nostro occhialuto britannico, magari lanciandogli il molliccio pesciolino dritto in faccia. Per noi ansiosi sociali la situazione è particolarmente dura perché non possiamo contare neanche su un pesce rosso, ma su un girino malaticcio e pallido che sembra che stia per tirare le cuoia da un momento all'altro, frutto di anni di milkshakes del Rimugiserpe. Nonostante questo, non c'è da temere: come ci insegnano i film dell'horror, alla fine, miracolosamente, la brunetta urlatrice finisce sempre col salvarsi dalla mano del suo assassino soprannaturale, pronta per il sequel del film. Secondo questa filosofia, quindi, anche da un girino può nascere un pesce rosso e da lì una carpa koi, un delfino ed infine un'orca che salta recinzioni come se avesse bevuto a goccia un intero barattolo di olio cuore. Basta quella piccola creaturina asmatica per capovolgere la situazione, ma bisogna credere in lei, dobbiamo scommettere sul cavallo più sfigato, sul numero che ci sta più antipatico, sul contendente più scarso. Dobbiamo fare un atto apparentemente suicida, anche se forse suicida non lo è del tutto. Ricordiamoci che siamo nel mondo alla rovescia del Rimugiserpe, dopotutto. In fondo è proprio vero che i film insegnano: se è vero che ci si deve guardare dagli uomini con maschera e motosega (e dai maggiordomi), è altrettanto vero che da cheerleader biondine e svampite sono nate ammazzavampiri di prima qualità. E se Antman può essere un supereroe, anche il nostro girino potrà vincere la battaglia con il terribile Rimugiserpe. Un colpo di coda alla volta.
I film dell'horror ci hanno abituato a prendere confidenza con la paura di un certo tipo, quella di creature dai visi sfregiati, di uomini indossanti maschere comprate di corsa al discount sotto casa, di bambini troppo pallidi e apparentemente ignari della rivoluzionaria invenzione degli elastici per capelli, di presenze invisibili con il pallino dell'arredamento. Si tratta sempre di entità misteriose, sconosciute, a volte addirittura invisibili. Di fatto sembra che questi film siano stati scritti da mamme apprensive che ricordano di non dare mai confidenza agli sconosciuti, soprattutto se hanno un coltello grande quanto un vaso Ming nelle mani. Nessuno ha mai pensato però di aggiungere a questa carrellata di simpatici personaggi dal dubbio gusto per l'abbigliamento il re dei cattivi, peggio di Sauron in persona: il Rimugiserpe. Creaturina deliziosa, il Rimugiserpe, davvero. Un perfetto villain alla Batman, che racchiude l'eleganza di Pinguino, l'arguzia dello Spaventapasseri, l'ironia dell'enigmista e la genuina cattiveria del Joker. La quintessenza del male inguantata in un abito da Lord inglese. Anche Samara tornerebbe nel suo pozzo umido a farsi venire i reumatismi pur di non dove fare una conversazione con il Rimugiserpe. Ma chi è il Rimugiserpe? E' quella vocina nella testa che vi scoraggia sempre quando avete in mente un progetto, che vi fa sentire piccoli come una biglia rotta in un oceano di sabbia, che vi ripete sempre di non farvi grandi speranze, perché non avete niente di speciale da dare al mondo. In una parola: è quel malefico ronzio di sottofondo che è il Rimuginio. Tutti rimuginiamo, anche se noi ansiosi sociali siamo dei campioni. Che volete farci, c'è chi sceglie di diventare un genio degli scacchi e chi si impegna in una sistematica autodistruzione rimuginante. Noi ansiosi sociali rimuginiamo quando andiamo a fare la spesa, quando ci alziamo dal letto, prima di addormentarci, quando camminiamo per strada, addirittura mentre parliamo con qualcuno.
Ve l'ho detto, siamo dei campioni. Cintura nera di rimuginio, pesi massimi dell'insicurezza, maledettamente bravi a metterci tronchi d'albero tra le ruote. I nostri sono Rimugiserpe di prima qualità, forgiati dal fuoco di mille battaglie. Il problema del Rimugiserpe, del nostro come del vostro, è però uno solo: non riflette nessuno dei modelli del film dell'orrore. Non è brutto, non è deturpato, né palesemente malefico e anche il suo gusto per il vestire non è evidentemente orrido. Non è uno che aggredisce con mazze da hockey, con coltelli rubati a Sandokan o con fantasiose mani uncinate che hanno rubato il copyright a Wolverine. Il superpotere del Rimugiserpe è l'ambiguità, la sua strisciante cattiveria, la sua serpentesca lingua biforcuta. All'apparenza è la classica figura del mentore, saggio vecchio aristocratico inglese pronto ad elargire consigli mentre sorseggia pensieroso un bicchiere di buon cognac invecchiato. Si presenta proprio quando se ne ha bisogno, come Batman con il batsegnale, come la fata turchina al pianto disperato di Cenerentola, come il prode John Keating all'urlo "O capitano, mio capitano". Suvvia, chi non vorrebbe un John Keating pronto a tenderci la mano nel momento in cui se ne ha più bisogno? O un barbuto John Mcguire deciso ad aggiustarci a tutti i costi? Insomma, chi non vorrebbe un Robin Williams che, paternamente, guidi nel buio aiutando a schivare sassi, buche e qualche cacca di cane? Il Rimugiserpe è tutto questo: una figura che ispira fiducia, che sembra conoscerci meglio di noi stessi, che sa trovare la parola giusta per catturare la nostra simpatia, che non ci biasima ma ci comprende profondamente, genuinamente interessato alla nostra felicità. Qualcuno a cui regaleremmo volentieri un rene, se ce lo chiedesse. Ci fa sentire al sicuro, con quel suo fare da intellettuale vecchia scuola e lo sguardo comprensivo da mamma oca, al punto che alla fine, non possiamo fare a meno di affidarci a lui, ai suoi modi eleganti, al suo sguardo che ricorda tanto il nostro professore preferito e finiamo col pendere dalle sue labbra come un babbuino alla ruota pneumatica dello zoo. In fondo, cosa abbiamo da perdere?
