sabato 27 giugno 2015
Telefilm addicted #7: Il sentire all'unisono di Sense8
Molto spesso ci approcciamo alle cose con una punta di scetticismo, con un sopracciglio alzato e la bocca a bocciolo (o, se vogliamo essere onesti, a culo di gallina), pronti ad avere la conferma della nostra diffidenza. Generalmente chiamiamo questo atteggiamento pregiudizio. Una vera e propria parolaccia, un segno di chiusura mentale che non ci fa onore nel migliore dei casi o, nel peggiore, causa la riprovazione generale sotto l'egida della frase totemica "ma se non hai mai provato come fai a sapere che non ti piace?". Ma il pregiudizio non è sempre una parola da ku klux klan e, se sfruttata a dovere, può dare soddisfazioni da leccarsi i baffi.
Lasciate che mi spieghi meglio, indossando il mio camice da scienziata dell'assurdo. In natura esistono diverse forze che si oppongono come su una bilancia: il caldo e il freddo, il peso e la gravità, l'amore e l'odio, il polline e l'allergia. Tra questi possiamo aggiungere anche il pregiudizio e la curiosità. Il modo in cui questo yin e questo yang influiscono nelle nostre decisioni dipende totalmente dal diverso peso che avranno sulla nostra bilancia personale, un po' come nel celebre mito egizio della pesata del cuore. Quanto è pesante il cuore rispetto alla piuma? Se è troppo pesante verremo mangiati dai coccodrilli del rifiuto (che io, per fare la simpatica, ho ribattezzato i coccodrilli del "no grazie") e finiremo col rinunciare a ciò che abbiamo già marchiato a fuoco con la lettera scarlatta della nostra riprovazione. Se è troppo leggero, finiremo inevitabilmente con il fagocitare qualsiasi cosa ci passi sotto il naso senza neanche riflettere se ci piaccia o meno. Passeremo da critici gastronomici alla Anton Ego di Ratatouille a mangiatori compulsivi di hot dogs alle sagre di paese. E neanche questo è sano. Ma per fortuna qualche saggio filosofo latino di non meglio precisata origine ci ha ricordato che in medio stat virtus, che esiste la dorata via di mezzo insomma, la strada di campagna che non è liscia come un vialetto asfaltato ma non è nemmeno il letto prosciugato di un torrente improvvisatosi sentiero. Tutto questo discorso infinito per dirvi che il pregiudizio, se non schiaccia la curiosità, può diventare uno strumento prezioso per darci uno dei regali che, a mio avviso, rende la vita degna di essere vissuta: LA MERAVIGLIA. Recentemente ho potuto testare in prima persona questa emozione che induce dipendenza con, neanche a dirlo, una serie tv.
Il titolo del telefilm, Sense8, sembrava aver già decretato la morte del mio interesse come una poiana seccata dal cecchino di turno e la trama non prometteva niente di meglio: 8 sconosciuti si ritrovano improvvisamente legati mentalmente tra loro e costretti a vedersela, oltre che con una evidente violazione della loro privacy, anche con un losco figuro dall'emblematico quanto scontatissimo nome (Mr. Whispers) che ha intenzione di acciuffarli per fare chissà quali malsani esperimenti su di loro. O forse solo per ucciderli, in base alla direzione presa dalla serie, che poteva optare per l'esplorazione del tema nazi-razzistico-evangelico, del tipo "sono aberrazioni della natura, bruciamoli in massa", oppure per l'opzione nazi-frankesteiniana del tipo "vediamo cosa hanno nel cervello e se possiamo trasformarli in macchine da guerra come i coleotteri radiocomandati". In ogni caso si trattava di una serie sci-fi che prometteva di essere abbastanza noiosa, piena di inseguimenti e complicati intrecci per far sfruttare il potere del file sharing mentale dei personaggi. Nonostante questo inizio molto poco promettente (non sono una grandissima fan del genere sci-fi tradizionale), la curiosità ha fatto capolino sotto la coperta del pregiudizio e mi ha suggerito di dargli una chances. Ed è stato così, signori, che la chimica ha fatto il suo lavoro! La soluzione curiosità al 20% e pregiudizio all'80% ha fatto reazione, creando una vaporosa meraviglia che mi ha incollata allo schermo fino alla fine della prima stagione. Senza quella curiosità mi sarei persa una piccola perla e senza il pregiudizio forse non me la sarei goduta così tanto. Perché sense8 non è una semplice serie sci-fi, ma una riflessione sulla vita, un pensiero sulla solitudine, un discorso sull'amore e sul legame tra gli uomini. Sense8 parla di anime che si incontrano, che s'insinuano l'una nell'altra come le onde del mare, che si raccontano e si osservano, amandosi profondamente proprio perché non sono più un io, ma un noi.
E' lo sradicamento supremo dell'egocentrismo radicale dell'essere umano, lo scardinamento di quel pronome singolare che ci rende ciechi ed egoisti, anche quando non vogliamo esserlo. I creatori della serie, che guarda caso sono anche gli ideatori di Matrix, hanno posto una semplice domanda: "Cosa succederebbe se tutto fosse collegato?". E' questo il fulcro, il cuore di questa serie: essere toccati al punto di SENTIRE all'unisono, senza bisogno di comprendere, perché di fronte al sentire comune non c'è bisogno di altro. Sradicati, appunto, dalla propria individualità, i personaggi di Sense8 si ritrovano a vivere nella loro vita e nelle vite degli altri, a soffrire con i membri della loro cerchia, ad aiutarsi a vicenda ignorando le differenze, abbandonando i giudizi morali, diventando di fatto una cosa sola. Credo che la serie volesse proprio sottolineare questa sospensione del giudizio, o meglio, l'inutilità del giudizio di fronte al sentire, perché quando si prova insieme, quando si patisce con, non c'è bisogno di riflettere,di sforzarsi di capire, non si deve passare per i complicati grovigli della razionalità poiché basta affidarsi alle emozioni, un fenomeno tanto primitivo quanto naturale, armonico, proprio come la vita degli alberi che popolano una foresta. In effetti gli sforzi che compiamo giornalmente per comprendere gli altri si avvalgono della razionalità proprio per cercare di accorciare quella distanza incolmabile che ci separa dall'altro e dalla sua comprensione. L'essere umano, destinato ad una irrimediabile solitudine, in sense8 colma il divario, riuscendo ad entrare effettivamente nella mente del suo compagno, finalmente libero dall'impossibilità di capire. Questa peculiarità è sottolineata dalla scelta dei personaggi, diversissimi tra loro per estrazione sociale, culturale, per genere e interessi sessuali, per lavoro e provenienza:
Will, poliziotto di Chicago, Nomi, blogger transgender di San Francisco, Kala, chimica indiana in procinto di sposarsi, Wolfgang, criminale berlinese affiliato ad mafia locale, Lito, attore messicano che fatica a rivelare la sua omosessualità, Riley, dj islandese che vive a Londra, Capheus, autista di Nairobi dall'incrollabile ottimismo e Sun, donna di affari coreana. Mondi diversi ma uniti dallo stesso sentire. E all'interno di questa scoperta reciproca, si dipanano le storie delle individualità di Sense8, in cui si affrontano i più svariati temi sociali: il sessismo delle società occidentali, incarnato dalla figura di Sun, la brillante donna di affari continuamente ridicolizzata dal sistema maschilista imposto dalla sua società e sostenuto dalla sua famiglia; il tema del razzismo di genere e sessuale, rappresentato in modo toccante dai personaggi di Nomi e Lito, due perfetti opposti di un pendolo che oscilla continuamente, la prima fiera combattente per i suoi diritti, il secondo che cerca di tenere in equilibrio due vite separate pur di non rinunciare alla sua felicità; il tema della violenza e della povertà in una città come Nairobi e della forza d'animo che persone come Capheus, poverissime e costrette ad una vita con la pistola puntata alla testa, sostengono con forza, rifiutandosi di soccombere all'orrore di una società corrotta e alla certezza di un futuro di indigenza; il passato che schiaccia il presente, come accade a Riley o a Wolfgang. Ciascuno vivrà la sua vita e quella dei suoi fratelli aiutandosi a vicenda, soffrendo insieme, ridendo insieme, pensando insieme, diventando figure iconiche di un mondo che cade a pezzi e che trova in loro una fonte di speranza.