Il Rimugiserpe ci avvelena quindi, usando le parole come un nettare catramoso, ci dissuade dal prendere decisioni avventate, dal rischiare troppo, ma a volte anche dal giocare sul sicuro, con la scusa di non farci fare una inevitabile brutta figura, di non abbattere il nostro ego o semplicemente per evitarci inutili sofferenze coprendoci di ridicolo. Così facendo ci riduce all'immobilismo, smontandoci pezzo per pezzo come un vecchio puzzle impressionista. Alla fine ci rende così insicuri da lasciarci sparpagliati sul tavolo, intenti a raccoglierci senza neanche uno straccio di libretto d'istruzioni dell'IKEA, totalmente dipendenti dalla sua parola, sempre più convinti che lui la sappia davvero più lunga di noi. E mentre noi cerchiamo di capire quando diavolo siamo diventati questa massa di pezzetti bianchi impossibili da combinare tra loro, il Rimugiserpe succhia allegramente con una cannuccia la nostra autostima, ormai ridotta ad un pesce rosso nella sua boccia. Capirete bene che ribellarsi al Rimugiserpe è difficilissimo: come riconoscere il conte Dracula nell'aspetto rassicurante del Rimugiserpe, che sembra uscito da un libro di Harry Potter? Una volta presi nella sua rete, diventerà molto ostico liberarsi dalla sua morsa da boa constrictor, perché anche quando metteremo in dubbio la sua parola, inevitabilmente finiremo con il crederci persone incapaci di accettare le critiche e ci manderemo all'angolo dietro alla lavagna con il cappello d'asino. Combattere contro questo intellettuale laureato a Cambridge è durissima e dovremo raccattare anche l'ultima squama di autostima rimasta al nostro pesce per sfidare a singolar tenzone il nostro occhialuto britannico, magari lanciandogli il molliccio pesciolino dritto in faccia. Per noi ansiosi sociali la situazione è particolarmente dura perché non possiamo contare neanche su un pesce rosso, ma su un girino malaticcio e pallido che sembra che stia per tirare le cuoia da un momento all'altro, frutto di anni di milkshakes del Rimugiserpe. Nonostante questo, non c'è da temere: come ci insegnano i film dell'horror, alla fine, miracolosamente, la brunetta urlatrice finisce sempre col salvarsi dalla mano del suo assassino soprannaturale, pronta per il sequel del film. Secondo questa filosofia, quindi, anche da un girino può nascere un pesce rosso e da lì una carpa koi, un delfino ed infine un'orca che salta recinzioni come se avesse bevuto a goccia un intero barattolo di olio cuore. Basta quella piccola creaturina asmatica per capovolgere la situazione, ma bisogna credere in lei, dobbiamo scommettere sul cavallo più sfigato, sul numero che ci sta più antipatico, sul contendente più scarso. Dobbiamo fare un atto apparentemente suicida, anche se forse suicida non lo è del tutto. Ricordiamoci che siamo nel mondo alla rovescia del Rimugiserpe, dopotutto. In fondo è proprio vero che i film insegnano: se è vero che ci si deve guardare dagli uomini con maschera e motosega (e dai maggiordomi), è altrettanto vero che da cheerleader biondine e svampite sono nate ammazzavampiri di prima qualità. E se Antman può essere un supereroe, anche il nostro girino potrà vincere la battaglia con il terribile Rimugiserpe. Un colpo di coda alla volta.
Duille
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domenica 30 agosto 2015
Bicchieri sbeccati su tappi di sughero.
Oggigiorno quando si parla di fragilità, lo si fa sempre con una punta di vergogna. Diciamoci la verità: parlare di fragilità non va di moda, probabilmente perché va fin troppo di moda. Potrà sembrare un controsenso, ma se ci pensate bene un senso ce l'ha. Qualche sapientone un giorno ha scoperto che parlare delle proprie disgrazie è fonte di big money, soldi facili che piovono dal cielo come le arance nel carnevale di Ivrea, ed ha deciso di costruirci sopra un impero, pronto a sfruttare i cuoricini più commossi dalla vita. E questo ha decretato la fine della nostra libertà di parola. Spettacolarizzare il dolore ha portato a considerare i discorsi sulla fragilità secondo due sole teorie:
1- Il Paradigma della piccola fiammiferaia
2- Il teorema del prode eroe
Capite bene che, di fronte a questo particolare modo di concepire la fragilità, sia essa fisica o psichica, parlarne nel quotidiano diventa piuttosto ostico. Proprio perché va tanto di moda nel mondo dello spettacolo, la fragilità è fuori moda nel mondo reale. La nostra società ci impone il principio del Superuomo, sia esso Spiderman o Batman. Indipendentemente dal fatto che preferiate un eroe con poteri sovrannaturali prodotti da un ragno transgenico o un ricco uomo d'affari traumatizzato dalla vita, il risultato è l'immagine di blocchi granitici, pugili che prendono a calci le proprie fragilità fino mandarle al tappeto. Non c'è bisogno di parlarne, di mostrare le proprie ferite, bisogna rispondere al dolore combattendo il crimine, irrigidendosi fino a far scomparire le tumefazioni sotto strati di corazza. Dobbiamo essere uomini e donne d'azione, prestazionali, capaci di fare tutto e di farlo al meglio. In quest'ottica dominata dal principio del Superuomo, la fragilità è quindi l'opposto della forza, ci mostra deboli, ci rallenta, ci rende meno pettoruti adoni dai tratti perfetti e più gracili adolescenti in cerca di identità. Se si deve proprio avere una fragilità, la società raccomanda di sceglierla nel cesto dei disturbi da lei approvati: una bella anoressia che ci rende regine delle nevi dagli zigomi scavati, oppure, perché no, una dipendenza da cocaina, che ci renda prestanti come atleti congolesi pronti per una staffetta olimpionica. Parlare di ciò che sta sotto a questa perfezione, della carta velina di cui siamo costruiti sotto questa apparente corazza di adeguatezza, è però vietato, pena l'onta pubblica, il discredito generale, l'esilio sociale. Nessuno quando parla delle proprie debolezze vuole essere tacciato per un cercatore di compassione con tanto di retino e ancora meno vuole essere schiacciato sotto la finta immagine dell'eroe che, proprio in quanto tale, non soffre per il proprio disturbo, ma lo combatte a suon di positività, neanche fosse un personaggio dei My Little Pony.