Persone comuni, così diverse che, senza quel legame, probabilmente non si sarebbero mai comprese, né avrebbero mai tentato di farlo ma che adesso si ritrovano immersi nel naturale equilibrio di una mente collettiva, in cui si sente tutto e si capisce tutto dell'altro per la prima volta in assoluto. Tutte queste tematiche, con il loro potente carico emotivo, sono accompagnate da colonne sonore di toccante bellezza, che lungi dall'essere sottofondo della serie, diventano il nono personaggio della cerchia, mischiandosi con i suoi protagonisti, accompagnandoli nel loro sentire, nel loro dolore, nel loro amore, nella meraviglia che li accompagnerà per tutta la prima stagione e nella lotta con i loro fantasmi quotidiani, veri o presunti che siano. I personaggi sono studiati al dettaglio, mai banalizzati o incastrati nel loro ruolo (il che significa che non troveremo uomini gay isterici nè transgender drag queen a tutti i costi, così come non vedremo un gangster alla Rambo come in uno spaghetti western). Vi è una tridimensionalità totale, in cui ciascuno può trovare un'identità completa senza snaturarsi mai. Il particolare è solo uno dei tanti dettagli di un puzzle a più voci che ci fa identificare anche nel personaggio a noi più lontano. In questa cornice i dialoghi diventano elemento fondamentale, capace approfondire la psicologia e la storia dei personaggi in modo naturale, grazie ai numerosi incontri tra i membri della cerchia, e lasciando la dimensione dell'azione,compreso il misterioso Mr. Whispers, in sottofondo, come ad indicare chiaramente la via che si intende intraprendere. Un gioiello visivo, acustico e di contenuto insomma. E questo è solo un assaggio di quanto aspetta coloro che si avventureranno in questo mondo nel mondo, che abbraccia l'intero pianeta in un connubio di anime in cui ognuno è protagonista della propria esistenza e parte delle vite di altri. Oltre il singolare, perdendosi nel plurale, si scopre la vera naturalezza dell'esistere, la superficialità del giudizio, inutile creatura del mostro egocentrico che solo il sentire comune può annullare. Come dice Jonas nell'episodio 10 "osserva gli uccelli o i pesci muoversi come se fossero una cosa sola, e capirai da dove veniamo. Chiediti come facciano i pioppi a sentire il dolore a chilometri di distanza o come facciano i funghi a sapere di cosa ha bisogno la foresta e comincerai a capire cosa siamo". Ecco cos'è Sense8. La vita, oltre il singolare.
Duille
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domenica 21 giugno 2015
Se i gamberi sapessero ballare...
Avete presente quei detti da baci perugina, di quelli che raccontano ovvietà, e che solitamente sono anche piuttosto bruttini, ma che nella loro semplicità rimangono incollati alla mente delle persone diventando frasi salvavita da riproporre nelle conversazioni che languiscono? Una di queste è sicuramente la celebre frase "l'importante non è la meta, ma il viaggio". Molto vero, ma non per tutti il viaggio è una passeggiata.
Per esempio ci sono i viaggi low cost, in cui le persone hanno la sensazione di essere stati tramutati in sgombri dentro una scatoletta di alluminio buona sola per essere conservata in un bunker antiatomico in attesa della fine del mondo. Oppure ci sono i viaggi a piedi inevitabilmente costellati da vesciche grandi come piattini da caffè gentilmente offerte dalle scarpe da ginnastica nuove fiammanti. Ci sono i mal di mare sulle navi da crociera, la claustrofobia dei viaggi in macchine stipate di bagagli, criceto e cane ululante e il freddo polare dei treni troppo generosi di aria condizionata. Ci sono le lunghe attese in autostrada a ferragosto (stavolta senza aria condizionata) e le camminate in mezzo alla neve che inzuppano scarpe, ossa e capelli. E ovviamente, ci sono improbabili compagni di viaggio che finiscono inevitabilmente per attaccare bottone con noi. Ma oltre a questi viaggi reali, c'è anche un secondo tipo di viaggio, il Viaggio dei Viaggi, il Pellegrinaggio al centro della terra, la traversata a cui ogni bravo psicoanalista invita, promettendo avventure degne di un libro fantasy: il viaggio interiore. "Conosci te stesso" è il motto stampato sulla maglietta fornita al momento della partenza, con tanto di avvertenze in piccolo riportate nel risvoltino sotto le cuciture. Lungi dall'essere una crociera alle Seichelles, questo secondo tipo di viaggio è tutt'altro che semplice. Il percorso di un ansioso sociale, per esempio, non è certo paragonabile ad un viaggio in un autostrada a cinque corsie, quanto piuttosto ad un sentiero di guerra sperduto nella fitta vegetazione del Vietnam. E questo non perché la sua vita sia particolarmente complicata o fitta di impegni, tutt'altro! Noi ansiosi sociali tendiamo a semplificare tutto fino a ridurlo ai minimi termini, in modo da ridurre la quantità di stress a cui siamo sottoposti e che, come saggiamente ci ricorda Cameron Diaz in "L'amore non va in vacanza", finirebbe per produrre un antiestetico invecchiamento precoce della pelle. Potremmo dire che la nostra è una vita crudista, confinata in quattro ingredienti cucinati solo con acqua fredda e una spruzzata di lime. Il vero problema risulta nel modo in cui affrontiamo la quotidianità. In effetti il paragone con il Vietnam è particolarmente calzante, perché la nostra strada nella giungla è costellata di vietcong pronti a farci le penne al primo segno di smarrimento, al primo momento di debolezza o alla prima pausa gabinetto. Un momento di stress, un impegno che spaventa un po' troppo, un imprevisto che scombina i piani può causare l'attacco del nostro serraglio di animali, con il Rimugiserpe in testa seguito dal procione rimproverante e dal lato impanicato che corre in tondo ululante. La nostra ansia non aspetta altro che un momento di fragilità della nostra corazza per fare breccia come un drappello di orchetti al Fosso di Helm.
Il risultato è una regressione totale a forme di comportamento che si erano abbandonate o che si tenevano efficacemente sotto controllo: rimuginii, preoccupazioni, rimproveri, senso di inadeguatezza e la curiosa sensazione di essere un calzino usato a cui hanno attaccato un taser da cinquemila volt, oltre a quella che chiamo "la convinzione dell'elefante", la certezza cioè di distruggere tutto ciò che si tocca esattamente come un elefante nella sfortunata cristalleria. In una parola: RICADUTA. Durante questi momenti si ha il sentore di un colpo di stato definitivo e il ripristino dell'ancient regime costituito da apartheid e cause da Santa Inquisizione al suo massimo splendore. Siamo privati dei nostri scudi come un detenuto fresco di arresto e rimaniamo in balìa delle intemperie come un'aragosta senza corazza. Durante le ricadute l'umore cola a picco come il Titanic davanti all'iceberg della nostra ansia e il nostro cervello ci concede un'insalata mista di emozioni negative, in cui i sapori più decisi sono dati dalle foglioline novelle di paura e dalle rondelle di rabbia contro se stessi che pizzicano il palato peggio dei peperoncini di Scoobie Doo. Il pipistrello mette le protesi alle ali per ampliare il raggio di azione e diventiamo Edward mani di forbici in un mondo fatto di pelle di neonato. Di colpo siamo feriti e feriamo, siamo indifesi e pericolosi, siamo assaliti ed involontariamente assalitori, bruciati e brucianti, pelle viva che tocca pelle viva. Il mondo diventa estensione di ciò che sentiamo, della nostra fragilità e ciò che è precario dentro diventa precario anche fuori, ciò che è sadico nemico dentro lo diventa anche fuori. Riprendendo la metafora del viaggio, questo significa fare dieci passi indietro nel cammino verso la nostra meta. Ma d'altronde, questa è la vita dell'ansioso sociale, un continuo balletto avanti e indietro lungo una strada accidentata e piena di specchi ricolmi delle nostre ombre. Se un gambero sapesse danzare, probabilmente avrebbe le movenze dell'ansioso sociale.
Ogni conquista non è mai definitiva, così come un gambero non va mai necessariamente in avanti. Ogni passetto in avanti è vinto con il sudore e con il sangue, proprio come in una puntata di Mila e Shiro, e la posizione va mantenuta inchiodando le suole al terreno come un carpentiere ossessivo. Siamo incastrati in una versione gigante del celebre gioco "scale e serpenti", in cui basta un attimo per scivolare lungo le squame viscide del nostro amico boa constrictor e ritrovarsi alla casella dello start. E non crediate che la terapia impedirà che questa altalena si verifichi, perché, ve lo dico subito, non accadrà. Un ansioso sociale lotterà tutta la vita con le sue paure, con il Rimugiserpe, il Procione, il pipistrello, il panico e la stanchezza. Ma la cosa rassicurante è che questi momenti passeranno, e noi gamberetti, dopo un momento di moonwalking poco ispirato, torneremo a muoverci in avanti, recuperando più velocemente la posizione sulla casella che avevamo perduto. Non potremo evitare il balletto, ma saremo capaci di assestare un paio di sei ben piazzati con i dadi che ci faranno riguadagnare il terreno perduto. Il nostro sarà sempre un viaggio con il coltello tra i denti e il medikit in borsa, ma con il passare del tempo saremo sempre più Lara Croft e sempre meno Edward Mani di forbici. Il detto "conosci te stesso", in fondo, si rivelerà non poi così sbagliato e alla lunga riusciremo anche a vedere le bellezze di questo straordinario, faticoso viaggio chiamata vita.