Piuttosto, preferiamo tacere e continuare a covare la nostra fatica nel silenzio della nostra mente, annaspando nel tentativo di apparire normali, belli, perfettamente naturali, completamente a nostro agio nei nostri panni. Quello che la società non vuole proprio capire è che il dolore esiste, che la gente è fatta anche di carta velina e che esiste almeno un altro modo di parlare delle proprie fragilità. Attenzione società, non implodere mentre ti porgo in mano il Santo Graal dell'ovvio: la terza via è il Racconto. Bisogna RACCONTARSI, con il solo scopo di essere compreso dagli altri e non di ottenere fazzolettini extra o una pacca compassionevole sulla spalla, si tratta di rendersi più trasparente e non di trasformarsi in un Action Man che ha capito tutto della vita. Quello che dobbiamo fare è mostrare i confini peculiari del nostro essere, che, udite udite, probabilmente avrà una forma diversa rispetto al noioso quadrato supereroistico a cui ci hanno abituati. Non siamo tutti personaggi di Minecraft, alcuni di noi sono rotondi, altri sono dei ricci pieni di punte, altri ancora hanno la forma di orsi bruni, altri potrebbero apparire come dei cuscini, o dei pennelli. Ognuno ha la sua forma e capire cosa siamo e perché siamo non ci rende cercatori di fama spicciola, né Capitan America dal sorriso plastificato. Ci rende semplicemente umani. Parlare delle proprie fragilità ci permette di sentirci meno soli, di capirci davvero profondamente, scoprirci diversi eppure simili, conoscere modi di pensare ed essere unici e sì, anche di renderci conto di quanto siamo fortunati a non avere paura di un hamburger, di una relazione o solo di andare a comprare un biglietto dell'autobus. Certo, sarebbe la fine della maggior parte dei talk show che spettacolarizzano il dolore se si scoprisse che non siamo l'eccezione alla regola, ma SIAMO la regola. Siamo la prassi, stiamo tutti così. Non siamo originali protagonisti di drammi alla Promessi Sposi, né sfortunati oggetti dello stalking innamorato di Madama Sfiga. Siamo tutti nella stessa barca, sia essa un gommone, una ciambella, uno yacht, una zattera o un tappo di sughero. Cambia solo il mezzo con cui ci muoviamo, ma sempre di oggetti galleggianti si tratta. Se invece di preoccuparci di fingere costantemente di avere i piedi ben piantati per terra ammettessimo di essere in mare aperto ed in più con il mal di mare, scommetto che troveremmo molte mani alzate attaccate a facce verdi dalla nausea. Parlare di fragilità in questo modo è sano, è bello e secondo me è anche giusto, perché in fondo siamo tutti dei bicchieri sbeccati. Quante volte, quando qualcuno ha ammesso di sentirsi a disagio in una situazione, ci siamo sentiti stranamente sollevati e più in pace? E' questo senso di sollievo che cerchiamo di dare parlando della fragilità: accorciare le distanze, sentirsi meno alieni, incontrare il simile anche negli opposti, vedere i graffi sui vetri altrui e capire di essere per la prima volta normali.
Per riconoscere che il detto "Tutto il mondo è paese" non è mai stato così vero.
Duille
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domenica 23 agosto 2015
Un giorno di ordinaria follia
In quanto ansiosa sociale mi sono abituata negli anni a non sorprendermi troppo di fronte alla mia apparente, insensata follia. Sono avvezza a tutte le forme di paura che mi si presentano davanti al naso come sempre nuovi e originali tipi di sushi, ciascuno avvolto nel suo simpatico abitino di salmone, tonno, polipo, anguilla, e su letti di riso, tofu o alga nori. Insomma, la varietà non manca nella mia vita. Mi rendo conto però che tale consuetudine non sia altrettanto consolidata tra voi comuni mortali baciati da follie alternative alla mia. E così ho pensato di attingere al mio già ricco archivio di episodi di vita costellati dalla mia fedele compagna di avventure e raccontarvi un giorno di ordinaria follia alla Duille.