Duille
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domenica 14 giugno 2015
Il balletto del dentro e del fuori
I sogni hanno la straordinaria capacità di raccontare scomode verità vestendole di avventure mirabolanti, di incontri improbabili, facendo combaciare continenti, scontrando colori, persone e luoghi in un poutpourri di immagini che, anche quando sembrano non avere senso, ci parlano di noi. Insomma, tanto di cappello al buon vecchio Sigmund Freud, che dei sogni aveva capito tutto. Certo, poi la sua fissa per la libido l'ha portato a vedere riferimenti sessuali in ogni cavità, pertugio, caverna, vaso, serpente o spada che popolava i sogni del malcapitato paziente, diventato una sorta di ninfomane in frac o pannolino.
Ma questo non toglie che il nostro barbuto signore con gli occhialini di corno avesse colto qualcosa che nessun altro aveva davvero compreso, men che meno la paladina delle massaie, lady Cenerentola. I sogni parlano di noi e la maggior parte delle volte non sono "desideri di felicità", ma fanno la parte del messaggero portatore di sfighe cosmiche, o di notizie davvero poco gradite. Potrebbe essere paragonato alla notifica da parte dell'agenzia delle entrate che ci chiama a fare i conti con noi stessi. E scampare la comunicazione è impossibile, perché i sogni sono ninja incrociati con segugi, sono detective che hanno preso lezioni di street climbing. Non esiste parete, cancello o depistaggio che possa fermarli. Arriveranno sempre a destinazione. L'unica gentilezza che ci usano è quella di non sbatterci in faccia la sconvolgente verità, ma di indorarla, distorcerla e renderla quasi attraente ai nostri occhi, così da produrre un graduale processo di consapevolezza che sfuma sorrisi e abbatte il morale come un fagiano in territorio di caccia. I miei sogni di solito hanno questa cadenza discendente e l'analisi ha provocato la morte per crollo strutturale di numerosi sorrisi, lasciandomi sulla coscienza decine di decessi. L'ultimo sogno che ho fatto ha avuto proprio questo andamento parabolico. Si trattava di un sogno a tema zombie, molto in stile The Walking Dead, che inizialmente mi sembrava estremamente allegorico e con un finale di speranza che mi ha fatto svegliare gasata come l'acqua frizzante appena imbottigliata, salvo poi sfiatarmi completamente quando ho analizzato con la mia terapeuta il messaggio di fondo. E' emersa una babele di livelli interpretativi su cui si sarebbe potuto scrivere un saggio e che mi ha lasciata pensierosa e un po' frustrata, lì, con il mio sorriso defunto che penzolava sulle labbra come uno degli orologi di Dalì. Nonostante la faraonica mole di interpretazioni che suggeriva, credo che il sogno volesse parlarmi dei confini e della confusione nel percepirli. In effetti si tratta di uno dei grandi problemi dell'ansia sociale: una certa scarsa aderenza tra ciò che crediamo essere i nostri confini e la realtà delle cose. Gli ansiosi sociali infatti sono certi di una cosa: sanno riconoscere ciò che è dentro e ciò che è fuori. Non fanno confusione tra ciò che appartiene loro e ciò che appartiene all'altro. E' una delle nostre maggiori preoccupazioni, il dentro e il fuori, e quindi, dopo una vita passata a studiare queste due parole, ci sentiamo un po' come dei fachiri esperti in materia, capaci, dopo anni di allenamenti e di morsi avvelenati, di tenere il serpente ben chiuso nella cesta. Per gli ansiosi sociali esiste quindi una netta distinzione tra il dentro e il fuori, tra l'interno e l'esterno, tra il pronome Io ed il pronome loro, ma in una proporzione di pericolosità inversa rispetto a quella del fachiro. Il pericolo non è dentro la cesta del serpente, ma fuori: fuori di casa e fuori della nostra mente, dove non esiste il controllo. Dentro, siamo al sicuro. E qui il sogno diventa abbastanza esplicativo.
Vedete, noi ansiosi sociali tendiamo a vivere effettivamente in un mondo post apocalittico, circondati da zombie la cui unica aspirazione nella vita è papparci senza pietà, senza anestesia e senza sale né previa cottura. E la soluzione, in uno scenario del genere è solo quella di fare provviste di tutto ciò che ci è caro e chiuderci in casa a doppia mandata, barricando le finestre con vetro antiproiettile, rinforzando le porte con lastre di adamantio e indossando la maglia di mithril rubata a Frodo Baggings alla fine della sua avventura. L'esterno è pericoloso, famelico, pronto a fare di noi un gazpacho succoso, mentre l'interno (di una casa o della nostra mente) è un luogo sicuro, un nido di morbidi cuscini che possiamo accomodare come un cane che cerca di dare la forma corretta alla sua cuccia. Fuori il mondo dei non morti, dentro il nostro bunker pieno di ottimo cibo spazzatura, montagne di libri e una connessione internet senza limiti. Il nostro compito è cercare di proteggere l'interno, di mantenere i confini solidi, di ridurre all'osso gli incontri con il fuori per non diventare noi stessi ossa mangiate. Ma, come nel sogno, quanto più andiamo in profondità, quanto più analizziamo la questione, tanto più i confini sfumano, i pronomi si fondono e quelle che credevamo essere barricate da diga alpina si rivelano solo spugnette tenute insieme con un po' di scotch. Siamo ingannati dalla nostra stessa vista ed in duplice direzione, poiché non solo non siamo confinati come pensavamo, ma il dentro è straripato fuori e il fuori ha inondato il dentro molto tempo fa. Se prima sapevamo che il male era all'esterno e il bene era all'interno, ora sentiamo una puzza di cadavere arrivare a zaffate anche da dentro. Insomma, senza girarci troppo intorno, siamo gli artefici della nostra apocalisse. Siamo il paziente zero di questa invasione zombie, infettati dal nostro pipistrello che ha sempre abitato sul trespolo composto dalla ruga sulla coda del nostro occhio. Siamo noi che camminiamo giudicanti in mezzo a quegli zombie, siamo il nostro gemello cattivo, il nostro miglior nemico. Siamo noi l'acquolina di rimprovero a fior di labbra (cianotiche) degli zombie. Noi, che abbiamo spesso dato la colpa del nostro sentire ad un mondo ostile e giudicante, ci ritroviamo a guardare in faccia il piccolo Hitler dentro di noi intento ad ordire nuovi malefici piani per conquistare il mondo. E di fronte a questo crollo delle certezze che richiederebbe almeno un paio di bicchierini di tequila, iniziamo a guardare sotto una nuova luce anche l'interno che abbiamo costruito con tanta fatica e che si rivela portatore sano di asfissia.
Il fuori dell'apocalisse è finito nel dentro, nel nostro bunker con sistema di accesso retinico, ed il serpente che credevamo abitasse là, all'esterno, ha fatto le uova nel nostro nido e si è rivelato essere un boa constrictor che abbiamo confuso per una morbida sciarpa cucita a maglia da una deliziosa nonnina. Ci rendiamo conto che l'interno rassicura perché è statico, ripetitivo, stagnante come una palude, prevedibile. Un pantano fangoso in cui adagiarsi, ma che risucchia lentamente nel suo abbraccio senza ossigeno. Senza movimento, l'interno ci uccide lentamente, incastrandoci in una falsa sicurezza che infragilisce la pelle continuamente a contatto con l'umidità del fango e che indebolisce le ossa ormai abituate a muoversi solo negli spazi angusti di una scatola di biscotti. Convinti di proteggerci, stiamo in realtà scegliendo il male minore. Sicuramente, stando rintanati in noi stessi - nelle solide mura di una casa, nei rigidi silenzi della nostra mente, all'interno della nostra bocca cucita - non moriremo di infarto, ma concederemo al boa di soffocarci lentamente fino all'ultimo sorso di ossigeno. Ci staremo trasformando in zombie, con tanto di pelle penzolante, colorito cadaverico, occhio spento e sorriso riciclato dalla piattaforma ecologica. Comparse perfette per una puntata di The Walking Dead, appunto. In definitiva quindi ci stiamo perdendo in un bicchiere d'acqua e più cerchiamo dei modi per restare all'asciutto, più in realtà ci stiamo infarcendo le scarpe con cemento a presa rapida. L'unica soluzione è guardare in faccia la realtà, mettere la nostra fascetta da rambo sulla fronte e pestare a sangue il nostro gemello zombie, il piccolo Hitler e legarli insieme con i resti del boa constrictor che avremo precedentemente cotto in padella con una spruzzatina di olio d'oliva, un paio di foglie di basilico e una grattuggiata di pecorino. Ci vuole un momento alla Topper, per intenderci. Ovviamente si tratterà di un percorso lungo, una guerra di posizione che avrà le sue trincee solo dentro di noi. Il campo di battaglia però si sposterà dall'esterno all'interno e questa volta si lotterà per davvero, senza scuse e senza soluzioni fin troppo facili che, proprio perché tali, sono false. Solo noi possiamo salvarci, perché dentro di noi è lo zombie più crudele. E anche se lotteremo tutta la vita, saremo comunque più vivi che dentro quel bunker.