Domenica scorsa i miei amici hanno organizzato una gita in un paesino nei dintorni della mia zona, un piccolo borgo sul cucuzzolo di una collina immersa nel verde, in cui si teneva una delle tante manifestazioni medievali che vanno tanto di moda, almeno qui al Nord. Sulla carta, un'uscita perfetta: boschi, medioevo, frescura dei colli, amici, tutto sembrava prefigurare una giornata indimenticabile. E non solo! Si stava anche avverando ciò che la me adolescente aveva sempre desiderato: fare parte di un gruppo, poter vestire i panni della mia età, essere cercata e non cercare, essere il famoso stelo d'erba nel prato e non la solita erbaccia che cresce solitaria, inevitabilmente incompresa, strutturalmente diversa. In una parola, essere normale, per una volta. (E direi che con questa affermazione mi sono proclamata regina degli sfigati, ma che ci volete fare, ho avuto una vita triste e solitaria, ma vissuta con molta dignità...più o meno). Ma mentre la me adolescente esultava con tanto di pon pon e maldestre esibizioni acrobatiche, la mia parte adulta si ritrovava a fare i conti con la suddetta grande compagna di viaggio, l'ansia sociale, che stava già sguinzagliando la sua squadra di guastafeste per, appunto, guastarmi tutto il divertimento e rendere questa giornata perfetta il solito inferno emotivo per me e per il mio povero stomaco, già rassegnato ad una nuova prova di contorsionismo estremo. E' iniziata così la consueta riunione condominiale, che ha assunto all'incirca questi toni:
Rimugiserpe: Cara Duille, ma sei sicura che sia il caso di andare? Non mi sembri proprio in forma. Guardati! E' da ieri sera che stai cercando di tenerci fuori dalla questione, senza successo tra l'altro, come puoi vedere. E poi, non hai bisogno di sbatterci fuori dalla tua mente, noi siamo qui per aiutarti! Pensa un attimo alle terribili situazioni a cui potresti andare incontro una volta lì: magari sarai costretta a partecipare a quei terrificanti giochi medievali, oppure ad uno degli spettacoli. Sarebbe mortalmente imbarazzante dover scappare a gambe levate dal panciuto bardo di turno, e per di più davanti a tutti.
Procione iracondo: Infatti, alla tua età non ti puoi mica rifiutare. Cosa sei, una poppante che si nasconde tra le gonne della mamma?
Rimugiserpe: Procione ha ragione. In più, non ti dimenticare con che tipo di persone ti stai avventurando lassù. I tuoi amici sono tipi che amano lanciarsi in ogni attività che passa loro sotto il naso, sono come orsi bulimici davanti ad una dispensa di miele e non esiteranno a trascinarti con loro in questo turbine zuccherino. Credi forse che rispetteranno la tua, diciamo, particolarità? Dovrai puntare i piedi per non essere coinvolta e questo lo sai bene.
Procione: E tu non sei esattamente una cima in queste cose! Vuoi che tiri fuori l'album dei No mancati per rinfrescarti la memoria? L'ho appena rilegato in pelle, così non si rovina.
Rimugiserpe: Magari dopo Procione, non credo che Duille abbia bisogno di vedere i tuoi noiosi album ogni santa volta che discutiamo di qualcosa con lei. Diventi pesante.
Procione: Ma strozzati con una ciambella al cioccolato!
Rimugiserpe: Che signore che sei, Procione, davvero un signore. Direi che dopo questo illuminante esempio di diplomazia possiamo tornare a noi. Come diceva Procione con parole a dir poco discutibili, sai bene che ogni decisione comporta prima una lunga discussione con noi del Serraglio. E sai anche tu che ad ogni tuo No seguirà l'inevitabile, corretto rimprovero di Procione.
Procione: E gli album stavolta non te li eviterà nessuno! Ah ah!
Rimugiserpe: Credi che sarai in grado di sopportare la vergogna e la rabbia conseguente al tuo tirarti indietro da attività che sai bene vorresti fare?
Io: Ma magari stavolta riuscirò a superare alcuni dei miei limiti. In fondo, ho fatto tanti progressi, non sono più la persona che ero prima.
Procione: Ma che stai dicendo? Ti devo ricordare che ieri non sei neanche riuscita ad andare in edicola a comprare la rivista che volevi? Te lo devo proprio ricordare? Serpe, tienimi perché sto per tirare fuori l'album dei fallimenti e il frustino abbinato! Tu, mia cara, vivi nel mondo dei sogni. Guarda la realtà! Sei ancora ai piedi della scala che devi salire e emotivamente sei come un ciccione di duecento chili con in mano una scatola di biscotti al burro. Smettila di illuderti e dai retta a Serpe, altrimenti ti dovrò far ragionare io a suon di esempi.
Fortunatamente, il Procione non aveva poi tanta ragione, dopo tutto. Un minimo di scalini li avevo saliti, almeno quelli sufficienti a vedere le reali dimensioni degli esseri con cui mi confrontavo abitualmente, al punto da sapere che praticamente tutto quello che quei due avevano detto, facendo le parti del poliziotto buono e di quello cattivo, era falso, falso su tutta la linea.
Ero abbastanza forte da dire no e i miei amici sufficientemente sensibili da non forzare la mano. Anche io avevo iniziato a creare i miei album, e dicevano cose diverse da quelle del Procione! Così, dopo aver preso la ramazza più incattivita dalla vita trovata nel ripostiglio mentale, li ho sbattuti fuori dalla mia mente come facevano le tettute massaie di altri tempi con i topi. Inseguita dai loro borbottii e con il pipistrello che volava sulla mia testa, sono comunque partita con i miei amici, determinata a non farmi terrorizzare da questi terroristi psicologici, e ho tenuto duro finché mi sono calmata a sufficienza da rivestire la loro porta di cotone di serenità. Non proprio lana di roccia, ma sempre meglio che niente. La giornata è proceduta bene e mi stavo seriamente divertendo, almeno fino a quando non è accaduto il dramma, la catastrofe delle catastrofi: si è presentato così, di punto in bianco, un amico di uno dei miei amici, che IO NON AVEVO MAI VISTO!!! Inutile dirvi che neanche la più solida ovatta zen avrebbe potuto contenere il serraglio di fronte ad una ghiottoneria simile! Hanno sfondato la porta come un fiume in piena, con la bavetta golosa che colava dai loro musi, e si sono piazzati strategicamente come una legione romana, adottando quello che chiamo lo schieramento a Sandwich: il Rimugiserpe ha preso possesso dell'orecchio destro, il Procione di quello sinistro (portandosi dietro i suoi amati album dei miei fallimenti) e il Pipistrello ha volato direttamente sulla testa del nuovo arrivato, rendendolo un incrocio tra un cinghiale, un boia senza cappuccio e un clown pazzo. Conseguenza inevitabile: trasmutazione immediata in un tronco d'albero spennacchiato, conversione istantanea in una statua di marmo dopo l'incontro con Medusa.
Avrei voluto tanto possedere uno di quei costumi anti stalking che usano in Giappone, di quelli che ti permettono di mascherarti da distributore automatico di snack. Certo, nel mio caso ci sarebbe voluta la versione alpina dello stesso travestimento, ma mi avrebbe comunque fatto comodo. La scena sarebbe stata più o meno questa: "Piacere, sono Tizio". E subito dopo, SWISH! stava porgendo la mano ad un pino. Ma purtroppo non sono nata per essere un camaleonte, né possedevo uno di quegli utili costumi da mimetizzazione, quindi mi sono limitata a diventare la copia cartonata di me stessa. Sorriso plastificato, movimenti meccanici alla C3PO e tentativi sfinenti di apparire brillante e simpatica. Improvvisamente ero stata catapultata fuori dalla zona aurea dell'integrazione ed ero finita di nuovo in panchina alla ricerca affannosa di un modo per varcare i confini di questo Stato di Grazia come l'ultimo immigrato con le scarpe bucate. Quando si dice che basta un niente per mandarmi in crisi, dico davvero. Basta un nuovo incontro, una deviazione dal piano originale, un imprevisto e tutto si ribalta, cambiano le luci e il modo di percepirmi e, come una statua di Giano bifronte, la mia parte più sicura e autentica viene sostituita dalla sua controfigura terrorizzata dalla vita. E riuscire a riprendere il controllo del mio corpo diventa abbastanza complicato, anche perché improvvisamente mi ritrovo a camminare su uova di Alien pronte a schiudersi e masticarmi viva, oppure su lande di biscotti friabili. Un passo falso e si cade di sotto, nelle fauci del Procione. Quindi, movimenti cauti, da gatto in agguato, circospetto, ma fingendo una naturalezza che prego sia diventata abbastanza credibile dopo anni di allenamento. In sostanza, divento Benjamin Malausséne dopo aver preso tre Valium ("il valium mi avvolge il corpo di nuvole, senza cambiare nulla allo stato dei nervi. Visto dall'esterno, sembro in estasi, dentro invece friggo, come una bobina elettrica che non smette di bruciare"). Dovete sapere che quando si è in questa particolare situazione interiore, diventa difficilissimo capire come distribuire l'attenzione: so bene di dovermi concentrare all'esterno, sulle persone che mi circondano, sulle parole che sento e sulle risposte che do, ma dentro di me si sta svolgendo un attentato alla Bruto vs. Cesare, quindi spesso mi ritrovo a mettere il pilota automatico mentre mi riparo dagli affondi di spada del Procione, appena digievoluto per l'occasione nella sua versione albina da Supersaian. Totalmente concentrata all'interno, non riesco a fare altro che difendermi dalle parole del Procione studiando ogni mio movimento, la postura del mio corpo, lo spazio che occupo, l'espressione facciale, le parole che pronuncio, il numero di silenzi, le informazioni che divulgo, tutto pur di arrivare preparata al prossimo attacco del Procione.
"Sei troppo silenziosa, parla di più! Ma dì qualcosa di intelligente, smettila di fare battutine stupide! Sì, ma non ti ho detto di fare la maestrina, non stai mica facendo un test di intelligenza! Ed eccola che è tornata al silenzio. Cos'è, non riesci a trovare una via di mezzo tra il mutismo e la logorrea? Cribbio, partecipa un po'! E non ti azzardare a dire cose a caso! Almeno hai sentito quello che ti hanno detto? E non provare a dare la colpa a me, sei tu che non sei capace di conversare. Te l'avevo detto che dovevi restare a casa, ma no, tu dovevi fare di testa tua... E COSA STAI FACENDO CON QUELLE MANI? Non lasciarle lì come due tentacoli di polipo! Ma non incrociarle! Lo sai che dicono che sia un segno di diffidenza e chiusura! E trova un posto in cui metterti. No, lì no, sei troppo fuori dal gruppo. No, neanche lì, sei troppo vicina! Non rimanere indietro! Non stare sempre vicino alle stesse persone, spostati un po'! Mamma mia, sto lavorando con una polpetta di patate, non con una persona". Questo il genere di frastuono che mi affolla la mente. Mi sorprendo di non essere apparsa come un orso che balla il tip tap, in effetti. Fuori potrò sembrare (spero) un normale essere umano, ma dentro ho i colori di guerra, la fascetta di rambo, il kilt di William Wallace, Pungolo (la spada di Frodo) e le Uzi di Lara Croft. Diciamo che in quell'occasione è andata anche meglio del solito, perché, nonostante dovessi interagire con quello che credevo essere un Nazgul, e nonostante dentro di me ci fosse la guerra civile,sono riuscita a mantenere un certo contegno senza desiderare bramosamente di nascondermi sotto il tavolo, sulla cima di un albero o tuffarmi nell'ombra di qualche amico che si trovava con me. Questo non toglie che sono tornata a casa stanchissima, piena di dubbi e molto confusa. Se quindi dovessi fare un bilancio della giornata, dovrei ragionare a doppio binario: sul primo binario c'è il piano del reale e, da quel punto di vista, la giornata è stata fantastica, tutto quello che avrei potuto desiderare: le sensazioni del viaggio, il benessere dello stare insieme, la bellezza di essere cercata e voluta genuinamente, lo spettacolare borgo, la natura, le passeggiate, gli spettacoli (niente coinvolgimento del pubblico adulto, caro Rimugiserpe!), la tranquillità con cui sono stata accettata interamente, comprese le mie follie, la magia delle cose semplici insomma, che per me hanno un valore analogo all'allineamento dei pianeti! Dall'altro lato abbiamo il binario dell'ansia sociale: da quel punto di vista poteva decisamente andare meglio, ma anche peggio. Ha un po' guastato l'idillio in cui mi trovavo, mi ha fatto faticare e poi mi ha costretta ad un difficile confronto con il Serraglio che si è prolungato fino alla sera del giorno dopo, lasciandomi scontenta, insoddisfatta e arrabbiata con me stessa. Ma, alla fine, ce l'ho fatta, sono riuscita a gestire la situazione se non come un'esperta giocatrice, almeno come qualcuno che, finalmente, conosceva le regole del gioco. Una degna conclusione di un altro giorno di ordinaria, straordinaria follia.