Duille
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sabato 6 giugno 2015
Telefilm addicted #6 - il Guilty Pleasure di Outlander
Quando si segue una serie TV la si guarda con due paia di occhi: quelli incastrati nell'orbita, le famose finestre della nostra anima, e quelli invisibili adagiati sonnacchiosi nel nostro motore spugnoso, per gli amici detto "cuore". Oppure, se siete neuropsicologi bacchettoni, potremmo precisare che in realtà più che nel cuore, quegli occhi invisibili sono localizzati nel sistema limbico, che poi è il nostro sistema emotivo con un nome più astruso. Dovunque vogliate piazzarli, il punto è che sono proprio questi secondi occhi a rendervi fan appassionati di serie che, in un altro momento, avreste criticato aspramente, e che ancora adesso, guardandole con occhio scettico, vi rendete conto avere più di un difetto.
Ma al cuor non si comanda (o il sistema limbico rules, vedete voi) e quando hai messo gli occhiali dell'amore tutto è meraviglioso e interessante, anche se quel tutto è ambientato in un giardino comunale spacciato per un bosco incantato e il castello è niente di più che un ammasso di legni rubato ad un manipolo di poveri bambini in cambio di una fornitura a vita di gelato e un biglietto diretto per il diabete giovanile. Così, giusto per mantenere un briciolo di dignità, ci scofaniamo la tanto criticabile serie nascosto nel sottoscala di casa, nello sgabuzzino, nel bagno o avvolto nelle tenebre di una notte senza luna, circondato solo dal russare degli altri abitanti della casa. La vergogna è tale che finiamo anche con il chiudere il gatto in qualche altra stanza, pur di non incontrare il suo sguardo indagatore che questa sera sa fin troppo di riprovazione. Tutti abbiamo avuto, abbiamo e avremo i nostri guilty pleasures, è la nostra anima da procione rovistaspazzatura che ce lo impone e non possiamo fare molto altro che rassegnarci all'inevitabile. Quella serie, per quanto brutta, incoerente, irrealistica o semplicemente inadatta a noi, ci rapirà il cuore come il peggior artista problematico, "disagiato ma affascinante", e ci spingerà a lunghe impazienti attese per la prossima puntata, congetture sugli sviluppi, trepidanti batticuori in attesa di sapere se verrà rinnovata per una nuova stagione o se dovremo piangerne la perdita. Avremo sviluppato una sindrome di Stoccolma seriale! E' solo in questo modo che mi posso spiegare la mia viscerale passione per Outlander: una serie che mi ha fatto storcere un bel po' il naso inizialmente e che per la prima metà della stagione veste i panni di un Harmony scappato dallo scatolone delle occasioni di un mercatino delle pulci nascosto in uno scantinato.
Eppure è amore tra me e Outlander. Certo, un amore clandestino, da amante nascosto nell'armadio al ritorno del marito, ma pur sempre amore. E la parte più razionale di me, che io immagino come una terapeuta in tailleur, occhiali e crocchia, mi e si domanda perché. In effetti Outlander è un prodotto ingannevole e mutevole che si ispira ad una serie di libri omonimi e che parte, come dicevo, da una trama molto Harmony che fa sollevare più di un sopracciglio: Claire, giovane infermiera inglese militante nella Seconda Guerra Mondiale, parte per un viaggio con il marito, anche lui reduce di guerra. I due giovani sposi accomunati dalla sindrome post-traumatica da stress se ne vanno a fare seconde nozze ad Inverness, nell'orgogliosa Scozia dalle gonne a tovaglia, dove contano di recuperare velocemente il tempo perso (you know what I mean) e, nel tempo libero, ricostruire la storia familiare degli antenati di Frank (il marito soldato). Ma dovete sapere che Claire nasce sfigata e questo sarà il leitmotiv di tutta la storia da qui in avanti. E' talmente sfigata che nella prima puntata, durante una passeggiata solitaria ad un cerchio di pietre, finisce coll'attivare accidentalmente una antica magia che la spedisce indietro nel tempo, nel 1743, in piena guerra punica tra Highlanders e Inglesi. E da allora saranno grane per chiunque avrà a che fare con lei. Perché è sfigata, appunto. Per tutta la prima stagione non farà altro che farsi rapire, essere salvata, rischiare la vita in ogni colorito modo disponibile nell'arsenale di quel periodo storico, e mettere nei guai un po' tutti a causa della sua incapacità di ficcanasare un po' ovunque. Ce n'è abbastanza per organizzare un viaggio a Lourdes o una gita da qualche sciamano per farsi togliere il malocchio! Fortunatamente per noi, Claire non è solo sfigata, ma anche un personaggio forte, litigioso, molto femminile (ma di un femminile buono) e pieno di risorse, che non si lascia scoraggiare dalla mastodontica mole di sfortuna che la sommerge quotidianamente peggio di un gatto nero sotto una scala fatta di specchi rotti, e questo la salva dalla riprovazione generale e dal mio astio. Se c'è una cosa sicura di Claire è che non si farà mai mettere i piedi in testa da nessuno e non terrà a freno la lingua in nessun modo possibile. E' testarda come un mulo e coraggiosa come Xena. Questo è parte del suo fascino e della sua conseguente sfiga!
E la particolare natura di Claire è emblematica di tutta la serie e ci dimostra che non tutti i guilty pleasure vengono per nuocere. Outlander infatti è una serie un po' atipica, che non si lascia intrappolare dai cliches del suo genere e finisce col diventare una creatura ibrida che può essere riassunta solo parafrasando le parole di Boris, l'oca amica di Balto: "Non è Harmony, non è serie storica, sa soltanto quello che non è". Nella prima metà della stagione infatti ci ritroviamo a gestire la mole antonelliana del romanticismo da casalinga disperata, che vuol dire solo una cosa: sesso, sesso e ancora sesso. Con dovizia di dettagli, in ogni posizione, modo e luogo possibile, il sesso è spalmato su ogni maledetta puntata, addirittura vi è un'intera puntata dedicata, 50 minuti di gemiti, primi piani di sederi di lui e tette di lei (se non altro un democratico bel vedere), inquadrature variegate per non perdere neanche un briciolo della notte di passione, ma che alla lunga annoiano e spingono lo spettatore a sfuggire al tedio facendosi domande del tipo: ma come fa lei ad avere la pelle così perfettamente liscia e depilata? E com'è che non si è ancora presa una malattia venerea? Ma poi, nel 1700 mica si lavavano poco? Ah, però, bello quel cuscino lì, magari potrei fare un salto all'IKEA e comprarmene uno simile, starebbe proprio bene sul mio letto, eccetera eccetera.
Ma dalla seconda metà della stagione, quando abbiamo ormai capito che in Scozia si fa tanto sesso, si beve come spugne e si crede in ogni sorta di superstizione, finalmente la serie si sblocca dal pantano in cui si è arenata, esce dalla camera da letto e sfugge alle grinfie dell'Harmony, per entrare a gamba tesa nel mondo della ricostruzione storica. Ed è qui che vediamo davvero l'orrore di una guerra che vede gli inglesi vincitori come creature sanguinarie e senza pietà.
La violenza si spreca, il sangue cola a fiotti e il sadismo è di casa ogni volta che incrociamo l'antagonista della nostra vicenda, Jack Randall, detto anche il bastardo più perverso che si possa incontrare, peggio anche di Hannibal e, temo, diretto antenato di Saw e Freddy Kruger. Uno psicopatico in una posizione di potere che perseguiterà la nostra coppia d'oro facendoci rabbrividire per la sua viscida cattiveria e che rappresenta l'emblema di un conflitto che ha fatto della brutalità uno dei suoi segni distintivi. Di fronte a questa rappresentazione della bruttura del conflitto anglo-scozzese, non si può rimanere indifferenti ed è impossibile non essere coinvolti e sconvolti. A conti fatti, la prima stagione di Outlander si dimostra capace di osare in ogni direzione, facendo crollare i veli del perbenismo e mostrando tutto: la carne denudata, le cicatrici sanguinanti, gli occhi spalancati dalla paura e quelli eccitati dal dolore, l'amore carnale e quello spirituale, la perversione e la purezza, la polvere mista al sangue incrostata sulla pelle, l'odio più cieco e l'amore più alto, lo sporco dell'anima di un'epoca che non conosceva pietà neanche tra chi se ne faceva portavoce. Outlander è perciò una serie che da' tanto, a volte troppo, che sconvolge per la sua limpidezza, per non conoscere filtri, per non proteggere il proprio spettatore con tagli di scena studiati al fine di non mostrare troppo, con sceneggiature costruite per non urtare le sensibilità o con inquadrature che lasciano intuire ma non palesano. Qui è tutto in piena luce: l'amore e la sofferenza, i colpi di martello sulle dita, i gemiti di passione e le urla di dolore, le frustate sulla schiena e le espressioni di chi subisce e chi si accanisce, la calma della quotidianità e la difficoltà dei rapporti umani. Una serie cruda che non fa sconti a nessuno, per stomaci forti e cuori d'acciaio. Se avete queste qualità allora potrete vedere questa serie (ed entrare nel fight club probabilmente). Come dessert per sciacquare l'amarezza della violenza e la noia di un eccesso di passione, Outlander vi promette tartan come se piovessero, uomini rudi (e talvolta nudi) dagli accenti pronunciati, canzoni scozzesi che scaldano il sangue, abiti donzelleschi che faranno sbavare le giovani fanciulle fanatiche come me e scenari delle Highlands che faranno venire nostalgia anche a chi, in Scozia, non c'è mai stato. Forse non desidererete essere Claire, ma di sicuro non sarete più tanto indifferenti al fascino di un barbuto scozzese in gonna e bagpipe! Scotland, here we come!