Duille
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sabato 15 agosto 2015
Occasioni sprecate: Le ho mai raccontato del vento del Nord
Quando si sceglie un libro nuovo, prendendolo dallo scaffale in cui sonnecchia pigro da tempo immemore, si fa un atto di fiducia, un salto nel vuoto basato solo su una copertina, poche frasi abbozzate ad un angolo del volume e una sensazione. Ce ne andiamo dal negozio, dalla biblioteca o dalla casa dell'amico con molte aspettative, con l'eccitazione del primo incontro e con mille domande: mi innamorerò di questo libro? Mi insegnerà qualcosa? Sarà capace di far vibrare le corde della mia chitarra cardiaca fino a farla suonare di meraviglia?
Un atto di fiducia, dunque. Un salto dalla scogliera che potrà concludersi in due modi: l'incontro con la spuma del mare, che farà da cuscino ai nostri sogni, oppure una spiacevole visitina delle rocce che ci lasceranno doloranti e delusi. Quando ho preso "Le ho mai parlato del vento del Nord", di Daniel Glattauer, pensavo di aver scelto un libro da spuma del mare, che mi avrebbe fatto sognare con parole poetiche e musica di sottofondo. Un libro da leggere tutto d'un fiato, senza fiato e col fiato sospeso. Le premesse c'erano tutte: un titolo accattivante, una bellissima copertina, un profumo di neve invernale che si poteva sentire sfogliando di fretta le sue pagine e una frase, una bellissima frase che mi sembrava il degno preludio di un autore che sapeva cosa significasse scrivere: "Emmi, mi scriva. Scrivere è come baciare, solo senza labbra". Inutile dirvi che non si trattava affatto di un libro da spuma del mare, né da neve, neanche da brodino con la pastina, a dir la verità. Ormai l'avrete capito, sto ancora usando la ciambella per evitare di poggiare troppo peso sul mio povero sedere dolorante. Le ho mai parlato del vento del Nord è stata una cantonata colossale, un palo della luce contro la faccia mentre si va sui pattini, una delusione su tutta la linea che, a distanza di tempo, mi rendo conto avrei potuto evitare intuendo subito il pericolo, magari leggendo il quarto di copertina con più attenzione, senza lasciarmi influenzare dai fiocchi di neve negli occhi. Ma vedevo del potenziale in questo volumetto di 192 pagine, a partire dal fatto che si trattava di un romanzo epistolare dell'era di internet. Si tratta infatti della storia di un incontro/scontro virtuale, una mail mandata per caso che innesca una scintilla che non potrà che trascinare con sé i due protagonisti fino a consumarli. Amore a prima digitazione, fatto di corpi composti di sole parole, occhi di lettere, capelli di frasi, sorrisi di sillabe sussurrate. Amore che s'insinua lentamente, tasto dopo tasto, riempiendo gli spazi bianchi tra un respiro e il successivo, fino ad essere l'unico ossigeno possibile. Un amore che non ha volto, ma solo ideale, un amore che si fonda sull'autenticità, sul superamento dei limiti sociali, un amore privo di maschere come dei volti che le portano, o forse un amore basato ancora sull'inautenticità, perché solo lo sguardo può davvero scrutare dentro, solo la voce può tradire la vera natura dell'animo che si ha di fronte.
Un amore quindi che si fonda sulla fragilità, sulla disillusa convinzione che la realtà non possa competere con la finzione. Ma tutto questo è solo il punto di partenza, una bella idea mai sviluppata in un libro che, di fatto, non parte mai davvero, che non sfrutta le enormi possibilità che la storia permette, che non utilizza efficacemente il canale scelto, quello epistolare, per andare a fondo nella mente dei personaggi, per conoscerne le profondità o almeno per concedere loro una frizzante esperienza alla C'è posta per te, preferendo imboccare la strada facile dell'amore proibito, della sensualizzazione del dialogo, del desiderio bruciante frustrato sempre dall'impossibile incontro, della malizia seducente, della brillante botta e risposta che non svela poi molto dei personaggi, se non la loro voglia di piacersi per la loro arguzia. Tutto il libro è un sorriso ammiccante intervallato da momenti di rabbia indotta dalla paura di perdere tutto, un tutto che non esiste e che, in fondo, nessuno dei due vuole che esista. Un bel sogno modellato dai suoi protagonisti, narcisisticamente legati alla loro immagine, infantilmente innamorati di un ideale costruito ad hoc dalle loro menti. Emmi della fantasia e Leo dei sogni notturni. Niente di più. Emmi e Leo, i due protagonisti, di fatto non si conoscono, non si vogliono conoscere e non si fanno conoscere agli occhi dell'altro e di se stessi.