Duille
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domenica 31 maggio 2015
Etichette un po' troppo affezionate
La nostra è una società strana, fatta di etichette, di cartellini identificatori, di brevi slogan sulla superficie delle nostre confezioni di carne. Se guardate bene, dietro alla testa, alla fine del collo, troverete la vostra etichetta, il vostro codice a barre, il vostro biglietto da visita per il mondo o comunque lo preferiate chiamare. Tutti ne abbiamo uno, anche se può cambiare nel corso della vita. Sono delle sorte di apripista, dei banditori che anticipano il nostro arrivo con un tonante "udite udite", seguito dall'etichetta che ci rappresenta di più.:"Udite udite, ecco a voi il nerd!" oppure, "udite udite, si reca al vostro cospetto la sicura di sé". Si tratta ovviamente della versione 2.0 di questa figura, un upgrade silente che non annuncia più con il classico fiato alle trombe e aria ai polmoni, in pieno stile pescivendolo al mercato, ma che predilige forme più discrete e raffinate, fatte di passaparola, abbigliamento, modi di agire...etichette, insomma.
Penso che potremmo addirittura far risalire la nascita delle etichette al nostro periodo più primordiale, quando eravamo poco più che animali. In effetti, se ci pensate bene, le etichette sono il nuovo modo con cui ci annusiamo reciprocamente le chiappe senza scadere nelle molestie. A volte inflitte o autoinflitte, a volte attribuite, a volte vere e talvolta false, a volte esposte o addirittura ostentate, a volte rivelatrici o più spesso evidenzianti l'ovvio, le etichette ci parlano di noi ai nostri occhi e a quelli del mondo. Ma quei pezzettini di stoffa alla base del collo possono essere anche molto pericolosi, possono pizzicare, essere fastidiosi o addirittura produrre un doloroso eczema allergico, soprattutto quando diventano l'unica parola che ci rappresenta. E badate bene, in questi casi non possiamo sciacquarci la coscienza scaricando la colpa a qualcun altro, sia essa la società, la cultura ipermoderna, il compagno di scuola che sembra essersi insignito del ruolo di etichettatrice automatica o improvvisandoci vecchietti arrabbiati con i giovani maleducati di oggi, perché (e vi svelerò adesso un'ovvietà più evidente di un lama sulla scrivania) anche quando quell'etichetta ci è stata cucita addosso da altri, siamo noi a ricamarla con filo di acciaio, a bruciarla sulla nostra pelle per sempre, ad inciderla un po' ovunque lungo tutto il corpo, in arabeschi e ghirigori che scivolano sul decumano delle gambe, che attraversano i meridiani dei nostri fianchi e le longitudini delle nostre spalle.
Alla fine ci ritroviamo a guardarci allo specchio e vedere quella parola scavata nelle nostre occhiaie, schiacciata sulle sopracciglia o penzolante agli angoli delle labbra. Siamo un tatuaggio vivente che si ripete all'infinito, senza un inizio e senza una fine, identico a se stesso e dolorosamente piatto. E scegliamo di lasciarcelo. Lasciamo che quell'etichetta ci definisca al punto da annullarci e da farci dimenticare tutte le parole che arricchivano il nostro vocabolario, rendendoci pappagalli spiumati che urlano sempre lo stesso suono con voce gracchiante da autoradio rotta, nella speranza che tra le righe filtri anche il resto, se un resto esiste. L'unica differenza tra noi e i pappagalli è che loro sono comunque più interessanti, perché sanno dire qualcosa laddove il genere pennuto non è in grado di farlo; noi, che l'eloquenza l'abbiamo ormai sdoganata come razza, sembriamo soltanto noiosi, diventiamo induttori naturali di sbadiglio, roba che se mai un giorno inventassero una energia alternativa che si nutre di sbadigli, avremmo il lavoro assicurato per vent'anni. Mentre però aspettiamo la rivoluzione copernicana che ci salverà la vita permettendoci di adagiarci nel nostro giaciglio stigmatico, ci ritroviamo ad essere osteggiati dagli altri e da noi stessi, annoiati dalla nostra similitudine ad un cartellone pubblicitario di un dentifricio, che inizia e finisce lì, al primo colpo d'occhio. Ognuno di noi ha il suo marchio, più o meno voluto, più o meno cicatrizzato, più o meno familiare. Sta a noi non lasciare che quel segno ci oblii a noi stessi, facendoci vedere le nostre possibilità e la nostra identità solo filtrate attraverso le curve di quella parola incisa anche sulla retina. Uscire da quelle sillabe che ci calzano come un guanto è piuttosto difficile, anche quando siamo dolorosamente consapevoli, quindi inutile pensare che una predica ben assestata dia il colpo di grazia alla nostra confortevole permanenza nel sottoscala di Harry Potter, anzi!
Di solito questi discorsi da coach motivazionale hanno il solo effetto di far venire istinti omicidari anche al più tenue agnellino o, nel mio caso, fanno uscire il mio lato bronx, tutto orecchini a cerchione, ditino alzato e linguaggio da scaricatore di porto. No, lo sappiamo tutti che le etichette sono come le sanguisughe: una volta che si attaccano diventa abbastanza difficile scrostarle via. Il problema è che se ci facciamo l'abitudine ci convinciamo che tutto ciò che ci sia da dire di noi sia inscritto in quel minuscolo inci che costeggia il nostro collo e tutto il corpo ne risente. Anche la nostra postura finisce col riprendere le curve delle lettere che la compongono, rendendoci molto simili a dei cactus cresciuti in un sifone o a quelle curiose angurie che vivono la loro vita dentro contenitori dalle forme quadrate. Sì, in sostanza diventiamo angurie quadrate. Solo che noi, a differenza delle angurie, abbiamo il vantaggio del libero arbitrio e la ridicola tendenza a non usarlo. E perché fare una cosa del genere? Perché trasformarci in Quasimodi del XXI secolo? Perché essere angurie quando si può essere mongolfiere? Io, che parlo dall'alto della mia saggezza ansiogena, penso che sia perché è più facile. Non è un caso che esista il famoso detto "meglio un male conosciuto che un bene sconosciuto": in effetti riassume perfettamente la scarsa attitudine al rischio di tanti di noi, che hanno preso un po' troppo alla lettera gli insegnamenti di Benit Gabor ne La mummia e che invece hanno snobbato completamente le massime dell'Indiana Jones dei tempi d'oro. Dovremmo essere più Indiana Jones e meno Benit, anche perché il povero Benit è finito sbranato dai coleotteri, mentre Indiana Jones si becca sempre tutte le ragazze e ha reso di moda quel cappello da sfigato alla texana e la frusta da sadomaso. Ma non c'è solo la scarsa intraprendenza a bloccarci in uno stato di crisalide eterna. Esiste anche un motivo meno nobile (se possibile) della pigrizia ma che tutti, se ci mettiamo una mano sul cuore, riconosceremo come nostra: mantenendo le etichette, ci si può crogiolare nell'autocommiserazione di un destino già segnato in partenza e in buona parte definito da altri. E' quanto accade ad esempio a Sophie, la protagonista del libro Il Castello Errante di Howl, che si lascia marchiare dallo stigma della primogenitura, che nel suo mondo sancisce il destino di una vita triste e anonima. Sophie è così impegnata a vedersi sotto le frange di quella parola, che non si arrischia a sfidare la sorte, a cercare un futuro migliore per sé, che le calzi meglio, ma preferisce continuare a lamentarsi dietro al bancone della sua cappelleria, incastrata in abiti che non le appartengono e in una vita che non desidera. In fondo, essere primogenita le dà la sicurezza di non avere chances e quindi di non doversi rimproverare nulla nel non provarci. Nessuna sliding door per lei, nessuna scelta la porterà verso un futuro diverso da quello a lei già confezionato addosso.
La stessa cosa accade a noi ansiosi sociali, che sappiamo già che il nostro destino è quello di essere una sedia vuota che brilla per la nostra assenza. Noi siamo il vuoto. Siamo il vuoto di quella sedia, il vuoto di una bocca parlante, il vuoto di uno spazio accanto a qualcuno. Non siamo vuoti, ma siamo il vuoto. Siamo un vuoto spaziale, che ci viene dato ma che rifiutiamo per poi soffrire per non averlo occupato. E siamo così certi di essere quel vuoto che ad un certo punto smettiamo di lottare e ci rassegniamo al nostro destino. Vediamo tutto sotto la lente di quella parola, e nulla di quanto ci accade può essere interpretato sotto altra veste, esattamente come accade a Sophie. La ragazza, pur vivendo incredibili avventure, incontrando Maghi, cani-uomo, castelli erranti e demoni di fuoco, continua a sentirsi la stessa primogenita destinata al piattume di una vita senza scossoni. Allo stesso modo, noi ansiosi sociali possiamo fare qualsiasi cosa, essere scrittori dotatissimi, pittori dal gusto più raffinato o brillanti piloti di tappeti volanti, ma quando ci chiederanno cosa stiamo facendo in questo periodo, finiremo come sempre con il sentirci dei poveri inetti che non combinano mai nulla nella loro vita. Il punto è quindi prendere coraggio e iniziare a darci altri nomi, oltre a quello principale. Prendere un pennarello e aggiungere un'altra definizione alla nostra etichetta, lì, proprio accanto al nostro marchio di fabbrica. E non fraintendetemi, non sto cercando di fare una paternale da saggia eremita dall'altro lato del computer. Non ho di certo ambizioni da mago di Oz, io. Prendetelo più come un promemoria che faccio a me stessa, come una di quelle fastidiose sveglie mattutine che vorresti sbattere contro il muro con tutta la forza iraconda che possiedi. Le sveglie sono fastidiose, ma pur sempre utili. E io ogni tanto ho bisogno di darmi uno scossone per uscire dal mio torpore da lumaca spiaggiata su una saliera. Quindi, coraggio Duille, arraffa quel pennarello e inizia il tuo mantra. Sii più di ciò che credi, sforzati di trovare nuove parole per te stessa. Scovale come i più pregiati e puzzolenti tartufi di bosco e scrivile su tutto il corpo, intorno a quella che già ti ammanta come una tuta da sub. E col tempo, vedrai che piano piano le vecchie parole svaporeranno lentamente, come meduse sul lido, per citare Thomas Mann.
E allora, pulizie di primavera, arrivo!
Penso che potremmo addirittura far risalire la nascita delle etichette al nostro periodo più primordiale, quando eravamo poco più che animali. In effetti, se ci pensate bene, le etichette sono il nuovo modo con cui ci annusiamo reciprocamente le chiappe senza scadere nelle molestie. A volte inflitte o autoinflitte, a volte attribuite, a volte vere e talvolta false, a volte esposte o addirittura ostentate, a volte rivelatrici o più spesso evidenzianti l'ovvio, le etichette ci parlano di noi ai nostri occhi e a quelli del mondo. Ma quei pezzettini di stoffa alla base del collo possono essere anche molto pericolosi, possono pizzicare, essere fastidiosi o addirittura produrre un doloroso eczema allergico, soprattutto quando diventano l'unica parola che ci rappresenta. E badate bene, in questi casi non possiamo sciacquarci la coscienza scaricando la colpa a qualcun altro, sia essa la società, la cultura ipermoderna, il compagno di scuola che sembra essersi insignito del ruolo di etichettatrice automatica o improvvisandoci vecchietti arrabbiati con i giovani maleducati di oggi, perché (e vi svelerò adesso un'ovvietà più evidente di un lama sulla scrivania) anche quando quell'etichetta ci è stata cucita addosso da altri, siamo noi a ricamarla con filo di acciaio, a bruciarla sulla nostra pelle per sempre, ad inciderla un po' ovunque lungo tutto il corpo, in arabeschi e ghirigori che scivolano sul decumano delle gambe, che attraversano i meridiani dei nostri fianchi e le longitudini delle nostre spalle.
Alla fine ci ritroviamo a guardarci allo specchio e vedere quella parola scavata nelle nostre occhiaie, schiacciata sulle sopracciglia o penzolante agli angoli delle labbra. Siamo un tatuaggio vivente che si ripete all'infinito, senza un inizio e senza una fine, identico a se stesso e dolorosamente piatto. E scegliamo di lasciarcelo. Lasciamo che quell'etichetta ci definisca al punto da annullarci e da farci dimenticare tutte le parole che arricchivano il nostro vocabolario, rendendoci pappagalli spiumati che urlano sempre lo stesso suono con voce gracchiante da autoradio rotta, nella speranza che tra le righe filtri anche il resto, se un resto esiste. L'unica differenza tra noi e i pappagalli è che loro sono comunque più interessanti, perché sanno dire qualcosa laddove il genere pennuto non è in grado di farlo; noi, che l'eloquenza l'abbiamo ormai sdoganata come razza, sembriamo soltanto noiosi, diventiamo induttori naturali di sbadiglio, roba che se mai un giorno inventassero una energia alternativa che si nutre di sbadigli, avremmo il lavoro assicurato per vent'anni. Mentre però aspettiamo la rivoluzione copernicana che ci salverà la vita permettendoci di adagiarci nel nostro giaciglio stigmatico, ci ritroviamo ad essere osteggiati dagli altri e da noi stessi, annoiati dalla nostra similitudine ad un cartellone pubblicitario di un dentifricio, che inizia e finisce lì, al primo colpo d'occhio. Ognuno di noi ha il suo marchio, più o meno voluto, più o meno cicatrizzato, più o meno familiare. Sta a noi non lasciare che quel segno ci oblii a noi stessi, facendoci vedere le nostre possibilità e la nostra identità solo filtrate attraverso le curve di quella parola incisa anche sulla retina. Uscire da quelle sillabe che ci calzano come un guanto è piuttosto difficile, anche quando siamo dolorosamente consapevoli, quindi inutile pensare che una predica ben assestata dia il colpo di grazia alla nostra confortevole permanenza nel sottoscala di Harry Potter, anzi!
Di solito questi discorsi da coach motivazionale hanno il solo effetto di far venire istinti omicidari anche al più tenue agnellino o, nel mio caso, fanno uscire il mio lato bronx, tutto orecchini a cerchione, ditino alzato e linguaggio da scaricatore di porto. No, lo sappiamo tutti che le etichette sono come le sanguisughe: una volta che si attaccano diventa abbastanza difficile scrostarle via. Il problema è che se ci facciamo l'abitudine ci convinciamo che tutto ciò che ci sia da dire di noi sia inscritto in quel minuscolo inci che costeggia il nostro collo e tutto il corpo ne risente. Anche la nostra postura finisce col riprendere le curve delle lettere che la compongono, rendendoci molto simili a dei cactus cresciuti in un sifone o a quelle curiose angurie che vivono la loro vita dentro contenitori dalle forme quadrate. Sì, in sostanza diventiamo angurie quadrate. Solo che noi, a differenza delle angurie, abbiamo il vantaggio del libero arbitrio e la ridicola tendenza a non usarlo. E perché fare una cosa del genere? Perché trasformarci in Quasimodi del XXI secolo? Perché essere angurie quando si può essere mongolfiere? Io, che parlo dall'alto della mia saggezza ansiogena, penso che sia perché è più facile. Non è un caso che esista il famoso detto "meglio un male conosciuto che un bene sconosciuto": in effetti riassume perfettamente la scarsa attitudine al rischio di tanti di noi, che hanno preso un po' troppo alla lettera gli insegnamenti di Benit Gabor ne La mummia e che invece hanno snobbato completamente le massime dell'Indiana Jones dei tempi d'oro. Dovremmo essere più Indiana Jones e meno Benit, anche perché il povero Benit è finito sbranato dai coleotteri, mentre Indiana Jones si becca sempre tutte le ragazze e ha reso di moda quel cappello da sfigato alla texana e la frusta da sadomaso. Ma non c'è solo la scarsa intraprendenza a bloccarci in uno stato di crisalide eterna. Esiste anche un motivo meno nobile (se possibile) della pigrizia ma che tutti, se ci mettiamo una mano sul cuore, riconosceremo come nostra: mantenendo le etichette, ci si può crogiolare nell'autocommiserazione di un destino già segnato in partenza e in buona parte definito da altri. E' quanto accade ad esempio a Sophie, la protagonista del libro Il Castello Errante di Howl, che si lascia marchiare dallo stigma della primogenitura, che nel suo mondo sancisce il destino di una vita triste e anonima. Sophie è così impegnata a vedersi sotto le frange di quella parola, che non si arrischia a sfidare la sorte, a cercare un futuro migliore per sé, che le calzi meglio, ma preferisce continuare a lamentarsi dietro al bancone della sua cappelleria, incastrata in abiti che non le appartengono e in una vita che non desidera. In fondo, essere primogenita le dà la sicurezza di non avere chances e quindi di non doversi rimproverare nulla nel non provarci. Nessuna sliding door per lei, nessuna scelta la porterà verso un futuro diverso da quello a lei già confezionato addosso.