Nessuna delle parole scambiate tra i due personaggi ci rivela qualcosa di più del loro animo, poiché entrambi sono fermamente impegnati a non raccontare nulla di sé, dei motivi che li hanno portati ad incontrarsi e a scriversi, delle scelte fatte nella loro vita, nulla che li renda più di un'email mandata per caso ad uno sconosciuto. Sono bidimensionali come le lettere digitali che si inviano. L'intero libro è un esercizio di seduzione che, se nelle prime pagine può essere interessante, alla lunga diventa noioso, poiché finisce col diventare ripetitivo, inutile, sterile, vuoto come i dialoghi che fanno i due personaggi, denso solo di gelosie (di lei), di patetismo (di lui) e di strizzatine d'occhio che fanno venire i nervi. Non supportato da un autentico racconto di sé, da una profonda intesa che esula dal semplice piedino fatto sotto al tavolo, il libro perde spessore, rendendo addirittura antipatici i suoi protagonisti, poiché non riusciamo a comprenderne le azioni, motivarne i timori o anche solo capirne le scelte. E così Emmi diventa una donna frustrata e bacchettona, una femminista inacidita e gelosa di ogni incontro di Leo, morbosamente seducente ma inevitabilmente frustrante, poiché nessun incontro tra i due sarà mai possibile, dato che lei è felicemente sposata, ma fermamente determinata a tenere questo innamorato virtuale schiavo delle sue parole. Leo, d'altro canto, ha un carattere più mite che però sfonda nella passività, nella debolezza emotiva, nell'accettazione acritica di qualsiasi rimprovero pur di tenere legato a sé Emmi, per poi cadere in momenti di vera disperazione che non trova però la compassione del lettore, troppo alieno al personaggio per poterlo giustificare, tantomeno empatizzare con lui. Quello che si legge in queste pagine non è l'amore romantico di due persone complicate, ma un amore tossico tra una persona che ha tutto e vuole di più senza perdere nulla e un'altra che non ha niente e che non sembra voler meritare di più. Tutto ciò che si può salvare da questo libro è il finale, che non è caduto in facili sotterfugi e si è mantenuto in linea con la trama generale. Ma forse non è poi un vero punto di forza, poiché hanno fatto il seguito di questo romanzo, che devo ancora decidere se leggere. In conclusione, se scrivere è come baciare, leggere "Le ho mai raccontato del vento del Nord" è come assistere alla telefonata di due adolescenti con molta proprietà linguistica. Ciò che ci viene mostrato sono solo due idee luccicanti e abbellite con paillettes che si fanno la corte dall'angolo di un computer. E nulla di più.
Duille
sabato 8 agosto 2015
Mareggiare pallido impanato
Nel lontano 2008, quando ero ancora una giovane farfalla scampata all'adolescenza senza - credevo - danni apparentemente evidenti, il mio cervellino da rampante fanciullina post maturità guizzava già di strambe idee, come le bollicine d'aria dentro un bicchiere di Coca-cola. Recentemente ho ricordato uno di questi pensieri con cui mi dilettavo sentendomi molto alternativa ed originale e, dopo essere stata al mare, mi sono ritrovata a pensare che, in effetti, non fosse un pensiero poi tanto sbagliato quello che fece friggere i miei neuroni nel 2008. La me ventenne aveva capito qualcosa che la sua più vecchia controparte non poteva che approvare e confermare, là sotto il sole, con il suo costume nero e giallo e completamente cosparsa di crema solare al punto da sembrare un calabrone albino, ovvero che
l'estate al mare ha un'anima subconscia culinaria.
Ora, questa potrà sembrare la frase pronunciata da una persona sotto acidi pesanti e con un livello alcolico un po' troppo vicino alla soglia del coma etilico, ma si tratta in realtà di una epifania che mi sembra tuttora molto valida e non spiegabile con la volatilità della mia giovane età di allora. Oggi, più vicina ai 30 che ai 18 (sigh), continuo a ritenere che sia maledettamente vero e, con la mia nuova consapevolezza adulta, posso anche sfoderare le mie arti argomentative.
Vi dimostrerò non solo la veridicità della mia affermazione, ma vi svelerò anche il segreto per cui gli italiani sono amanti dell'ambiente marino almeno quanto le foche. Gli italiani, si sa, sono il popolo della buona cucina, dei grandi pranzi, della parmigiana sulla spiaggia, del convivio, per usare un termine raffinato, e questa tradizione affonda le sue radici niente meno che nell'epoca dei romani. I pasti sono usati per celebrare la vita e la morte, per prendere decisioni, per condividere affetto, per passare il tempo e per superare momenti di noia, per accompagnare un buon film o una lettura sul divano, il cibo è un modo di sentirci amati, perché nulla ti ama di più di una bella fetta di torta o un piatto di pasta al sugo che ti guarda con gli occhi a cuore dal suo recipiente di ceramica. Insomma, agli italiani piace mangiare e far mangiare. Ricordate? Siamo pizza, spaghetti e mandolino. Da nord a sud cambiano le quantità ma non la radice comune: il buon banchettare. Mi sorprendo che non sia abitudine portarsi una forchettina nella borsa in caso di necessità. E' altrettanto vero, inoltre, che agli italiani piace il mare, la tintarella barbecue e la pucciata nell'acqua da bravi tortellini di brasato o, come direbbe Miguelito e il suo cesto d'insalata in testa, come se fossimo pastina in un piatto di minestra. Sotto a questa duplice e apparentemente slegata passione, esiste in realtà una connessione solida che solo la mia mente dadaista (e credo Voyager) hanno saputo individuare.