La stessa cosa accade a noi ansiosi sociali, che sappiamo già che il nostro destino è quello di essere una sedia vuota che brilla per la nostra assenza. Noi siamo il vuoto. Siamo il vuoto di quella sedia, il vuoto di una bocca parlante, il vuoto di uno spazio accanto a qualcuno. Non siamo vuoti, ma siamo il vuoto. Siamo un vuoto spaziale, che ci viene dato ma che rifiutiamo per poi soffrire per non averlo occupato. E siamo così certi di essere quel vuoto che ad un certo punto smettiamo di lottare e ci rassegniamo al nostro destino. Vediamo tutto sotto la lente di quella parola, e nulla di quanto ci accade può essere interpretato sotto altra veste, esattamente come accade a Sophie. La ragazza, pur vivendo incredibili avventure, incontrando Maghi, cani-uomo, castelli erranti e demoni di fuoco, continua a sentirsi la stessa primogenita destinata al piattume di una vita senza scossoni. Allo stesso modo, noi ansiosi sociali possiamo fare qualsiasi cosa, essere scrittori dotatissimi, pittori dal gusto più raffinato o brillanti piloti di tappeti volanti, ma quando ci chiederanno cosa stiamo facendo in questo periodo, finiremo come sempre con il sentirci dei poveri inetti che non combinano mai nulla nella loro vita. Il punto è quindi prendere coraggio e iniziare a darci altri nomi, oltre a quello principale. Prendere un pennarello e aggiungere un'altra definizione alla nostra etichetta, lì, proprio accanto al nostro marchio di fabbrica. E non fraintendetemi, non sto cercando di fare una paternale da saggia eremita dall'altro lato del computer. Non ho di certo ambizioni da mago di Oz, io. Prendetelo più come un promemoria che faccio a me stessa, come una di quelle fastidiose sveglie mattutine che vorresti sbattere contro il muro con tutta la forza iraconda che possiedi. Le sveglie sono fastidiose, ma pur sempre utili. E io ogni tanto ho bisogno di darmi uno scossone per uscire dal mio torpore da lumaca spiaggiata su una saliera. Quindi, coraggio Duille, arraffa quel pennarello e inizia il tuo mantra. Sii più di ciò che credi, sforzati di trovare nuove parole per te stessa. Scovale come i più pregiati e puzzolenti tartufi di bosco e scrivile su tutto il corpo, intorno a quella che già ti ammanta come una tuta da sub. E col tempo, vedrai che piano piano le vecchie parole svaporeranno lentamente, come meduse sul lido, per citare Thomas Mann.
E allora, pulizie di primavera, arrivo!
sabato 23 maggio 2015
Dentro i flutti di un'esistenza in tempesta: Di donne e altre onde
Parlare di vite è difficile, talvolta impossibile. Le vite sono lunghe, articolate, complesse, dispersive, solitarie anche nella folla. Seguire un filo solo sembra inevitabilmente riduttivo, soprattutto perché ogni vita è la somma di tante altre, passate o presenti, perdute nei ricordi o ben chiare davanti agli occhi. Raccontare una vita che soffre, poi, è ancora più difficile, ancora più pericoloso. Si rischia di cadere nella banalità, di essere superficiali oppure di andare troppo a fondo e di annoiare. Si può cedere al moralismo o alla freddezza documentaristica. Si può essere troppo emotivi diventando tutto cuore e poco sguardo. E allora, come raccontare una vita e, tra queste, una vita che soffre? Roberta Lagoteta ha trovato un modo tutto suo, originale quanto rischioso, funambolico oserei dire, di narrare l'esistenza di un'onda, come la chiama lei stessa, e delle altre creature marine che le passano vicino.
Di donne e altre onde è, in effetti, un testo che parla di esistenze ed in particolare di quelle esistenze marchiate dalla dipendenza, dal dolore, dal sangue e dalle lacrime. L'autrice sceglie di raccontare questa storia affidando la parola all'unica persona che avrebbe diritto a detenere questo scettro vocale: la sua protagonista, Azzurra. Ma Azzurra non è una ragazza qualunque, non si limita a salire la scala della sua vita un gradino dopo l'altro, ma preferisce accompagnarci per mano nella sua mente, renderci fantasmi tra i suoi neuroni, spettatori di uno stream of consciousness che inizia con la prima pagina e si concluderà solo con l'ultima parola di questo romanzo. D'altronde raccontare una vita significa dare voce ad un pensiero, ad una coscienza che vaga, avanti e indietro, senza ordine e direzione, senza alcuno scopo se non quello di esistere, come un filo di cotone nel vento. Un linguaggio inusuale, difficile, che mette alla prova, che testa la nostra resistenza e la nostra caparbietà. Ci sfida a non desistere di fronte a questo flusso che salta i gradini, che ritorna sui suoi passi, che si ferma sul posto o corre a perdifiato la rampa di scale di questa esistenza addolorata, in fuga da delle vite che l'hanno resa sensibile al punto da scarnificarsi e che trova nella dipendenza l'unico filtro tra la propria pelle ustionata e il mondo radioattivo che la circonda. Il pensiero di Azzurra è il vero protagonista di questa storia, cresce con lei, con il suo corpo, con i suoi seni, con le sue gambe, i suoi capelli e con il suo cuore, e cambia con l'ammucchiarsi degli anni e delle esperienze sulle sue guance e sulla sua pelle.
Inizialmente lineare e cosciente, il pensiero di Azzurra racconta l'evoluzione di un'esistenza al principio fatta di piccole routine e di ghirigori sui bordi di un foglio di carta, in un lucido susseguirsi di eventi fondamentali ma incredibilmente comuni: una gita al mare, un litigio tra i genitori, un pranzo davanti alla tv con nonna Rina, un amore sbocciato durante un concerto. Ma con l'arrivo della dipendenza che tutto spezza e tutto cancella, anche il pensiero di Azzurra si spezza e cancella, scivolando con noi al di fuori del tempo, oltre il ticchettio dell'orologio, giù nel pozzo del Bianconiglio, cadendo al rallentatore, suicidandosi lentamente, mentre si cerca di afferrare frammenti di ricordi che, stranamente, non combaciano mai tra loro. Intorno a quei ricordi spezzati, Azzurra cuce ghirigori di riflessioni che a volte risultano criptici, inafferrabili, gli stessi scarabocchi complicati con cui la ragazza dava senso ai propri quaderni di scuola, ma a cui nessuno, a parte lei, dava peso. E' il momento del buio silenzio della droga che confonde tutto e dei tentativi di dar loro un senso. Interi blocchi di tempo semplicemente sfuggono, ubriacando anche il lettore di quello stordimento che la protagonista ricerca disperatamente, per poi riapparire bruscamente, catapultandoci in un presente confuso, svaporato, fuori dal mondo e ancora un po' fuori dal tempo. Un tempo che fluisce indipendente dalla protagonista, che scivola, imprendibile, sempre ad un passo oltre la vita di Azzurra, ridotta ormai ad un' esistenza ripetitiva, inconsapevole, attorcigliata su di sé, schiacciata sul proprio asse, in continuo movimento, ma solo destinata a soffocarsi tra le sue spire. Si ha la sensazione di una vita in apnea, fatta di sonni dimentichi e bruschi risvegli che confondono la protagonista e destabilizzano il lettore. Sta proprio in questo racconto frammentato, fatto di bolle di sapone afferrate e poi scoppiate, che troviamo la sfida dell'autrice a noi indirizzata. Il lettore, di fronte a questo movimento confuso e altalenante del racconto, che salta da un risveglio impastato all'altro e da un tempo a quello precedente o successivo, ha la sensazione di perdere egli stesso il filo del discorso.
A volte si ha la sensazione di essere catapultati fuori dai binari del pensiero che la protagonista snocciola come semi di ciliege mangiate in fretta e ci si ritrova ad assemblare il puzzle della sua vita pezzo per pezzo, raccogliendo i tasselli sparsi nel romanzo con la pazienza di un collezionista, sopportando la frustrazione di non capire sempre e di non comprendere tutto. C'è una storia, ma nascosta in una vita di fughe dal dolore, come un filo rosso all'interno di uno scatolone pieno di ritagli di giornale. Sta al lettore farsi strada in quell'oceano di ritagli, in quelle pagine di diario strappate e buttate alla rinfusa, sconosciute anche al loro padrone, incatramate in un dolore senza speranza, mascherate dalla cinica ironia e dalla disillusa consapevolezza della caducità della vita percepita da Azzurra, che può solo sentire se stessa nei rintocchi di una campana funebre, ma che non si comprende fino in fondo, per quanto disperatamente bramosa di rivelarsi a se stessa. Non si tratta certo di un libro facile, né come tematica né come stile, che può risultare a tratti eccessivamente aulico. E' un esercizio di raffinatezza stilistica, la liberazione da ogni debito verso il lettore, a cui non si deve nulla. Il debito dell'autrice è infatti totalmente rivolto ad Azzurra, Azzurra a cui ha donato quelle pagine bianche affinché ne facesse ciò che desiderasse. Il lettore può solo scegliere se accettare di essere messo da parte, di non essere più il destinatario di quella storia ma solo spettatore accidentale di un pensiero che, come un filo di lana, cerca di riavvolgersi alla ricerca del suo gomitolo. Se accetterete questo, potrete capire - e non capire - questo racconto dalle tinte forti e poetiche, ironicamente sottile e pesantemente tragico, a tratti faticoso e disturbante, bucato nel fluire come è bucata la vita di Azzurra. Se tollererete di essere bucati, dimenticati e dimenticanti, incrostati, allora là, nel grumo di una lacrima, troverete anche lei.
Duille
"Vieni al riparo nel mio nido di dita, nessuno potrà più ferirti"
Etichette:di donne e altre onde,il baule in soffitta | 8
commenti
sabato 16 maggio 2015
What does the fox say?
In quanto ansiosa sociale ho sempre dovuto lottare con desideri irraggiungibili, opportunità mancate e strade evitate per paura. Quando si rinuncia a qualcosa a cui si tiene molto, la frustrazione arriva a pacchi raccomandati e con ricevuta di ritorno e può diventare complicato portarsi questi sacchi di sabbia in giro per la vita quando il postino della tristezza si presenta due o tre volte a settimana. In poco tempo ci si ritrova con la casa inondata di sacchi di iuta di dimensioni variabili che fanno capolino da ogni angolo e che si cerca di camuffare come meglio si riesce: creando dei divani in stile "fabbrica del caffè del Mississipi", trasformandoli in morbide cucce per il cane, il gatto e il porcellino d'india e, quando si è davvero disperati, usandoli come mattoni per il fortino anti pirati che si è sempre desiderato fin dalla tenera età. Ad un certo punto però, di fronte a tutti questi mobili di sacchetti, ci si comincia a sentire un po' stanchi del monocromatismo e anche il sedere comincia a pizzicare un po' per tutta quella iuta che fodera divani, sedie, lenzuola, tavolette del water e asciugamani. Di fronte a questa situazione da sepolti in casa, con il rischio continuo di essere davvero schiacciati dalla montagna di borse impilate alla meglio in ogni angolino libero, ci si deve difendere come si può, soprattutto quando si ha l'ansia sociale.
Ognuno trova il suo modo: alcuni ignorano il problema, altri evitano situazioni che possano offrire l'occasione all'ansia di fornire i simpatici gadget di consolazione succitati, altri ancora scavano una fossa aperta, ci buttano dentro i sacchi e poi si tuffano in quella piscina di frustrazione e tristezza affogandoci lentamente dentro, dopo aver dato un drammatico addio alla vita con tanto di lacrimuccia e teatrale mano sulla fronte. Io posso dire di averle provate un po' tutte, compreso il tuffo carpiato da melodramma siculo nella sconsolazione. Recentemente però ho trovato un nuovo modo per difendermi dal dolore dei fallimenti e dalla delusione. Non so se si possa definire una tecnica salutare e sana come potrebbe essere una mela succosa lanciatami tra le mani direttamente dal campo in cui è stata coltivata ("Marleeeeneeee") oppure se si tratti di una nuova forma di intossicazione simile a quelle droghe dai nomi pittoreschi che ti infilano in tasca il biglietto da visita della morte. Solo il tempo potrà rendere conto della bontà di questo nuovo metodo. Sicuramente però è efficace e mi toglie dall'impiccio di dover riciclare e reinventare ogni volta i miei sacchi di frustrazione, che nessuno vuole neanche regalati. Per questo metodo mi sono ispirata alla celebre favola di Esopo "La volpe e l'uva", un racconto noto a tutti e diventato allegoria di coloro che, di fronte alla sconfitta od impossibilitati ad ottenere qualcosa, sottolineano i difetti veri o presunti dell'oggetto conteso finendo con il disprezzarlo e negarne il desiderio. Sappiamo tutti che si tratta di una favola che porta con sé un alone di rimprovero nei confronti di questa volpe golosa che però appare del tutto incapace di accettare la sconfitta. Si può quasi sentire la puzzetta di ipocrisia aleggiare dietro la coda della nostra amica pelosa. Io credo però che, se si gira un po' la testa di lato, si arriccia il naso e si aguzza la vista, si possa ribaltarne la morale, rendendola addirittura un modello di virtù.
In effetti, se ci si pensa bene, la volpe ci insegna come essere felici. Lo so, sembra che l'abbia sparata grossa o, più volgarmente, che l'abbia fatta fuori dal vaso, ma suvvia, in fondo, se vi ascoltate bene, non sentite una parte di voi che annuisce dicendo con la sua vocina da vecchia nonna "Io l'ho sciempre pensciato"? No? Allora lasciatemi argomentare e convincere il vostro scettico sopracciglio aggrottato lassù, sopra l'occhio. La volpe che non può raggiungere l'uva, invece di struggersi per ciò che non ha potuto ottenere, decide semplicemente di ricordarsi che nulla è perfetto e non lo è neanche quella succulenta, luccicante uva baciata dal sole di settembre. E attenzione, questo non significa denigrarla o disprezzarla, ma vagliare tutte le possibilità che fino a quel momento, colpa lo stomaco gorgogliante o il cuore palpitante, non si erano considerate. Infatti la nostra saggia volpe si ricorda che non vale la pena struggersi per dell'uva che probabilmente è anche acida. Non si tratta di ipocrisia, ma di semplice matematica, calcolo delle probabilità, lista dei pro e contro, esame di realtà o comunque la vogliate chiamare. Non viviamo in un mondo bianco e nero, ma in una stampa in scala di grigi, oppure potremmo dire che in ogni cosa esiste lo ying e lo yang, il dolce e il salato, la vasca delle palline e quella delle sabbie mobili. La nostra volpe si fa portavoce di questo pensiero e io semplicemente faccio la stessa cosa per non essere seppellita dalle sabbie del Sahara o peggio, per non ridurmi a collezionare i miei sacchetti di tristezza annotandone data e ora come il miglior nostalgico pieno di rimpianti. Ma come applicare alla vita di tutti i giorni questa massima? In realtà è molto semplice e sorprendentemente liberatorio. Facciamo un esempio. In quanto ansiosa sociale le mie possibilità di avere un ragazzo sono pari a quelle di essere colpita da una cicogna sulle cui ali si è incastrato un meteorite cosmico sviluppando così la capacità di volare? Beh, pazienza. Significa che sarò risparmiata dalla depilazione infinita, dalle paranoie dettate dall'insicurezza, dalla biancheria di pizzo elegante ma comoda come il letto di un fachiro, dall'incontro con i suoi genitori con inevitabile inizio della guerra fredda con sua madre, dalla terrifica presentazione ai suoi amici a cui dovrò fare di tutto per piacere, anche se ciò dovesse significare funambolare su un filo interdentale con una tazzina sul naso recitando a memoria il Macbeth di Shakespeare, dal discutere di religione, politica, società, valori rischiando di rimanere terribilmente delusa quando scoprirò che lui è a favore del disboscamento selvaggio o è un simpatizzante di Scientology, dall'essere inevitabilmente condizionata dai suoi umori, dai suoi gusti e dalla paura, patologicamente mia, di essere abbandonata perché poco interessante o a causa del mio comportamento, sapendo già che, ai miei occhi, sarò
un disastro su tutta la linea e che finirò col rimproverarmi per essere troppo spaventata, troppo timida, troppo insicura, troppo ansiosa, troppo inibita, troppo pigra, troppo carente. E questo nonostante tutta la fatica e le oceaniche distese di stress che dovrei affrontare semplicemente per convincermi ad accettare di andare con lui a prendere un caffè, con buona pace delle mie rughe. Tutto sommato, non avere un ragazzo mi concede una certa libertà, un cuore tutto mio che è condizionato solo da me stessa e che non devo condividere con nessuno, oltre che a ritmi personali che non devo adattare e a cui nessuno si deve adattare. Come vedete non si tratta di denigrare l'altro, ma di vedere il lato positivo della questione, il classico bicchiere mezzo pieno, per intenderci. Certo, un bicchiere di plastica con una bel taglio laterale, ma pur sempre un bicchiere. Il bicchiere che mi è stato concesso e che per ora mi devo far bastare. L'unica cosa che posso scegliere al momento, aspettando i saldi dell'IKEA, è la prospettiva da cui guardare le cose. E posso scegliere se crogiolarmi nell'arsura di una gola secca, di labbra screpolate di fronte a quell'aria che riempie il mezzo bicchiere prosciugandomi, oppure se bere a grandi sorsate l'acqua fresca proveniente da quella metà allegramente liquida e sciabordante di vita che è il mio bicchiere. La volpe ha scelto il bicchiere mezzo pieno. Io scelgo di seguire la volpe.
Duille
Etichette:ansia sociale,da un'altra prospettiva | 4
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- Eccomi! Sono una scrittrice in erba, divoratrice di libri, sognatrice professionista e ansiosa sociale multicorazzata. Ho la fissa dei ricordi, la testa fin troppo tra le nuvole, interessi disordinati, un amore impossibile per gli alberi e una passione al limite del ridicolo per le serie tv. Ah, e le presentazioni non sono proprio il mio forte. Si vede?
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