Ciò che collega mare e cibo è la COTOLETTA.
Mi rendo conto che adesso quei pochi di voi che mi avevano dato un po' di credito staranno pensando che avrebbero fatto prima a investire i loro risparmi psichici su una cartomante convinta di essere stata rapita da alieni in tutù, ma vi assicuro che il caldo non mi sta facendo delirare e che ho una motivazione perfettamente ragionevole per motivare questa frase i cui componenti sembrano essere stati pescati a caso dal dizionario.
Non ne siamo consapevoli, ma ogni volta che andiamo al mare iniziamo una rappresentazione antropomorfa della preparazione della cotoletta, una recita che ci vede inscenare la famosa bistecchina di pollo con un passione e convinzione da oscar, come se non aspettassimo altro che ottenere la parte dell'albero o del masso nella recita scolastica di fine anno. Se agli Alessandri Gassman e alle Margherite Buy spettano i ruoli da cinema, noi brilliamo della luce delle star guadagnandoci il nostro posto al sole impersonando il destino di delizia del filetto di tacchino. Se ci pensate bene, è proprio quanto ci accade al mare: il nostro colorito lunare, più che ad una lattea mozzarella assomiglia alla fettina di carne che abita con il suo pallore roseo le vaschette di polistirolo, con tanto di sudorazione fredda e morbidezze colpevoli di troppi mesi passati sul divano a guardare serie tv.
Giunti finalmente nel nostro paradiso dell'abbronzatura, felici come un bambino che incontra finalmente un panettone senza canditi, ci affrettiamo a spalmarci di creme dalle varie tonalità, rendendoci calamitici come carta moschicida, come quei catturapelo a forma di gelato o, appunto, come una cotoletta appena uscita dal trattamento estetico nel suo bagno d'uovo. Belli unti, brillanti come storioni appena pescati, ci affacciamo a quella distesa di pangrattato in cui certo non ci tufferemo, ma che comunque finirà misteriosamente coll'appiccicarcisi addosso come il peggior innamorato rifiutato. E' una legge matematica, un'altra saggia lezione della mucca lilla: la sabbia sta alla pelle incremata come un cane al rumore del pacchetto di biscotti appena aperto. Ed è ingegnosa per giunta, sicuramente molto più del cane, a sfruttare ogni singolo elemento naturale per iniziare il suo attacco al Fosso di Helm: il vento, i piedi dei bagnanti di passaggio, gli asciugamani svolazzanti di coloro che, già ben rosolati, salutano la spiaggia, e naturalmente i deliziosi pargoletti che, qualsiasi cosa facciano, sollevano tempeste tropicali di polvere da far concorrenza ai venti sahariani. Alla fine, nonostante le accortezze, a prescindere dai funambolici tentativi di rendere il nostro asciugamano una zattera sicura di fronte a questo oceano di terra polverizzata, ci ritroveremo invasi di sabbia anche nelle cavità nasali. Come cotolette, anche noi saremo impanate e pronte per la cottura. A questo punto la strada della Cotoletta Marina si divide (trivide?): c'è chi predilige una cottura classica in padella, lucertolando sotto la graticola solare fino a quando non si sarà abbrustolita come un toast. Ci sono poi quelli che, timorosi di bruciarsi, preferiscono cotture lente e a fuoco basso sotto il coperchio dell'ombrellone. Infine, ci sono i veri temerari, coloro che, come giovani concorrenti di Masterchef, tentano di rinnovare una ricetta vecchia come la terra volatile su cui si sono impanati, scegliendo una bollitura in acqua fredda che, se da un lato toglie un po' di impanatura, dall'altro lascia comunque un aroma ittico che si sposa perfettamente con le spezie di alghe che daranno un ulteriore sapore marino alla nostra carne. Il risultato sarà una scaloppina alle erbe bagnato in brodo di pesce. Non giudicate, i cuochi sono sempre un po' stravaganti, non trovate?
Qualunque cottura voi scegliate, alla fine il risultato sarà sempre lo stesso: cotolette. Ecco spiegato il motivo per cui agli italiani piace tanto il mare: ricorda loro la cucina di casa, l'effervescente e stimolante rito della preparazione del pasto, con tutte le sue possibilità espressive. La cotoletta unisce i popoli in un unico abbraccio al sapor di pangrattato. E se ancora non credete alle mie parole, concedetevi una giornata da etologo e osservate i vostri simili come se foste in una foresta di gorilla. Giudicate voi stessi e ditemi se la pazza sono io o tutte quelle persone che, giorno dopo giorno, si affannano per assomigliare in tutto e per tutto alla loro controparte da tavola con contorno di purè.
La spiaggia non avrà più lo stesso sapore.
Duille
Etichette:cucina,estate,floating thoughts,mare | 0
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- Eccomi! Sono una scrittrice in erba, divoratrice di libri, sognatrice professionista e ansiosa sociale multicorazzata. Ho la fissa dei ricordi, la testa fin troppo tra le nuvole, interessi disordinati, un amore impossibile per gli alberi e una passione al limite del ridicolo per le serie tv. Ah, e le presentazioni non sono proprio il mio forte. Si vede?
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